Il valore della conoscenza scientifica

La dimostrazione dei risultati della ricerca, l’analitica descrizione dell’oggetto la correggibilità del processo conoscitivo sono le garanzie della scienza. Ma non è sempre stato così

Su questo tema mi limito ad alcuni stimoli di riflessione, poiché a tuttoggi rimane aperta la discussione dei filosofi circa una soddisfacente definizione di ‘scienza’ e, a maggior ragione, ancora si dibatte sul suo valore.

Pertanto, alla storica domanda posta da Kant, se sia possibile una scienza universale da tutti condivisibile nei fini e nei sentieri di ricerca, la risposta, se non è del tutto ascrivibile al più completo scetticismo, è ancora vaga, o utopisticamente esaltante, oppure si confonde con una speranza: quella appunto che la scienza sia in grado di soddisfare la richiesta di un continuo ampliamento dei confini della conoscenza, ma anche di una soluzione dei problemi che l’uomo sente più impellenti e determinanti per la sua esistenza.

Due sono i quesiti che su questo argomento si mostrano ancora oggi estremamente interessanti: qual è il fondamento valoriale della conoscenza scientifica? E perché noi uomini dell’occidente continuiamo a dare valore prioritario alla scienza che pure si mostra in crisi di fronte alla complessità della società globalizzata?

L’uomo, fin da bambino, manifesta la sua intelligenza assumendo un atteggiamento curioso, indagatore, aperto al nuovo. Pur nel timore che qualche pericolo possa incombere sul suo cammino, egli procede arditamente, ottimizzando le risorse, armandosi di strumenti sempre più progrediti per tentare nuovi orizzonti e scoprire nuove vie. Potremmo dire che la scienza si fondi su questa sete di sapere innata nell’uomo, sulla sua capacità di problematizzare il reale, nei suoi reiterati tentativi di giungere sempre oltre i limiti apparentemente insormontabili che gli si parano dinanzi (“fatti non foste a viver come bruti…”), cercando di consegnare ai posteri i risultati della propria ricerca perché l’umanità tutta possa trarne vantaggio.

 Facendo nostro l’assunto aristotelico che “Non c’è scienza senza meraviglia”, certamente possiamo affermare che il bisogno di confrontare le esperienze particolari che rischiano di disperdersi e, appunto, di non essere valorizzate, ha fatto sì che la nostra cultura occidentale abbia riconosciuto indiscutibilmente alla scienza una autorità preminente, intendendola come unica conoscenza che include la garanzia della propria validità. Le garanzie che la scienza ci dà consistono nella dimostrazione dei risultati della ricerca, nella analitica descrizione dell’oggetto, nella correggibilità del processo conoscitivo.

Ma non è sempre stato così.

Mi sembra necessario, a questo punto, inserire un breve accenno ai significati che la scienza ha assunto nel corso del tempo.

Il pensiero greco classico elaborò un’idea di scienza come epistéme, sapere razionale rivolto alla conoscenza dell’universale e capace di dare conto del proprio fondamento e del proprio metodo: la scienza così intesa, come conoscenza dimostrativa, risultava non solo opposta all’opinione (doxa) e alla conoscenza puramente empirica, irriflessa e di routine, ma anche, per il suo carattere disinteressato e puramente speculativo, gerarchicamente superiore al sapere applicativo delle téchnai, pur necessarie all’uomo.

L’età ellenistica ereditò tale concezione, ma la rielaborò profondamente all’interno di mutate condizioni sociali, economiche e istituzionali. Il dato di fondo dell’idea ellenistica di scienza è l’autonomizzarsi delle discipline scientifiche che produsse un rigoglioso sviluppo della ricerca, ma al contempo parve segnare una crescente separazione tra il sapere scientifico e una filosofia che conservava la sua ambizione di conoscenza dell’universale, ma con prevalenti finalità etico-pratiche.

Nel Medio Evo prevale il ricorso alle auctoritates, prima fra tutte quella di Aristotele, cui ricorrere per rafforzare una visione della sapienza riconducibile alla composizione iconografica di un rosone: al centro la filosofia a cui tutte le arti, e cioè le scienze, convergono per scongiurare il rischio che l’attività intellettuale diverga dal suo fine: la sapienza aperta alla rivelazione divina.

Nell’età moderna sapere tecnico e scienza si uniscono per capire e vincere la natura, interpretata quantitativamente e meccanicisticamente. La matematica e la geometria assumono un ruolo prevalente, manifestando con chiarezza il carattere sistematico, unitario, organizzato e intersoggettivo della ricerca.

Osservazione, misurazione, sequenzialità, rigore, astrazione, oggettivazione, logica stringente, definizioni univoche, correttezza di procedimento, rispetto del rapporto causa-effetto: proprio questo nuovo atteggiamento sperimentale e, nel contempo matematicamente rigoroso, costituisce la chiave di volta della concezione scientifica dell’epoca, dando luogo a quella che viene definita la prima rivoluzione scientifica.

La verità scientifica è un’ipotesi confermata sperimentalmente ed è proprio il metodo matematico sperimentale, elaborato nel ’600, che dà valore e credibilità alla scienza e ad esso è ancora in buona parte legata la mentalità scientifica odierna che riconosce nelle seguenti caratteristiche le basi irrinunciabili per il fondamento valoriale della conoscenza scientifica stessa:

– l’esperienza e la ragione rappresentano una garanzia di verità più certa delle antiche dottrine (critica al principio di autorità che aveva caratterizzato le epoche precedenti).

– si sviluppa un nuovo metodo di conoscenza scientifica che coniuga accurata
osservazione sensibile, rigore dei concetti e dei procedimenti matematici, convalida sperimentale delle teorie;

– gli strumenti prodotti dalla tecnica intervengono con un ruolo determinante nella ricerca scientifica. Matura anche per questo una più forte consapevolezza dell’utilità pratica del sapere scientifico a fronte dell’ideale contemplativo della scienza classica e medievale;

– si afferma la coscienza della natura aperta , non definitiva e progressiva del sapere scientifico e del suo carattere pubblico e non quindi iniziatico e sacerdotale tipico della magia.

Nasce il linguaggio scientifico moderno, ispirato a esigenze di rigore e chiarezza geometrica e intersoggettiva, insofferente del carattere vago e allusivo della terminologia tradizionale.

Nel Settecento si succedettero le prese di posizione contro quanti avevano la mania di generalizzare e l’ambizione di costruire dei sistemi. La Mettrie sosteneva che “nelle scienze fisiche non ci riferiamo che a delle osservazioni esatte e a delle esperienze ben fatte”. Quindi, contrariamente al secolo precedente, sembra che nel ‘700 il valore della scienza coincida con la sua a-sistematicità e con la sua meticolosità nell’ elencare e nel registrare dati di osservazione. Gli scienziati venivano descritti come tanti cottimisti della Natura, impegnati con fredda pazienza a raccogliere osservazioni e con glaciale prudenza a compiere esperimenti.

Ma anche in questo clima, che vorrebbe ridurre la scienza a pura descrizione dei fenomeni naturali, si alza una voce fuori dal coro, ed è una voce di donna (!) la marchesa di Chatelet: “In tutte le ricerche – ella scrive – è d’uopo di un incominciamento, e questo incominciamento deve quasi sempre essere un tentativo a dismisura imperfetto, e per lo più senza riuscita. Vi sono delle realtà incognite, come delle regioni, né si può in quelle trovare il buon sentiero, se non dopo di averne tentati tutti gli altri. Laonde conviene di necessità, che alcuni arrischino di smarrire, per additare la buona strada agli altri; si farebbe pertanto un gran pregiudizio alle scienze, e si ritarderebbero infinitamente i loro progressi col volerne sbandire le ipotesi, il che hanno a torto voluto alcuni filosofi moderni”. Ecco allora che riemerge con prepotenza la necessità di dar spazio all’ipotesi. Sembra già di sentire la voce di Poincaré che nel 1950 affermerà che “i fatti bruti non ci possono bastare, ecco perché ci serve la scienza ordinata o generalizzata. Si dice spesso che non si deve sperimentare con idee preconcette. Questo non è possibile; non solamente ciò equivale a rendere sterile ogni esperienza, ma anche se lo si volesse, non si potrebbe. Ciascuno porta in sé la propria concezione del mondo, di cui non si può disfare tanto facilmente”. Ecco una critica evidente alla pretese del positivismo ottocentesco e di ogni scientismo a ridurre la conoscenza della realtà a pura elencazione di dati, come se potessero parlare da sé soli e assicurare così il valore oggettivo della conoscenza scientifica.

Secondo recenti studi (Ferraris) proprio da Kant nascerebbe la convinzione che ogni esperienza sia costitutivamente intrisa di schemi concettuali; che niente trascenda questi schemi e non vi sia quindi altro mondo che quello già sempre organizzato dalle nostre categorie interpretative, e proprio queste categorie interpretative, che secondo Kant sono universali, permetterebbero alla Ragione di pervenire a giudizi scientifici, determinanti, universalmente validi. Ritorniamo così all’affermazione del valore universale della scienza, garantita dalla Ragione che accomuna tutti gli uomini. E per Kant questa Ragione universale è autonoma nel porsi i limiti, oltre i quali non c’è possibilità di conoscenza scientifica.

Kant, dunque, diversamente dai fautori del riduzionismo scientistico, non pensa ai confini tracciati dal perimetro della conoscenza scientifica come ad un ergastolo della ragione umana, ma li considera piuttosto come una specie di torre di avvistamento su un oceano di umane esperienze differenti da quelle della scienza, ma non per questo non valide o meno umane.

Ferraris s’impegna invece a smentire la presunta onnipresenza degli schemi concettuali, per rivendicare l’irriducibile autonomia dell’esperienza prescientifica, della “fisica ingenua” fatta di oggetti e percezioni (e non, poniamo, di quanti e particelle elementari), in cui il mondo esterno s’impone come una realtà sorprendente ed estranea a ogni concetto, ma proprio per questo inemendabile e sottratta quindi al processo infinito delle interpretazioni.

Inoltre: il mondo dell’esperienza e quello delle tecnoscienze non stanno semplicemente l’uno accanto all’altro, ma s’intrecciano e s’influenzano a vicenda, per cui il compito più urgente sembra proprio quello d’individuare il campo e le forme legittime di quest’intreccio. Può darsi che questo renda più friabile e dialettica anche l’opposizione tra ciò che è emendabile e ciò che non lo è – in altri termini, tra ciò che è frutto di ricerca empirica e ciò che è condizione di questa ricerca.

Wittgenstein, in proposito, ha tracciato un’immagine esemplare: quella del fiume delle contingenze empiriche e del letto in cui esso scorre. Il letto è sottratto alla contingenza, ma fino a un certo punto; la corrente lo erode e lo modifica, a tratti in modo impercettibile e a volte invece con una precipitazione improvvisa.

Può darsi che anche la distinzione tra ciò che è interno o esterno ai nostri schemi concettuali nasconda un’analoga complessità e richieda perciò un apparato concettuale flessibile e dialettico, a cui gli attuali paradigmi filosofici non sono ancora in grado di conferire la necessaria coerenza formale e la giusta presa sulla realtà. La scienza si riconoscerebbe allo snodo di questo traffico tra mondo interno e mondo esterno e il suo valore dipenderebbe dall’autonomia che essa riesce a mantenere rispetto alla contingenza, senza peraltro astrarsene.

Se oggi si può considerare tramontato definitivamente l’ideale classico della scienza come sistema compiuto di verità necessarie o per evidenza o per dimostrazione, non si possono tuttavia considerare tramontate tutte le caratteristiche di esso. Descrizione, calcolo, previsione controllabile, ripetibile, oggettiva, impersonale continuano a confortarci nella nostra fiducia nel procedere della scienza: “Io conosco x e quindi sono in grado di porre in opera una procedura che rende possibile la descrizione, il calcolo o la previsione di x”.

Ma fra le garanzie che la scienza ci assicura compare anche la correggibilità del processo. Nel ’900 infatti la scienza abbandona ogni pretesa di garanzia assoluta, si aprono nuove prospettive allo studio analitico degli strumenti di indagine di cui le scienze dispongono. Il presupposto è il fallibilismo di Peirce: la scienza invita al dubbio.

Il vecchio ideale scientifico dell’epistéme, della conoscenza assolutamente certa e dimostrabile, si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’obiettività scientifica rende inevitabile che ogni asserzione scientifica rimanga per sempre come un tentativo”, afferma Popper nel 1958; l’uomo non può conoscere, ma solo congetturare, per potersi autocorreggere.

Gli orizzonti si aprono sempre di più, la sete di conoscenza ci permette di addentrarci in ambiti che fino ad ora sembravano imperscrutabili, ma la scienza sa ancora mantenere la sua autonomia nella ricerca? Che cosa va ricercando? Il fine coincide ancora con il Bene per l’uomo, come sosteneva Platone nel Carmide? Che cosa la rende ‘valida’?

Nel suo Dizionario di Filosofia, Nicola Abbagnano conclude che “la migliore definizione di ‘Valore’ è quella che lo considera come una possibilità di scelta, cioè come una disciplina intelligente delle scelte, che può condurre ad eliminarne alcune o a dichiararle irrazionali o dannose, e può condurre (e conduce) a privilegiarne altre, prescrivendone la ripetizione ogni volta che certe condizioni si verifichino”. In altri termini si può affermare che noi diamo valore a ciò che esalta le autentiche possibilità di scelta, “cioè a quelle scelte che potendosi sempre ripresentare come possibili nelle stesse circostanze, costituiscono la pretesa del Valore alla universalità e alla permanenza”.

Poiché la scienza, nelle caratteristiche sopra enunciate, sembra offrirsi come disciplina intelligente delle scelte, ha certamente un valore intrinseco.

Nella descrizione analitica e sintetica dell’oggetto, lo scienziato manifesta inoltre il carattere attivo e operativo della scienza: si agisce sulla natura per dominarla, facendo previsioni sui fatti possibili, tramite le leggi che esprimono la possibilità (o l’illusione) di questo dominio, ma in questo modo di porsi, chi fa scienza non può mai dimenticare la sua natura di uomo che vive nel mondo e che, in modo autonomo e ‘disinteressato’, si
pone in ricerca. Ma l’uomo fa parte del mondo, non ha un posto a parte tra gli oggetti della considerazione scientifica e tali oggetti non sono da considerare come subordinati ai suoi fini e alle sue esigenze. La scienza non è costruita dall’uso delle cause finali, né da un atteggiamento antropomorfico, né da una razionalità pre-umana o super-umana, ma da una razionalità umana.

Quando l’uomo si riconosce parte di una totalità che lo ricomprende e può quindi assumere un atteggiamento disinteressato verso tutti i problemi e gli oggetti del mondo, lui compreso, abbiamo allora la scienza. Abbiamo cioè il riconoscimento dell’insufficienza dell’uomo a se stesso e perciò il riconoscimento del bisogno, del dubbio, dell’inquietudine, dell’incertezza e dell’indecisione, cioè del problema che sta all’origine del cammino della scienza.

L’uomo vive essenzialmente come problema e la scienza, che si pone come problema e conoscenza del mondo, nasce da questo atteggiamento fondamentale dell’uomo che è quello di esistere come problema. L’uomo dipende dal mondo, perciò ha bisogno di conoscere il mondo in modo ampio e non può accontentarsi di conoscenze puntualmente e provvisoriamente utilizzabili, ma cerca i modi più generalizzabili di utilizzazione, e perciò deve aprirsi a una conoscenza disinteressata della natura, cioè alla scienza che quanto più è disinteressata, tanto più è libera, critica, valida e anche “tecnica” e utile.

La storia della scienza, come quella di tutte le idee umane, è storia di sogni irresponsabili, di ostinazioni e di errori. Ma la scienza è una delle pochissime attività umane – se non l’unica – in cui gli errori vengono sistematicamente sottoposti a critica, e, sovente, corretti con l’andar del tempo” sostiene Popper; e nella società complessa gli errori sembrano meno controllabili e fanno paura.

Jonas, nel suo profetico saggio del 1979, Il principio responsabilità, parla addirittura di “euristica della paura, che non si limiti a scoprire e a raffigurare il nuovo oggetto, ma renda noto a se stesso il particolare interesse etico che ne risulta evocato” (senza che lo fosse mai stato prima d’ora).

Parla inoltre di primato della responsabilità dell’uomo per l’uomo che predispone ad assumere il coraggio di osare sempre nuove scelte di cui essere responsabili, senza che la ubris prevalga.

Il valore della scienza risulta così commensurabile con quello dell’uomo, che nel fare scienza scopre se stesso: il suo coraggio, i suoi timori, la sua capacità di progettare, di condividere i risultati della sua ricerca, promuovendo l’umanità di cui fa parte, “nel rispetto – sono ancora parole di Jonas – per ciò che l’uomo era ed è, rispetto recuperato dall’orrore dinanzi a ciò che egli potrebbe diventare, dinanzi a quella possibilità che ci si svela inesorabile non appena cerchiamo di prevedere il futuro”.

Docente di Filosofia e Storia al Liceo Scientifico E. Vittorini di Milano

Membro dell’Associazione Pedagogia Globale

Bibliografia

Abbagnano, N., Dizionario di Filosofia,Utet, 1961

Abbagnano,N., Il problema filosofico della scienza, 1947

Popper, K., The Logic of Scientific Discovery, 1958

Poincaré, H., Il valore della scienza, Dedalo, Bari, 1992

Poincaré, La scienza e l’ipotesi, Signorelli, Roma, 1968

Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino,1976

Ferraris, M., Mondo esterno, Bompiani, Milano, 2001

Gabrielle Emile de Breteuil marquise du Chatelet, Istituzioni di fisica, 1743