La mediazione culturale
Intervista a Yacine Sall*
Maria Piacente: Come vede l’accoglienza del bambino straniero in Italia dal punto di vista della Sua professione?
Yacine Sall* L’accoglienza del bambino straniero in Italia sulla base della mia esperienza sia come mediatrice culturale – formatore sia come assistente sociale, evidenzia, ancora oggi, molte difficoltà sia per gli operatori sia per le famiglie. La scuola, ambito privilegiato di formazione e di istruzione, vive, in realtà, una situazione di etnocentrismo che non permette la conoscenza e la valorizzazione delle culture altre. Il risultato è uno scarso, quando non completamente assente, scambio culturale: ciò che potrebbe permettere al minore straniero di sentirsi pienamente accolto e coinvolto nel gruppo e nella società scolastica. Inoltre dal punto di vista didattico, la scarsa conoscenza della lingua italiana da parte di alcuni minori pone il problema dell’alfabetizzazione degli stessi. Attualmente in diversi ambiti, delle esperienze di alfabetizzazione e di mediazione linguistico – culturale sono portati avanti. Ciò permettere di attuare “ponte” che collega realtà, usi e costumi spesso diversi e per favorire al meglio la formazione dei minori. La famiglia: dal punto di vista socio – assistenziale e socio – sanitario, gli interventi a favore dei nuclei familiari immigrati, incontrano non poche difficoltà. Gli interventi sono spesso attuati in conformità a modelli occidentali che non sempre aiutano a capire ed a strutturare delle azioni. Il lavoro con le famiglie immigrate necessità di una forte capacità di mediazione tra culture diverse, tra lingua e linguaggi diversi. Ciò permette di rendere il più possibile comprensibile aspetti come il significato di salute e malattia, di benessere e di malessere, di cura ecc.. La comprensione di questi significati aiuta ad esplicitare i messaggio sia verbali che non verbali per istaurare un clima di empatia e di buona relazione. La presa in carico delle famiglie straniere e del minore è spesso effettuato in modo riparativo quasi mai preventivo e gli interventi risultano frettolosi e senza progetti; ciò è dovuto alla mancanza di strumenti da parte degli operatori che si devono confrontare con realtà molto complesse. Diventano importanti quindi formazione, aggiornamento, oltre ad un ripensamento delle metodologie per calare l’azione in una società che, da multiculturale, speriamo diventi interculturale.
M.P.: E’ opinione corrente che nel passaggio da una cultura del conflitto ad una caratterizzata dalla negoziazione, un ruolo importante possa averlo la sensibilità femminile, tanto più se riferita alla trasformazione della nostra società in senso multiculturale. Cosa ne pensa?
Y.S.: La donna in un contesto di immigrazione soprattutto se ha il nucleo familiare in seguito
é la mediatrice – negoziatrice per eccellenza tra mondo interno (la sua cultura) e mondo esterno (la cultura del paese di ” accoglienza”). Ella è molto più portata ad avere uno sguardo più attento, più profondo, più proiettato nel futuro in materia di tematiche della famiglia. La mia esperienza ha evidenziato come la donna immigrata sia portatrice di cambiamento; é lei nelle sue relazioni di tutti i giorni con o senza figli a frequentare in larga misura i servizi (consultori, scuole, ospedali, servizi alla persona ecc.). La donna immigrata, nei suoi rapporti quotidiani è continuamente confrontata, soprattutto se ha figli, a negoziare, a mediare tra culture diverse. Questa mediazione che vuole tenere salde le acquisizioni culturali fondanti dell’identità aprendosi, insieme, alla società di accoglienza, tocca tutte le sfere della vita quotidiana: la lingua, il cibo, i rapporti tra figli e genitori, tra genitori stessi, tra famiglia e mondo esterno ecc. Come diceva un noto scrittore senegalese, Leopold Sedar Senghor, la vera cultura è mettere radice, sradicarsi, mettere radici nel più profondo della terra natia, nella sua eredità, ma anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia, al sole, ai fecondi apporti delle civiltà straniere.
M.P.: Nella sua quotidianità ha avuto modo di interrogarsi su aspetti contradditori o comunque di difficile valutazione relativi alla integrazione possibile dello straniero in Italia?
Y.S.: Il termine stesso “integrazione” è contraddittorio. Suggerisce un movimento in senso unico in cui è l’immigrato che deve trovare la modalità di vivere nella nuova società la popolazione autoctona sembra non faccia nessuno sforzo per “prendere” del nuovo arrivato. Da un lato, si vuole offrire l’opportunità ai minori stranieri di beneficiare di un ambiente di vita serena e formativo, preservando la loro identità, dall’altra non si fa nulla o poco per ripristinare e valorizzare gli aspetti fondanti della sua identità e della sua persona (la lingua, la cultura, gli usi e i costumi della sua terra natia. L’atteggiamento ricorrente da parte della società accogliente richiama interventi che cercano il più possibile l’assimilazione del minore che si ritrova tra due culture, spesso conflittuali con messaggi reciproci di svalutazione e di diffidenza tra i due mondi culturali. L’integrazione è possibile e opportuno se per integrazione intendiamo l’appuntamento del dare e del ricevere cultura, uno scambio il più possibile equo di usi e costumi. D’altro canto l’atteggiamento opposto di volere a tutti i costi esasperare le differenze – che per fortuna esistono – può portare a risultati non attesi poiché si cade nella ghettizzazione e l’isolamento dei minori stranieri. Trovare una giusta misura permette, da una parte, di esaltare le culture “altre” per aiutare i minori stranieri a sentirsi portatore di ricchezze ed a avere stima di sé, dall’altra di valorizzare i punti che possono accomunare le varie realtà in modo che i minori stranieri si sentano pienamente parte della società.
*Assistente sociale