Le parole per dirlo …
L’articolo proposto fa parte di una serie di interventi scritti da Fulvio Scaparro per il Corriere della Sera in prevalenza, ma anche per altre testate nazionali sugli attentati terroristici e sulla guerra. In particolare, sugli atteggiamenti che dovrebbero tenere i genitori con i loro figli. Difronte al dolore, allo sconforto e alla rabbia per i fatti accaduti, il Corriere ha dedicato, per circa un mese, una apposita rubrica indirizzata ai genitori per aiutarli a parlare con i figli dei fatti accaduti e delle loro conseguenze, proponendo dialogo, ragionamenti ,scambi di idee e possibili risposte che i genitori potrebbero dare alle inevitabili domande poste anche dai loro figli più piccoli.
LE PAROLE PER DIRLO….
L’articolo proposto fa parte di una serie di interventi scritti da Fulvio Scaparro per il Corriere della Sera in prevalenza, ma anche per altre testate nazionali sugli attentati terroristici e sulla guerra. In particolare, sugli atteggiamenti che dovrebbero tenere i genitori con i loro figli. Difronte al dolore, allo sconforto e alla rabbia per i fatti accaduti, il Corriere ha dedicato, per circa un mese, una apposita rubrica indirizzata ai genitori per aiutarli a parlare con i figli dei fatti accaduti e delle loro conseguenze, proponendo dialogo, ragionamenti ,scambi di idee e possibili risposte che i genitori potrebbero dare alle inevitabili domande poste anche dai loro figli più piccoli. Parole scelte tra tante per potere parlare, suggerite da uno psicoterapeuta che come Scaparro ribadisce l’importanza della capacità di raccontare sapendo sostenere il carico emotivo che deriva da particolari situazioni.
In molte famiglie si vive il clima pesante di tensione, preoccupazione, angoscia e paura, legato non solo al terrorismo e alla guerra in corso ma anche all’incertezza circa le possibili strade da seguire per raggiungere una pace giusta e duratura. Particolare attenzione va dedicata a chi per età dipende del tutto o in parte da noi adulti e ha bisogno, proprio in queste situazioni, di non essere esposto senza guida né consigli né sostegno affettivo all’angoscia dell’incertezza e della precarietà e alla minaccia della perdita di punti di riferimento stabili. Natura e cultura hanno dato ai genitori, o a chi a qualunque titolo ha responsabilità educative, il compito di accompagnare bambini e ragazzi nel mondo e di avvicinarli alle diverse realtà dell’esistenza evitando per quanto possibile un impatto troppo duro e spesso insostenibile.
Ci si chiede come parlare con i figli di ciò che sta avvenendo, come aiutarli ad esprimere le loro emozioni, a fare fronte a eventi tanto drammatici come il terrorismo e la guerra. Un giorno, mi auguro, potremo soffermarci più a lungo e con maggiore calma sul fatto che per anni, perfino quando siamo stati coinvolti direttamente in conflitti armati, abbiamo guardato con distacco, per egoismo, indifferenza o quieto vivere, le guerre ‘degli altri’. Ma oggi in casa abbiamo se non altro l’opportunità di fare qualcosa di utile per la loro e la nostra crescita favorendo il dialogo con i figli, non eludendo le loro domande, cercando insieme risposte oneste e quindi prive per quanto possibile di pregiudizi e stereotipi. Forme e modi del dialogo con i figli variano a seconda della loro età ma in ogni caso non va dimenticato che le nostre paure e le nostre angosce, se non controllate, sono contagiose e che sempre, in ogni comunicazione, è bene cercare insieme motivi di speranza perché ad ogni età si reagisce meglio alle difficoltà se si intravede una luce in fondo al tunnel. Il punto di partenza, nelle situazioni di emergenza, è restare – o ritornare – uniti, rinsaldare i legami, non abbandonarsi alla disperazione né all’aggressività incontrollata, dare spazio alla ragione temperata dai sentimenti, aiutarci aiutando chi ha più bisogno. Non si tratta di fingere sicurezza, ipocrita distacco o sciocco ottimismo davanti ai figli ma di dimostrare la ferma volontà di non lasciarsi travolgere dagli eventi, di non accettare l’inaccettabile ma anche di trovare insieme vie di uscita. Se li abbiamo ascoltati forse potremo trovare risposte più adeguate a domande che partono da parole che sentono pronunciare ovunque come ‘guerra’, ‘guerra santa’, ‘terrorismo’, ‘profughi’, ‘Islam’ e tanto altro ancora. Proviamo a rispondere, tenendo presente che i bambini di questa età non hanno bisogno di lunghe conferenze né di proclami ideologici ma di sentirci vicini anche e soprattutto in questi momenti.
“Chi sono i profughi?” Ogni volta che cerchiamo spiegazioni alle guerre, al terrorismo, alle carestie e alle catastrofi naturali o provocate dall’uomo, non perdiamo di vista le vittime. Cercare, per quanto ci è possibile, di metterci nei panni di chi ha ingiustamente perduto tutto, la vita, la salute, la casa, i propri cari, ci dà forse la prospettiva più giusta per dare un giudizio su ciò che accade. Questo riesce con facilità a bambini anche di pochi anni perché la perdita di ciò a cui siamo più legati è uno dei timori di fondo della nostra esistenza. Non occorrono dunque troppe spiegazioni anche perché tra i tanti milioni di profughi della Terra, non sono pochi coloro che sono in Italia e vivono, spesso in condizioni disumane, ai margini delle nostre città. Spero anche che in casa qualcuno ricordi gli italiani che, in un passato non tanto remoto, hanno dovuto lasciare la loro terra spinti dalla miseria o dalle persecuzioni. Possiamo dire ai bambini che “chiamiamo profughi coloro che sono costretti ad allontanarsi dalla propria patria e a cercare rifugio altrove. Pensa, che alcuni non riescono nemmeno a fuggire perché perfino scappare costa quando c’è qualcuno che, come il Gatto e la Volpe di Pinocchio, approfitta delle tue difficoltà e promette di aiutarti se gli darai tanti soldi Se ci mettiamo dal loro punto di vista, di gente che scappa per la guerra, per la fame, per la sete o perché è perseguitata, noi vediamo un mondo molto diverso da quello che conosciamo. Se un bimbo muore per fame, per malattia o perché ha messo i piedi su una mina, è diverso saperlo attraverso la televisione o mettendoci nei panni dei suoi genitori o dei suoi amici. E’ diverso vedere il mondo perché si è in fuga dal proprio Paese o perché si è in viaggio per vacanza. Se riusciamo, almeno in parte, a metterci nei panni dei profughi e delle vittime, forse ci sembrerà più chiaro cosa c’è da fare: aiutare chi ha bisogno, condividere ciò che abbiamo con chi non ha e darci da fare per cambiare un mondo che così com’è è ospitale solo per pochi. Ma non dobbiamo accontentarci di belle parole. Già qui, oggi, nel nostro paese o nella nostra città, abbiamo la possibilità di dare una mano per aiutare gli altri e cambiare quello che non ci piace, come fanno tanti ragazzi e ragazze un po’ più grandi di te. Non stiamo con le mani in mano: chi aiuta gli altri aiuta se stesso.” Ma non diciamo ai bambini niente che non siamo in grado di dimostrare con il nostro esempio. Anche a sette anni è ben chiara la differenza tra il dire e il fare.
“Cos’è il terrorismo?” E’ probabile che i bambini dei primi anni delle elementari che ci rivolgono questa domanda abbiano già avvertito in casa, a scuola o attraverso la tv, che si tratta di un tema tra i più preoccupanti. Ascoltiamo cosa ne sanno e soprattutto lasciamoli esprimere le loro emozioni con parole, disegni o attraverso le forme di comunicazione preferite. Se non siamo tanto impauriti da rischiare di trasmettere ai bimbi la nostra angoscia, lasciamo rispondere chi, tra i genitori o i nonni, appare meno ansioso per la situazione che stiamo attraversando. La nostra risposta, come sempre, deve essere per quanto possibile chiara ma contenere elementi di rassicurazione almeno su un punto fondamentale: noi siamo qui accanto a loro per proteggerli in ogni circostanza. Evitate di parlare in continuazione dei pericoli di attacchi armati o dell’ancora più inquietante bioterrorismo. Non si tratta di impedire ai bambini l’accesso all’informazione ma di evitare il panico che può derivare dal vedere pericoli dappertutto e dall’eccesso di esposizione a notizie allarmanti. Una cosa è la vigilanza un’altra è il panico che, tra l’altro, è proprio ciò che vogliono provocare i terroristi. A una bambina o un bambino si può dire – sempre a piccole dosi – che “esistono nel mondo persone o gruppi che agiscono nell’ombra e non esitano a usare ogni forma di violenza per fare valere le loro ragioni. Tuo papà e tua mamma sono convinti che nessuna ragione, nemmeno quella di avere subìto torti e ingiustizie gravissime, giustifica il male che viene fatto a persone innocenti come è avvenuto poche settimane fa in America e nel corso degli anni in tante parti del mondo. Noi chiamiamo terroristi coloro che hanno come obiettivo quello di spargere terrore, cioè una paura tale da non farci più vivere, lavorare, studiare, giocare e stare insieme come prima. Sono pochi ma pericolosi. E’ giusto difendersi da loro. Anche in Italia ci sono tante persone, nei paesi, nelle città, ovunque, che notte e giorno ci proteggono dai terroristi. Qui in casa ci sono i tuoi genitori e tutte le persone che ti vogliono bene. Però noi, qui in famiglia, abbiamo un mezzo per fare fallire l’obiettivo dei terroristi: non farci spaventare al punto da cambiare le nostre abitudini di vita. Quindi mamma, papà, tu, i tuoi amici, tutti, diamoci da fare e continuiamo a lavorare, a studiare, a giocare, a fare tutte le cose che abbiamo sempre fatto. L’unico cambiamento è che siamo più uniti e più attenti. Insieme ce la faremo a passare questo periodo. E’ coraggioso non chi non ha paura ma chi sa controllarla e non casca nella trappola di chi vuole terrorizzarlo.” Io risponderei così. E voi?
Fulvio Scaparro
“Cos’è la ‘guerra santa’?” , potrebbe chiederci una bambina o un bambino dei primi anni delle elementari. Come sempre, prima di rispondere ascoltiamo cosa ne sa e cosa ne pensa. A un bambino può forse può sfuggire il termine ‘jihad’ ma ha molte possibilità di averne ascoltato la traduzione
in italiano ed essere rimasto sconcertato da quell’aggettivo, ‘santa’, applicato a un sostantivo che di solito non gode di grande popolarità in famiglia. La risposta è quella che troviamo in ogni dizionario, visto che ‘jihad’ o ‘gihad’ sono parole entrate a far parte del linguaggio quotidiano: “guerra condotta dai seguaci dell’islamismo contro gli infedeli, cioè contro coloro che non si sottomettono all’unico vero Dio, ad Allah, e non ne seguono la sua volontà trasmessa a Maometto e raccolta nel sacro libro del Corano”. Ma io non mi limiterei a questa risposta perché non credo che, oggi come ieri, sia soltanto certa parte dell’Islam a invocare ‘guerre sante’. Mi prenderei quindi la responsabilità di aggiungere qualche altra parola: “Io non conosco e non ho memoria di guerre ‘sante’, che possono cioè essere giustificate perché volute da Dio.” Un genitore credente, qualunque sia la sua fede, potrebbe trovare con facilità nei suoi libri sacri un passo in cui si afferma che “dove c’è carità e amore, lì c’è Dio”. Ma, credenti o meno, si potrebbe rispondere – non tutto di un fiato, ma sintonizzandosi con i tempi di sopportazione dei piccoli – così: “la guerra, qualunque guerra, non è quella che vediamo nei cartoni animati o in certi film ma una vera sciagura perché lascia lunghi e duraturi strascichi di distruzione, dolore e risentimenti. Di ‘santo’ non c’è proprio nulla. E’ vero che talvolta, in casi estremi, un popolo, per difendersi o liberarsi da chi lo opprime, può ricorrere alle armi. Le libertà di cui oggi godiamo, non ci sono state regalate ma spesso sono costate la vita di tante donne, uomini e bambini che meritano il nostro rispetto e il nostro ricordo. Ma non chiamiamo ‘santo’ ciò che deve restare una soluzione estrema dovuta a dura necessità. Sarebbe come dire che la carestia, la miseria e le epidemie sono una punizione ‘santa’ per i peccati di coloro che ne sono colpiti.”
Ma qui, meglio di noi genitori, potrebbero essere i nonni a rispondere ai loro nipoti. Peccato che ve ne siano sempre meno nelle nostre case. Sarebbero, in questo caso, preziosi testimoni di ciò che davvero è la guerra: una serie di lunghi, grigi, angoscianti giorni, in cui ci si addormenta senza essere sicuri di arrivare all’indomani. Gli anziani possono però dare ai nipoti motivi di speranza riferendo i non pochi episodi in cui, durante la guerra, uomini e donne si sono aiutati a vicenda per sopravvivere. Oggi noi e i nostri bambini abbiamo l’opportunità di riscoprire il valore, anche terapeutico, dei racconti fatti da persone care. Eduardo diceva che ” ‘a da passa’ a nuttata” e forse passerà anche questa notte della ragione. Ma per i bambini è prezioso sentirsi raccontare da nonne e nonni come sono riusciti a passare altre nottate senza perdere l’amore per la vita.
Io risponderei così. E voi?
“Cos’è l’Islam?” I bimbi non desiderano una ‘lezione’ ma vogliono sapere se i genitori sono disponibili a rispondere. Quali che siano le vostre opinioni in materia di fede, tenetele a bada perché i bambini hanno diritto ad essere informati. Non approfittiamo della loro ingenuità per spingerli precocemente a seguire le nostre convinzioni . Se non sapete come rispondere, ammettetelo davanti ai figli e insieme a loro cercate una risposta per quanto possibile obiettiva. Di solito è più difficile sintetizzare un argomento importante in poche parole che tenere una dotta conferenza sul tema. Quella che segue è una risposta troppo lunga ma se ne può utilizzare, se si vuole, quanto basta per soddisfare la curiosità dei figli. “L’Islam è una delle grandi religioni del mondo. Oggi più di un miliardo di persone è musulmana. ‘Musulmano’ vuol dire ‘appartenente all’Islam’. Islam si può tradurre in italiano con ‘sottomissione’ e i Musulmani si sottomettono a Dio. Ci sono tanti modi per dire ‘Dio’ in questo mondo. I Musulmani lo chiamano Allah. I Musulmani, i Cristiani e gli Ebrei credono in un solo Dio ma questo non è bastato per farli vivere insieme in pace. Non tutti i Musulmani sono arabi, anzi gli arabi sono la minoranza rispetto ai tanti Musulmani sparsi nel mondo. Però gli arabi vivono nei luoghi dove l’Islam è nato, o nei Paesi vicini. E’ nell’Arabia Saudita che si trovano i luoghi sacri dell’Islàm, dove il Profeta Maometto iniziò la sua predicazione quindici secoli fa. ‘Profeta’ è chi afferma di parlare in nome di Dio. Quello che Maometto disse è raccolto nel Corano, parola che vuol dire ‘lettura ad alta voce’. Lì si legge che uccidere un innocente è come uccidere tutta l’umanità. Colpevole è chi uccide o incita a uccidere usando il nome di Dio come un’arma, e non l’Islam. Questo dovrebbe valere anche per chi non è musulmano, per tutti. Ricordiamocelo quando incontriamo i tanti lavoratori immigrati musulmani, i loro figli e i loro famigliari che vivono onestamente nel nostro Paese. Mi piacerebbe che tu non rinunciassi a sognare un mondo in cui si possa vivere insieme in pace anche se diversi per cultura, fede e opinioni politiche. Vivere in pace è più difficile che fare la guerra ma se ci proverai, se ci proveremo, la nostra vita sarà servita a qualcosa.”
Io risponderei così. E voi?