Sport e adolescenza

Volendo analizzare il potenziale educativo che l’attività sportiva è in grado di offrire, è necessario focalizzare l’attenzione in particolare sul rapporto che viene ad instaurarsi tra atleta ed allenatore, chiarendo in quale misura quest’ultimo interviene, attraverso lo strumento sport, nelle dinamiche di crescita e di maturazione del soggetto.

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Esaminando le caratteristiche peculiari al ruolo di allenatore ed identificandone le motivazioni e le metodologie di lavoro, si delinea con più chiarezza una figura poco studiata, almeno stando alla scarsezza di materiale bibliografico esistente. Il binomio sport-educazione è, nella cultura odierna, meta di scarsa considerazione; questo perchè l’antico dualismo di origine cartesiana, che vedeva il corpo e la psiche come due entità sostanzialmente separate, ha portato, nel corso del tempo, ad un netto distacco, privilegiando di gran lunga l’attività mentale rispetto a quella fisica. Tutto ciò, viceversa, è in contrasto con gli studi condotti negli ultimi anni: se l’Io si sviluppa a partire da esperienze motorie e se vi è, come dimostrano gli studi neuropsicologici, una correlazione tra sviluppo motorio e sviluppo intellettuale, s’impone una nuova considerazione di tutto ciò che ha a che fare con la motricità.
Considerare lo sport come un vero e proprio strumento educativo può quindi sembrare alquanto scontato, ma una rapida valutazione del ruolo che l’attività sportiva ricopre oggi all’interno della nostra cultura – sociale, familiare, scolastica – deve obbligatoriamente indurre ad una riflessione. In primo luogo non va dimenticato che lo sport per i giovani atleti è, e dovrebbe sempre essere, gioco. Il gioco è per definizione un comportamento motivato intrinsecamente, in questo senso chi lo pratica trae soddisfazione da ciò che fa e da come lo fa. Poiché non è possibile alcun apprendimento senza motivazione, risulta chiaro come il gioco, la dimensione ludica, sia uno strumento utilissimo per facilitare gli apprendimenti. Il gioco-sport si svolge in quello che Winnicott definisce lo “spazio potenziale” ed in questo “luogo”, mediazione fra il sé individuale e l’ambiente, si colloca la creatività del bambino o dell’adulto che, solo giocando, usa interamente tutta la sua personalità, ed “è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre sé stesso”.
Lo sport rappresenta per i giovani una delle prime occasioni di distacco dall’orbita familiare; la figura dell’allenatore si presta quindi ad essere una figura di riferimento per i ragazzi alternativa a quelle dei genitori. Gli “altri importanti” nella vita di un bambino e la valutazione che essi fanno di lui diventa parte integrante della struttura personale. “Ciò che pensiamo di essere è in gran parte correlato agli apprezzamenti espressi da persone con le quali siamo stati in contatto: la percezione di sé è dunque anche la percezione che gli altri hanno di noi” (Canestrari). Date queste premesse, l’adulto che interagisce con bambini, preadolescenti o adolescenti, nell’ambito sportivo, non può certo limitarsi ad acquisire competenze di tipo esclusivamente tecnico ma deve attingere ad altre capacità tipiche di un educatore, di un leader, di un organizzatore. Per essere un efficace “facilitatore di apprendimento” è necessario disporre di conoscenze specifiche sulle fasi di sviluppo della personalità relative alla fascia d’età dei ragazzi con cui si lavora; la metodica di insegnamento di un allenatore cambia infatti in relazione all’età dell’atleta in quanto con l’età cambiano capacità e potenzialità da sviluppare ed esigenze di cui è impossibile non tener conto. L’inizio della scolarizzazione segna per il bambino una svolta decisiva per lo sviluppo mentale. Dopo i sette anni i bambini sono sempre più in grado di cooperare in quanto non confondono più il loro punto di vista con quello degli altri. L’aspetto più evidente di questo cambiamento è individuabile nel linguaggio. Proprio in questa fase il linguaggio egocentrico sparisce quasi completamente per lasciare progressivamente il posto al linguaggio socializzato. A quest’età inoltre inizia ad affermarsi il pensiero logico; “la logica” sostiene Piaget “costituisce il sistema di rapporti che permette la coordinazione dei diversi punti di vista tra di loro: punti di vista che corrispondono ad individui diversi, a percezioni ed intuizioni diverse in uno stesso individuo.” La possibilità di porsi da diversi punti di vista consente al giovane atleta di interrogarsi meglio sulle intenzioni dei suoi compagni e lo mette quindi nella condizione di poter sperimentare esperienze di collaborazione. Questa è tuttavia una conquista graduale che comincia a consolidarsi verso i dieci anni, pertanto il giovane che si accosta all’attività sportiva tenderà a ricercare quelle attività competitive che si collocano a metà strada tra le condotte egocentriche e la cooperazione, per dare spazio al desiderio di misurarsi con l’altro. In uno sport di squadra la competizione richiede la strutturazione progressiva del gruppo; il rispetto delle regole che amalgamano tale gruppo contribuisce allo sviluppo di un sentimento morale nel giovane atleta. La competizione nei ragazzi può rimanere un gioco, rispondendo soprattutto al bisogno di affermazione di sé, senza cadere nella rivalità assumono, a questo proposito, molta rilevanza il modo di porsi dell’allenatore ed i valori che comunica ai ragazzi. L’istruttore svolge qui un ruolo fondamentale per la socializzazione dei giovani, intervenendo in due modi: aiuta il gruppo a raggiungere gli obbiettivi che ne costituiscono la finalità, insegnando le procedure adatte allo scopo, e regola i rapporti interpersonali all’interno del gruppo stesso, affrontandone i problemi di relazione. Egli diviene così il latore di regole implicite ed esplicite e il suo comportamento può favorire l’individualismo e l’antagonismo, così come la cooperazione e l’affermazione di sé. Esemplificando: i rinforzi per i successi individuali
stimolano la competitività premiando invece il collettivo, per il positivo conseguimento di un obbiettivo, si evitano probabili insuccessi e frustrazioni per i meno dotati, favorendo allo stesso tempo una competizione meno esasperata e più stimolante per la coesione del gruppo. Il bambino di quest’età acquisisce e grazie anche all’attività sportiva, se opportunamente indirizzato, incrementa e stabilizza un nuovo senso di rispetto reciproco che presuppone un’attribuzione di valore all’altro e implica una relativa autonomia della coscienza morale dell’individuo.
Si supera in questo modo lo stadio della semplice obbedienza: nel rispetto reciproco la regola di comportamento sociale non viene accettata e rispettata in quanto prodotta da una volontà esterna, ma perché risultato di un accordo implicito o esplicito. Il reciproco rispetto facilita inoltre lo sviluppo di sentimenti morali fino ad ora poco individuati: la lealtà nel gioco, il fair play, il sentimento di giustizia. Lo sviluppo cognitivo ha inoltre raggiunto tappe importanti per quanto riguarda le norme di responsabilità sociale; il ragazzo che ha interiorizzato queste norme non agisce motivato dalla ricerca delle approvazioni altrui, ma per soddisfare le esigenze interne di autoapprovazione e si premia da solo nella consapevolezza di aver agito giustamente. Questo ulteriore livello del pensiero preadolescenziale agevola lo sviluppo del pensiero prosociale. Generosità, altruismo, aiutare materialmente o psicologicamente gli altri, partecipare ad attività tese a migliorare il benessere generale sono esempi tipici di comportamenti prosociali che si manifestano in questa fase dello sviluppo. L’età tra i nove ed i dodici anni è particolarmente adatta all’incremento e alla stabilizzazione di queste competenze. Un’attività sportiva tesa a valorizzare e a sviluppare tali atteggiamenti nel giovane assume un ruolo educativo di grande rilevanza che trascende l’ambito sportivo e, nello stesso tempo, pone le basi per la formazione di atleti maturi, abili nell’espressione delle loro capacità di giocatori di squadra. Lo sport quindi è in grado di contribuire in modo significativo allo sviluppo sociale della persona, educandola alla collaborazione con gli altri all’interno del gruppo ed al rispetto di regole comuni, offrendo la possibilità di estendere i rapporti sociali oltre l’orbita della famiglia e della scuola. Con ciò non si sono esaurite le potenzialità che l’attività sportiva, se opportunamente guidata e finalizzata alla maturazione dei giovani, è in grado di offrire. Ciò che lo sport dà all’individuo è l’opportunità di un apprendimento motorio che lo coinvolge in tutti i suoi aspetti, psicologici e fisici, impegnati in un rapporto dinamico di adattamento all’ambiente. L’esperienza corporea conseguita con successo rappresenta infatti una grossa spinta verso l’accettazione e la conferma del proprio corpo, componente essenziale dell’immagine di sé ed elemento importante dell’autostima e della fiducia nelle proprie potenzialità. Tutto ciò assume grandissima rilevanza con l’inizio della pubertà, quando il giovane preadolescente vive in maniera intensa un processo determinante per la sua crescita psicofisica: l’elaborazione del lutto per la perdita del corpo infantile, da cui deriverà appunto una ristrutturazione del suo schema corporeo ed una nuova conseguente immagine di sé. L’immagine del corpo è infatti una realtà essenzialmente plastica, in continua costruzione, in rapporto alle afferenze sensoriali e propriocettive, in rapporto alle esperienze fatte attraverso la corporeità e alle abilità fisiche acquisite, in rapporto ai messaggi di accettazione e di rifiuto provenienti dalle altre persone ed in particolare da quelle più significative per l’individuo. Il crescente controllo ed equilibrio corporeo e le abilità motorie acquisite sono per il giovane atleta una fonte essenziale di fiducia in sé stesso e nelle proprie potenzialità la maggiore padronanza del suo schema motorio lo spingerà ad usare sempre più il suo corpo, a giocare con il corpo, per entrare sempre più in relazione con il mondo esterno. Il giovane che abbia raggiunto tutte le tappe motorie è favorito nella sua esplorazione del mondo; le probabilità per lui di andare incontro ad esperienze di successo sono notevoli, tanto più se è sostenuto da adulti competenti, attenti, che lo stimolano verso l’autonomia e nello stesso tempo funzionano da guida capace di offrire un saldo sostegno.
Risulta fin qui evidente quanto la figura dell’allenatore possa influire, sia positivamente sia, come è ovvio, negativamente sul livello di autostima dei propri atleti. Adolescenza e preadolescenza costituiscono età particolarmente delicate per il raggiungimento dell’autonomia psicologica e per l’impostazione definitiva della personalità. La precarietà del livello di autostima e soprattutto la sua distanza obiettiva e psicologica dalla realtà possono incidere in modo consistente sui livelli di aspirazione del giovane, pregiudicando, sul piano pratico, non solo la sua riuscita nell’attività sportiva e i suoi rapporti all’interno del gruppo dei coetanei e con l’allenatore, ma la qualità della vita stessa del ragazzo. I sentimenti di inferiorità derivati da una falsata valutazione di sé possono emergere in qualunque momento, compromettendo la stabilità personale e l’adattamento caratterologico. Affinché la pratica sportiva possa fornire un contributo nella costruzione e nel mantenimento dell’autostima, è importante che risulti per lui un’esperienza gratificante, un possibile campo di affermazione e di successo personale. Compito estremamente delicato, affidato alla sensibilità dell’allenatore educatore, è sostenere l’autostima del giovane, senza alimentare in lui un’immagine di sé ideale o fantastica che non corrisponde alla realtà. Una salda autostima è basata infatti sulla fiducia nelle proprie possibilità ed insieme nella consapevolezza dei propri limiti.
In sintesi l’allenatore-educatore fa leva sulle più genuine motivazioni dei ragazzi ed è in grado di soddisfarle grazie allo “strumento” sport di cui si avvale. L’esigenza di appartenere ad un gruppo e di identificarsi con esso, che andrà via via crescendo con l’inizio dell’adolescenza, ed il desiderio di crescita e di successo trovano nell’esperienza sportiva una risposta adeguata; questo a condizione, come è ovvio, che l’adulto ne abbia coscienza e consapevolezza e che, come chiunque si occupi di educazione, indipendentemente dal contesto in cui lo fa, rispetti le naturali dinamiche del processo di maturazione, indagando le reali motivazioni dei giovani e mantenendo un atteggiamento né autoritario né eccessivamente permissivo risultando così una figura carismatica e significativa. Stando a quanto esposto sino ad ora, risulta chiara la necessità di un impegno da parte, in primo luogo delle istituzioni scolastiche e della società al fine di rivalutare ed allargare gli spazi finalizzati all’educazione motoria. Fare dell’educazione motoria già dalla scuola materna vorrebbe dire assecondare il bisogno del bambino di utilizzare il proprio corpo come mezzo di relazione e di conoscenza. Nelle scuole elementari l’attività motoria viene già relegata ad un ruolo secondario di tipo ricreativo. Nelle scuole medie inferiori e superiori i giovani attraversano un’età ricca di conflitti in cui lo sport avrebbe molto da dare essendo in grado di venire incontro alla loro ricerca di un ruolo sociale – questo ovviamente a patto che resti un agente educativo e non diventi, come spesso invece succede, un mito sociale al quale il ragazzo si debba sottomettere diventandone inevitabilmente strumento e non più parte attiva. Malauguratamente oggi tali scuole non sono in grado di fornire strumenti sufficienti ai bisogni dei giovani sul versante sportivo; “fare due ore la settimana di educazione fisica è come rispondere al bisogno alimentare con due pasti ogni sette giorni.” (Cabrini C.) Insegnanti di educazione fisica demotivati, spesso legittimamente, fanno sì che i ragazzi cerchino al di fuori della scuola gratificazioni ai loro bisogni di sport e ciò inevitabilmente responsabilizza in modo ulteriore il già delicato compito dell’allenatore sportivo. Riferimenti bibliografici:

– Biccardi T., Teoria e pratica della psicologia del basket, Roma 1989, Società Stampa Sportiva
– Cabrini C., Psicologia nel calcio, Roma 1996, Società Stampa Sportiva
– Canestrari E., Psicologia generale e dello sviluppo, Bologna 1984, CLUEB
– Piaget J., Il linguaggio e il pensiero del fanciullo, Firenze 1962, Giunti/Barbera
– Winnicott D. W., Gioco e realtà, Roma 1974, Armando Editore