Storia della cultura di infanzia
Benché nel passato non vi fosse unitarietà di atteggiamenti e di credenze nei confronti dell’infanzia (la diffusione del culto di Gesù Bambino contribuiva a rendere gradevole e tenera l’immagine del bambino) molti erano convinti che i bambini non fossero delle persone vere e proprie. Pertanto la storia degli atteggiamenti e delle credenze degli adulti nei confronti dell’infanzia è stata per lungo tempo caratterizzata dall’ambivalenza tra il considerare, da un lato i bambini come esseri imperfetti, più simili agli animali che agli umani, soggetti all’errore e al peccato e, in situazioni di miseria, un “peso” di cui disfarsi; dall’altro il pensarli invece come fonte di gioia e parte integrante della famiglia.
QuMcLaughin scrive che tra il IX e il XIII secolo vi era nei genitori un conflitto tra atteggiamenti protettivi e atteggiamenti distruttivi e rifiutanti. Tucker, dopo aver condotto una serie di ricerche sul XV e XVI secolo, afferma che i genitori erano ambivalenti nei confronti dei figli: non sapevano se considerarli un bene o un male e neppure sapevano bene come comportarsi con loro, se includerli nella società degli adulti o escluderli. Qesta immagine ambivalente dell’infanzia coesisteva per di più con l’assenza di una medicina infantile vera e propria. La pediatria nasce infatti soltanto nell’Ottocento, mentre in precedenza la cura dei bambini era considerata “una faccenda di donne”.
L’ambivalenza degli atteggiamenti e dei comportamenti non impediva tuttavia la diffusione del maltrattamento, a cominciare dalla fasciatura, operazione complessa, la cui esecuzione poteva richiedere anche un’ora di tempo. Essa rappresentava, secondo la diffusa idea dell’epoca, un correttivo che avrebbe aiutato il bambino a crescere senza diventare storpio e a camminare come un essere umano, ma rispondeva anche ad un’esigenza concreta della donna, impegnata a badare anche ad altri bambini, al marito, e fare una serie di lavori domestici, che il piccolo restasse fermo. Le fasce, però, deprivavano il bambino dell’uso delle braccia e delle gambe, rallentavano la circolazione del sangue e provocavano escoriazioni cutanee e piaghe, perchè il corpo rimaneva a contatto, per molte ore, con l’urina e con le feci. Oltre alla fasciatura nei primi sette-nove mesi, erano diffuse anche le punizioni corporali e l’abitudine di spaventare i bambini per farli stare buoni. Tra i fattori che possono dare una spiegazione dell’abbandono e del maltrattamento dei bambini da parte degli adulti, vi sono sia quelli interindividuali e storici, sia quelli intrapsichici (proiezioni e inversioni). Una puerpera che non ha i mezzi per allevare il figlio, che non ha il supporto della famiglia e del gruppo può decidere di disfarsi di un peso insostenibile, e nel più breve tempo possibile, anche se prova una intensa tenerezza per quell’esserino che ha generato; analogamente, un genitore può pensare che una disciplina dura con i figli sia il mezzo migliore per abituarli a vivere in un ambiente difficile e ostile. Lo storico L. Stone, che ha condotto un articolato studio della vita quotidiana inglese tra il Cinquecento e l’Ottocento scrive che: “La miseria umana può toccare dei livelli in cui l’intensità della lotta per soddisfare l’esigenza fondamentale del cibo e del tetto lascia ben poco spazio alle emozioni e ai rapporti affettivi. Se il secondo impulso fondamentale, quello alla soddisfazione sessuale, produce dei piccoli e ingordi concorrenti a una riserva di cibo insufficiente, è inevitabile che questi vengano trattati nel migliore dei casi con trascuratezza, e nel peggiore con una deliberata ostilità che ne incoraggia la rapida dipartita da questo mondo”.
La psicoanalisi ha indicato che i modi in cui ci si relaziona con la generazione successiva dipendono anche da bisogni e desideri inconsci che sono legati alla storia personale (esperienze non integrate alla vita dell’individuo, traumi non superati, maltrattamenti, strumentalizzazioni, bisogni non soddisfatti). Proprio perchè inconsci, questi bisogni non vengono riconosciuti come parte di sé, vengono scissi e attribuiti ad altri; in particolare possono essere proiettati sui bambini che sono più vulnerabili. Alice Miller spiega come a volte gli adulti manipolino inconsciamente le paure dei bambini nel tentativo di vincere le loro, rievocando da una posizione di forza, e attraverso il bambino, il loro trauma infantile. Così, l’uso di spaventare i bambini con racconti di streghe o di fantasmi è sempre stato diffuso fino a non molto tempo fa, e, per diversi secoli i piccoli hanno assistito come gli adulti alle esecuzioni pubbliche, ai linciaggi e ad altre violenze.
Col meccanismo dell’inversione, l’adulto si aspetta che il bambino soddisfi delle sue esigenze, per lo più inconsce, e quando poi si scontra con l’incapacità di quest’ultimo di soddisfarle, scattano il risentimento e l’ira. Inizialmente, in una sorta di inversione di ruoli, il figlio viene vissuto come una figura protettiva: la madre si aspetta di essere capita dal bambino, si aspetta che sia lui a prendersi cura di lei, cosicchè, se questi non è abbastanza saggio, lei può sentirsi tradita.
Proiezione e inversione possono coesistere, creando una specie di doppia immagine del bambino che è visto allo stesso tempo come “cattivo” e “buono”: su di lui vengono proiettati i desideri ostili, ma da lui ci si aspetta anche protezione e comprensione. Ne possono derivare dei comportamenti contraddittori e irrazionali.
Una nuova immagine dell’infanzia
Nell’era moderna, con le mutate condizioni socio-economiche dell’Europa rispetto al periodo medievale, comincia a farsi strada l’idea della necessità della formazione
dei giovani (e non soltanto di addestrarli in mansioni specifiche) perché aumentano le opportunità di cambiare e migliorare le posizioni personali di partenza e aumentano anche le differenze nelle attività lavorative. Nel XVII secolo l’umanista Comenio, rifacendosi ad Aristotele, suddivise l’età evolutiva in quattro stadi, ognuno con caratteristiche proprie, contrapponendosi alla teoria medievale dell’omuncolo, secondo cui il bambino non era altro che un adulto in miniatura, già completamente formato nella cellula riproduttiva.
Questo nuovo modo di guardare all’infanzia comportò una maggiore pianificazione dell’intervento educativo ma anche metodi disciplinari più duri rispetto al passato, soprattutto nei collegi. Scrive Philipe Ariés riferendosi alla realtà francese: “L’idea di educazione restava estranea alle concezioni del primo Trecento. Nel 1452, invece, il cardinale di Estouteville parla del regimen puerorum e della responsabilità morale dei maestri che hanno carica di anime. La formazione importa quanto l’istruzione: di qui l’opportunità di sottoporre i ragazzi a una stretta disciplina … Il collegio diventa un mezzo per l’educazione dell’infanzia e in genere della gioventù.
In pari tempo nel Quattrocento e sopratutto nel Cinquecento, il collegio modifica e amplia la sua forma di reclutamento: limitato in origine ad una ristretta minoranza di chierici istruiti, si viene aprendo a un numero crescente di laici, nobili e borghesi, ma anche a famiglie socialmente più modeste. Diventa allora un’istruzione essenziale alla società: il collegio con un corpo insegnante separato, una disciplina rigida, delle classi molto numerose, dove si formeranno tutte le generazioni istruite dell’ancien régime. Il collegio costituisce un massiccio aggruppamento in base all’età dagli otto-nove anni ai quindici e oltre, dove domina una legge diversa da quella degli adulti” (Ariés 1960).
In parallelo con una maggiore severità e una disciplina più dura, si fece strada anche l’idea che lo sviluppo non avviene in modo uniforme e secondo una linea continua; idea che fu poi ripresa da J. J. Rousseau, un secolo più tardi.
Nuove immagini della donna
Mentre si diffondeva un modo diverso di guardare all’infanzia (sia pure con delle differenze tra i vari ordini sociali) si diffondeva anche un modo nuovo di vedere la donna. Nel Settecento le donne nobili e ricche godettero di molta libertà e di un potere, non ufficiale ma reale, forse mai sperimentato prima. Un potere che ebbe sicuramente un ruolo importante nel promuovere una nuova visione dei rapporti uomo-donna, dapprima in Francia e poi negli altri Paesi. Filosofi femministi – come Montesquieu, Holbach, Condorcet – che ebbero come madri, amanti, mogli e sorelle delle donne colte, sostennero la parità tra i sessi, denunciarono la “donna-giocattolo” creata dall’uomo per il suo piacere e desiderio di dominio e addebitarono all’educazione riduttiva, impartita tra le mura di conventi-prigioni, lo stato di inferiorità delle donne.
L’uguaglianza e la felicità diventano due condizioni considerate irrinunciabili dal nuovo corso filosofico-culturale. Se valgono,come sostenevano gli intellettuali illuministi, i principi dell’uguaglianza universale e il diritto, per ognuno, di realizzare la felicità sulla terra, allora non si possono adottare regimi diversi per gli uomini e per le donne. Ma se moglie e marito godono degli stessi diritti, ciò significa che i rapporti di forza all’interno della famiglia devono cambiare e con questo si modificano anche i rapporti genitori-figli. I primi colpi inferti all’assolutismo maschile andarono a beneficio non soltanto della donna, ma anche dei bambini.
Nell’Encyclopedie si legge che i diritti dei genitori vengono limitati dalle necessità del figlio. L’autorità dei genitori non è assoluta ma fondata sulla debolezza del bambino ancora incapace di vigilare sulla sua incolumità: essa deve essere per il bene del bambino. Nel Contratto sociale Rousseau spinge oltre questa analisi: egli parla della famiglia come di una società provvisoria dove si prodigano le cure ai figli e da cui i figli ad un certo punto devono uscire per rendersi indipendenti. Per il filosofo ginevrino l’alienazione della libertà del bambino, la sua disuguaglianza nei confronti dell’adulto sono temporanee: nel momento in cui raggiunge l’indipendenza egli diventa uguale al genitore. Il genitore non ha più il diritto di comandarlo né l’obbligo di occuparsene. Se tra genitori e figli resteranno dei legami, questi non saranno per obbligo ma soltanto per affetto.
Non fu solo il principio dell’uguaglianza a giocare a favore delle donne e dei bambini, ma anche il diritto alla felicità.
Sul finire del Settecento si “scoprì” che non soltanto i rapporti tra sposi ma anche quelli tra genitori e figli erano felici se basati sull’amore, e si diffuse tra la borghesia un nuovo ideale di rapporti familiari: il marito, non più monarca assoluto, doveva essere devoto alla moglie e affezionato ai figli; la donna, né diabolica né irresponsabile, né strega né madonna, doveva essere la compagna amata; il bambino, frutto di un’unione felice, doveva essere amato e rispettato come persona.
A trasformare il rapporto genitori-figli contribuì, in una certa misura, anche una progressiva “concentrazione degli affetti”, secondo la quale la funzione parentale si concentra sulla madre e sul padre biologici e non si disperde su altre figure, come invece avveniva nel passato. Per E. Shorter, che si è interessato ai sentimenti caratteristici della famiglia moderna, la “rivoluzione sentimentale” che separa la società moderna dalla società tradizionale è caratterizzata dalla considerazione sempre più marcata del benessere del bambino: l’abitudine di “mettere a balia” presso delle donne prezzolate incominciò a declinare all’inizio dell’Ottocento; il costume di abbandonare i neonati incominciò a diminuire a partire dal 1860 e, dai primi anni del Novecento, la maternità “nuovo stile” trionfa un po’ ovunque (l’abbandono progressivo della pratica mutilante della fasciatura è uno dei segni più eloquenti). Il diffondersi della famiglia nucleare e dell’amore romantico si coniugano, secondo Shorter, con l’emergere di una maggiore sollecitudine nei confronti del bambino.
A guardare con rinnovato interesse all’infanzia, oltre agli illuministi e ai romantici, furono anche i politici, guidati da considerazioni di altro tipo. Il bambino, in termini economici, cominciò a diventare un bene prezioso per i governanti europei, come lo erano tutti i sudditi che rappresentavano la forza della nazione, il suo potenziale per l’espansionismo e, in tempo di pace, soprattutto forza-lavoro. Ma a valorizzare l’infanzia concorre anche un’altra condizione: il fatto che i genitori possano pianificare un futuro per i loro figli in quanto le opportunità che essi sopravvivano aumentano notevolmente. Progressivamente, infatti, diminuì il numero dei bambini che morivano per malattie infettive o errori dietetici.
Nell’Ottocento la realtà infantile diventa importante, la pedagogia occupa uno spazio crescente, i filosofi si domandano come si strutturino le passioni e la ragione in una mente in via di sviluppo, gli scrittori incominciano a scrivere racconti e operette morali rivolte all’infanzia e i bambini si imposero col loro io nella vita familiare. L’insieme di questi fattori portò anche ad un consolidamento del ruolo materno.
Tra le persone colte uno dei primi a sottolineare l’importanza del ruolo materno fu Rousseau. “Sophie” doveva essere allevata in modo da essere in grado di soddisfare le esigenze dei figli: ella sarebbe stata amorevole con i figli e li avrebbe allattati; sarebbe diventata la maggiore artefice e responsabile di quel “nido affettivo” costituito dai genitori e dai figli; cioè della famiglia nucleare moderna. Rousseau, sosteneva anche che l’Europa si stava spopolando proprio perchè le madri non erano disposte a fare il loro dovere e scrisse “Dalla donna dipende la prima educazione dell’uomo, dalla donna dipende anche ogni sua futura abitudine.
Allevare dei bambini e farne degli uomini; quando sono grandi, curarli, consigliarli, consolarli … ecco i doveri delle donne in ogni tempo”.
Le idee di Rousseau si diffusero. La madre mondana o assente dal focolare divenne sinonimo di egoismo e di disgregazione della cellula familiare. Si affermò che le madri che non volevano allattare erano corrotte e ad esse si contrapposero le donne delle popolazioni barbare e delle tribù selvagge. Furono le donne della borghesia ad aderire per prime al nuovo corso. Rispetto alle donne della nobiltà esse erano, in genere, meno impegnate nelle attività mondane; rispetto alle donne del popolo avevano maggiori possibilità che il loro impegno con i figli, i loro sacrifici, venissero un giorno coronati dal successo.
Nel passaggio dal secolo dei Lumi all’Ottocento quindi l’iconografia ufficiale della donna si trasformò: diminuì l’impegno sociale e aumentò
quello di moglie e di madre; in particolare la donna doveva dedicare molto del suo tempo ai figli non soltanto perché crescessero sani e virtuosi, ma anche per seguirli negli studi e favorire lo sviluppo di quelle doti individuali che avrebbero reso possibile il loro inserimento nella società e la loro affermazione nel lavoro. Molte donne della borghesia si sentirono investite di una vera e propria missione e dedicarono gran parte delle loro energie ai figli.
Il bambino re
Decennio dopo decennio nel mondo occidentale l’attenzione per l’infanzia andò crescendo: accanto all’idea che i giovani dovessero essere controllati, indirizzati e disciplinati andò affermandosi anche il convincimento che essi dovessero essere socializzati e protetti e che si dovessero riconoscere e soddisfare i loro bisogni e le loro esigenze psicologiche. Le idee di Rousseau, di Freud e, in seguito, di Maria Montessori, di Piaget, di Winnicott e di molti altri, contribuirono a delineare una nuova immagine del bambino e a rafforzare il convincimento, in un numero sempre più ampio di persone, che infanzia e fanciullezza dovessero essere salvaguardate.
Rousseau e Piaget ripresero da Comenio il concetto di stadio di sviluppo e sottolinearono le differenze tra il modo di pensare di un adulto e quello di un bambino. Maria Montessori, ricollegandosi agli studi del fisiologo Itard e partendo dall’idea che non si può operare una separazione tra corpo e mente, sottolineò l’importanza dei sensi e della partecipazione attiva nell’apprendimento. In molti affermarono che bisognava rispettare i ritmi di sviluppo dei bambini e che essi, per sviluppare a pieno le loro potenzialità intellettive e motorie, dovevano crescere in un ambiente tollerante – protettivo e stimolante allo stesso tempo – dove potessero fare esperienze variate e giocose e dove fossero liberi di provare, sbagliare e correggersi.
Con Freud l’attenzione si sposta nelle pieghe più recondite del sé. Scavando nell’inconscio di adulti nevrotici Freud scroprì che i disadattamenti in età adulta andavano interpretati alla luce delle esperienze infantili. Questa scoperta mise l’individuo – con i suoi impulsi, desideri ed esperienze irripetibili – sempre più al centro dell’attenzione.
Dotato di un inconscio personale, l’individuo si porta dietro per tutta la vita impronte che diventano costitutive della sua personalità e delle sue scelte: se è infelice la causa non è più attribuibile all’esterno (ai malefizi, alle arti magiche) ma va ricercata all’interno, nel proprio inconscio, nella propria infanzia, nelle tracce lasciate dalle esperienze.
Si consigliò così ai genitori e agli educatori di evitare esperienze traumatiche ai bambini e di tenerli lontani da responsabilità superiori alle loro forze: soltanto se protetti negli anni più delicati essi avrebbero potuto sviluppare quel senso di fiducia verso la vita e di sicurezza in se stessi che avrebbero poi consentito loro, una volta diventati adulti, di affermarsi, di vivere serenamente con gli altri e di inserirsi nella complessa macchina sociale.
Man mano andò perciò diffondendosi un nuovo modo di guardare ai bambini e una serie di usanze cambiarono. I bambini furono anche liberati dalle fasce, dalle briglie e dai girelli. Naturalmente l’eliminazione di questi strumenti di controllo comportava un impegno delle madri a tempo pieno: ciò spiega perché le ultime a liberarsene furono proprio le donne che lavoravano nei campi e nelle fabbriche o che, non fruendo di alcun aiuto domestico, non avevano tempo sufficiente per badare ai bambini.
Chi invece seguiva il nuovo indirizzo scopriva intanto nuove gioie e gratificazioni. Il lattante con il corpo libero aveva un rapporto diverso con la madre rispetto al lattante imprigionato dalle fasce: poteva toccarla, aggrapparsi, giocare con lei, rispondere alle sue sollecitazioni e adeguarsi alle sue richieste; la madre a sua volta poteva accarezzarlo e baciarlo, sollecitarlo e ricevere in risposta gridolini e sorrisi. Per questo legame affettivo che si stabiliva precocemente tra madre e bambino e qualche volta anche tra padre e bambino, il piccolo acquistò un nuovo valore: parve già una persona fin dai primi anni di vita, tanto più che essendo più sereno e meno traumatizzato, era anche meno capriccioso e più gradevole.
Divenne il bambino-re, il bene più prezioso della casa; la sua vita acquistò di valore e se ora fosse morto avrebbe lasciato un vuoto incolmabile. Di qui anche la necessità di provvedere alla sua salute e di curarne l’igiene. Nacque la figura del pediatra: del medico di famiglia che seguiva passo passo le varie fasi dello sviluppo; che si occupava dell’igiene, della pulizia, delle vaccinazioni, dello svezzamento, di come lenire il dolore alla comparsa dei primi denti, di come curare le malattie esantematiche.
Le crescenti attenzioni nei riguardi del bambino si tradussero nel suo migliore stato di salute e, di conseguenza, in una sua maggiore sopravvivenza: il bambino non veniva più colpito da malattie gastro-intenstinali o dell’apparato respiratorio che si traducevano in un’elevata mortalità infantile e che quindi lo rendevano un precario oggetto di affetti. La minore mortalità infantile contribuì a far sì che il bambino si “apprezzasse”: anche questa innovazione demografica contribuì a ristrutturare e a delineare in termini diversi la figura materna.
Tra incertezze, difficoltà, ritardi, differenze di ambiente e di classe sociale, si diffuse perciò una nuova immagine della madre e della donna: una donna competente e responsabile che non si affida più alla provvidenza o al destino, ma che è consapevole del proprio ruolo e delle proprie responsabilità una donna attenta alla dieta, alla salute del bambino e alle sue esigenze psicologiche e che per svolgere il suo ruolo frequenta delle scuole e dei corsi speciali.
Incoraggiate da pediatri e pedagoghi, le mamme impararono a svolgere il ruolo che veniva loro indicato. Alle pappe di farine tradizionali sostituirono il pancotto e la crema di riso; fecero attenzione alla pulizia corporale ed ebbero cura di non lasciare troppo tempo il bambino a contatto con le feci e l’urina. Impararono anche a pensare al piccolo in anticipo: quando si scoprivano incinte stavano attente a seguire un buon regime alimentare e, una volta partorito, continuavano a seguire una dieta che fosse favorevole all’allattamento e alla salute del neonato.
Le preoccupazioni della madre moderna riguardano ogni aspetto della vita dell’infante, il ruolo di sorvegliante della madre non ha più limiti: i figli diventano il pensiero dominante, tanto da potere ingelosire il marito. Come nota Elisabeth Badinter, con l’affermarsi della madre moderna “non amare i figli è diventato un crimine imperdonabile. La buona madre è affettuosa, oppure non è, non esistono le vie di mezzo”.
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