Educare alla genitorialità

Intervista a Fulvio Scaparro

Parlare di genitorialità, di paternità, in una rivista che si occupa di educazione? Un “fuori tema”, a prima vista. In realtà, un modo diverso di affrontare lo stesso argomento: la crescita personale, l’evoluzione psicologica e cognitiva che ogni individuo vive, nel corso dell’esistenza.

In questo senso il “padre” impersona il ruolo, di volta in volta, del creatore, dell’educatore, del giudice, sia all’interno di un processo di evoluzione ontogenetica che filogenetica. Da un lato, dunque, il padre reale con il quale ciascuno di noi si incontra, confronta e scontra, dall’altro il fantasma eterno della psiche, l’istituzione sociologica e antropologica comune a tutte le civiltà di ogni epoca storica.

Prendendo spunto dalla lettura di Talis pater di Fulvio Scaparro, abbiamo voluto soffermarci a riflettere sul ruolo del padre, sulla sua evoluzione ai giorni nostri, rispetto al passato.

Data la vastità dell’argomento, abbiamo creduto di affrontare questo tema da diverse angolazioni, con l’obiettivo di suscitare un confronto tra i vari punti di vista, magari anche in modo provocatorio.

l’intervista a Fulvio Scaparro, che ha avuto luogo, non a caso, presso la sede dell’associazione Ge.A. (Genitori Ancora), apre la discussione.

Salvatore Guida: Vogliamo aprire, sulla nostra rivista, una riflessione sul ruolo del padre, sulle sue presunte modificazioni più recenti, sulle sue crisi, sulle sue difficoltà. Professore, si fa un gran parlare della crisi del maschio moderno. Secondo lei, esiste e ha forse un nesso con la crisi del ruolo paterno? C’entra in qualche modo con la crisi della coppia?

Fulvio Scaparro: La crisi della coppia, indipendentemente dalla crisi del maschio, o del maschio-padre è, secondo me, una favola. La coppia è costruita anche sul tempo, e noi dobbiamo tener presente che per motivi vari la coppia non riesce a reggere i tempi. Una cosa ho capito nell’arco della mia vita: sempre meno si resiste all’usura del tempo, cioè una coppia ha bisogno di due personaggi che siano capaci di rivedersi e di rinnovarsi. Stare trent’anni con lo stesso uomo – o la stessa donna – significa ritrovarsi, alla fine, con una persona diversa. E non è solo un problema di decadimento!

Oggi c’è sempre meno pazienza – tolleranza non ne parliamo – e quindi la coppia oggi è fragile perché si tenta di resistere all’usura del tempo con soluzioni come l’uovo di Colombo, cioè cambiando partner, quindi avendo sempre una donna giovane – o un uomo giovane – perché, in qualche maniera, ci si illude che così il tempo non cambi, non passi. Da questo punto di vista la donna è storicamente e culturalmente più legata al tempo e alla pazienza. Talvolta la soluzione sembra essere, per tutti e due, quella di pensare la coppia a tempo determinato. Ma non è una soluzione! E non per motivazioni moralistiche, ma perché di fatto non risolve i problemi.

L’intolleranza reciproca – e l’incapacità ad affrontare i problemi – è la causa della fragilità della coppia, e quindi dei ruoli di ciascuno. Quindi, se si dovesse fare un lavoro di preparazione per i giovani alla vita di coppia, bisognerebbe dir loro che questa va coltivata e che l’investimento è forte, e che ci sono dei momenti in cui tu non tolleri l’altro e l’altro non tollera te, e se si riesce a superare questo momento nelle convivenze, allora il viaggio intrapreso diventa prezioso. E’ questa la fatica del crescere e dell’amore. Fermo restando il diritto a non stare insieme per tutta la vita, se si sta proprio male, se tutte le volte che c’è qualche discordia all’interno della famiglia si saluta la compagnia, sa molto di faciloneria. Se nel matrimonio si riuscisse ad avere un minimo di saggezza, non sarebbe male. Siamo in un periodo in cui si consuma tutto e tutto si consuma. Si consuma, da questo punto di vista, anche il rapporto. Cosa ti rimane poi alla fine?

Ecco perché io parlerei di più di crisi della coppia che del maschio. D’altra parte, non riesco a capire come si possa parlare di un cambiamento radicale che sarebbe avvenuto negli ultimi venti o trenta anni. E’ tutto così sempre uguale e vecchio! Quello che è nuovo è l’ambiente in cui viviamo: oggi posso sapere subito che tempo fa in Messico; l’essere umano non cambia, cambia la tecnologia, ma non la sostanza.

E anche riguardo al miglioramento dei rapporti del maschio con la donna, potremmo, forse, vedere qualche indizio, nel 3000; se potessimo ricomparire a distanza di 500 o 1000 anni, potremmo vedere qualcosa, ma vivendo giorno per giorno è impossibile, sono cambiamenti epocali! Poiché amiamo spettacolarizzare, la famiglia, ad esempio, negli ultimi vent’anni, è morta una ventina di volte.

S.G. In questo gioco di morti e resurrezioni, quanto può essere realmente cambiato il padre? Si parla molto del ruolo paterno.

F.S. A proposito del ruolo paterno, una novità finalmente c’è una novità, è l’introduzione del divorzio in Italia, e tutti noi conosciamo almeno una famiglia separata; sono avvenute cose insolite nella nostra cultura. Accade che un padre ha la possibilità di vedere i figli solo nel fine settimana in un tempo limitato, cosa che prima non accadeva, perché o li vedeva sempre o mai. Adesso accade che il giudice stabilisca che il padre veda i figli ogni due settimane e gli crei quindi il problema di non sapere cosa fare non essendo abituato al rapporto. E questo ha provocato una maggiore sensibilizzazione dei padri, che per dimostrare alla ex moglie di essere buoni genitori, in grado di fare con i figli tutto quello che fa lei, e di poterli mantenere anche senza l’esperienza materna, si sono dati una mossa.

Qualche spunto viene fuori dalla natura, però l’allevamento dei figli presuppone un’esperienza e una pratica che le donne hanno da sempre, mentre gli uomini l’esperienza se la stanno inventando. Ma questo ha portato beneficio perché i padri, sempre di più, sono in condizione di fare delle cose decenti con i figli.

Stanno cominciando a pensare che accudire i figli non è solo portarli a spasso o fare loro un mucchio di regali, oppure ancora far loro passare una giornata spettacolare e quindi riuscire a far loro pensare che la mamma sia noiosa. La vita quotidiana comincia ad essere un’esperienza notevole anche per i papà.

S.G. Il ruolo del padre e la fisicità sono senz’altro un tema scottante…

F.S. C’erano dei padri che, anche prima, accudivano i loro figli abbastanza naturalmente, magari aiutati anche dalle madri, però erano pochi, perché il padre aveva veramente difficoltà a piegarsi al livello del bambino. Poi il padre è diventato, anche per la psicoanalisi, quello che è diventato e quindi in grado di fare quasi tutto quello che fa la madre. Comunque, ognuno di noi, anche i maschi più “democratici” e “avanzati” si devono rendere conto che sono stati allevati con una mentalità molto particolare e sessista. Per esempio, io posso apparire, per quello che scrivo, un uomo abbastanza aperto per ciò che riguarda l’educazione; anch’io sento che, ad esempio, se mi capita nel traffico un brutto scherzo, dalla pancia mi escono degli insulti che sono fisicamente incontenibili, che riesco a eliminare col cervello ma non riesco a eliminare con la pancia.

Questo per dimostrare quanto siano radicati questi atteggiamenti; e questo non vale solo per il traffico. Oggi parliamo tanto di quanto la donna abbia raggiunto una parità con noi; questo non è vero! Intanto, perché posti di potere per le donne non ce ne sono; la scuola è tutta centrata su questa idea. l’asilo e le scuole materne ed elementari sono tutte al femminile e i maschi iniziano a comparire dopo. In parlamento le donne sono una minoranza e contano proprio poco; attenzione, andiamo a vedere le donne che contano nei diversi partiti. Se si parla tanto di una donna che fa politica, vuol dire che è eccezionale, se no non se ne parlerebbe.

Consideriamo positivo, naturalmente, tutto questo, ma manca molto per parlare di parità.

S.G. Quanto conta Il discorso dell’addomesticarsi reciprocamente, nel senso di coltivarsi, innaffiarsi, curarsi, prendersi cura dell’investimento affettivo sull’altro?

F.S. Anche la donna ha posto resistenze, al di là delle parole, a che l’uomo si occupi più di tanto della casa. Ben venga l’uomo che fa la sua parte nel ménage, poi però ci sono settori che vengono difesi con i denti dalle donne. E difesi comunque: o per sfiducia sul fatto che l’uomo riesca a far bene certe cose, o perché, effettivamente, la cura del ménage è uno dei pochi ruoli nei quali la donna tradizionalmente ha l’ultima parola; ed è come dire ?se mi togli anche questo, non mi rimane più niente? ma le cose non vengono dette proprio in questo modo!

Ci sono cose che sono fondate, altre un po’ meno e sono legate al fatto che tradizionalmente certe aree costituiscono competenze acquisite e consolidate. Da questo punto di vista si potrebbe far molto, ad esempio aiutando i ragazzi e le ragazze a sviluppare quella che secondo me è la naturale condivisione dei ruoli. Molte volte i ragazzi e le ragazze sono molto più aperti a certe cose e riescono a diventare sempre meno maschere.

S.G. Ma, in questo cambiare, sia pure relativo, del ruolo del maschio, è quest’ultimo che influenza il ruolo di padre o viceversa?

F.S. Credo che sia reciproca l’influenza. Penso che la questione nasca nella notte dei tempi e che sia connaturata alla nostra cultura. E’ vero che spesso il padre era padrone della casa, capofamiglia che disponeva della vita e della morte di tutti e che poteva essere associato ad una sorta di padreterno interno. Tutte queste cose io non le mescolerei. Sono crisi del momento ma, piano piano, dopo ogni crisi, si ricostruisce la famiglia: è una gerarchia, padre, madre, figli. Ma poi conta l’affetto, che viene spesso trascurato, perché molta gente non crede in nulla.

S.G. Davanti a questo non credere in nulla, o davanti alla sofferenza dei genitori, il bambino quanto deve essere protetto?

S.F. È chiaro che il padre o la madre non dovrebbero mascherare la loro sofferenza, altrimenti diventa una cosa non autentica. Noi dobbiamo prestare attenzione a non togliere ai giovani la spinta a vivere, perché l’espressione di tutte le sofferenze nella forma in cui sono state vissute, potrebbe fare del male. Il carattere dei giovani è ancora in formazione, quindi occorre fare attenzione al modo in cui viene condivisa l’esperienza di dolore.

Spesso i genitori trasmettono le loro sofferenze in modo non corretto: alle volte non hanno pietà di nessuno. Alcuni raccontano i dettagli più orripilanti senza rendersi conto che un ragazzo di otto o quindici anni non è intercambiabile con un uomo di sessanta. Per certi aspetti non sono più bambini, ma neanche adulti. Bisognerebbe riuscire a far capire la sofferenza, ma che abbiamo trovato anche il modo per cavarcela. Purtroppo, capisco che possa essere umano andare oltre il segno, ma non è certo formativo non filtrare in nessun modo.

S.G. Filtrare, per il padre, può essere anche il fatto di trasformare in gioco una cosa spiacevole?

F.S. Ho visto tempo fa un’intervista a Benigni. Parlando del suo ultimo film, ha parlato anche di suo padre e di questa sorta di levità, appunto, e del giocare.

S.G. Chi ha visto il film ritiene che, al di là della drammaticità del contesto, sia bellissimo il rapporto tra il personaggio di Benigni, il padre, e quello del bimbo. C’è questa protezione dal male, c’è quasi una poesia, un incantamento; come quello di cui lei parla nel suo libro: i momenti di passaggio, del tramonto…

F.S. Non necessariamente devi stare lì a guardare il tramonto, aspettando di essere colto da quel particolare incanto; siamo tutti sempre un po’ meno difesi nei momenti di transizione, all’alba, al tramonto: vengono fuori idee quando fai degli incontri particolari, ti vengono idee comunque quando ti esponi. Parliamo più spesso di un tramonto, diciamo persino che affascina più dell’alba, ma è perché lo vediamo più spesso. E poi il tramonto, se non sei in mezzo alla confusione, è effettivamente più incisivo. Perché In quel momento, se c’è silenzio, tu spalanchi consapevolmente la tua mente. Davvero, bisognerebbe farlo più spesso, ma purtroppo non si può fare ad orario: non si può dire dalle 17 alle 18 spalanco la mente.

S.G. Insomma, “se ci fosse più silenzio, se tutti facessimo un po’ più di silenzio” altra citazione di Benigni o, meglio, di Fellini …

F.S. Certo! Io ho sempre notato che il meglio viene fuori, in certi ambienti più naturali. Di solito i passaggi vengono accompagnati da rituali, rituali che noi abbiamo sempre più perduto. In oriente è normalissimo fermarsi a guardare, fermarsi e basta. Noi abbiamo bisogno della natura, che a volte è catastrofica, ma normalmente cambia molto lentamente. Noi siamo esposti tantissimo a saltare, di qua e di là, improvvisamente, bruscamente e non seguiamo più i ritmi naturali, e non ci rendiamo conto di quanto tutto questo sia traumatico e di quanto renda più fragili sia i ruoli che le persone.