Il mestiere di vivere

Ci era già capitato di fare un omaggio a Cesare Pavese quando, alla ricerca di un titolo che fosse insieme sintetico, evocativo e non retorico per presentare un dossier sul fenomeno del burn out nelle professioni legate alle relazioni di aiuto, avevamo preso in prestito, da una sua raccolta di poesie, Lavorare stanca.

Ci riproviamo anche questa volta e, pur incerti se si tratti di omaggio o improprio saccheggio, con il Mestiere di vivere presentiamo un insieme di spunti e riflessioni intorno al tema dei nonni, del loro ruolo come si è oggettivamente evoluto tra allungamento della speranza di vita, epocali cambiamenti nel mercato del lavoro, diversificazione dei modelli familiari.

Nella concreta esperienza di chi scrive, precocemente e perplessamente nonno, non è stato facile operare un’adeguata separazione tra le considerazioni connesse all’esercizio di una professione pedagogica e i sentimenti, talora confusi, dai quali si è affollati ad ognuno dei riti di passaggio che costellano allargamenti, scomposizioni e ricomposizioni della vita familiare.

Non ci è sembrato opportuno, nel raccogliere i contributi che danno corpo al dossier sui nonni, insistere sugli aspetti sociologici piuttosto che su quelli psicopedagogici: abbiamo preferito porgere una sorta di parete vergine sulla quale ciascuno ha aperto la finestra, la porta o la finestrella che ha voluto, decidendo, in piena autonomia, quanto voleva far venir fuori di privato o di pubblico, di personale o di professionale; affidandosi alle memorie, piuttosto che alle riflessioni, a diffuse e condivise teorie psicosociologiche piuttosto che a molto soggettive letture e interpretazioni dei propri vissuti. C’è chi ha preferito parlare dei propri nonni e chi si è raccontato come nonna o nonno, in servizio permanente effettivo, part-time, occasionale, in essere o mancato, gratificato o magari, con un po’ di malinconia, un po’ frustrato da certe tracotanze giovanili, dei figli più che dei nipoti.

Tutti i contributi mettono in evidenza, comunque, il piacere di essere stati chiamati a dire la propria idea di “nonnitudine”, lasciando in diversa misura intendere che molto altro ci sarebbe da dire. A dire il vero, la sensazione che, nonostante l’ampio ventaglio di testimonianze, si sia solo toccato tangenzialmente l’argomento continua a farsi crescente spazio dentro di me, a galleggiare tra sentimenti e pensieri, orgogli di ruolo e sensi di colpa.

Potrei, personalmente, cavarmela – o addirittura assolvermi attribuendomi una sorta di ravvedimento operoso – dicendo che per il fatto stesso di aver cercato, insieme con la redazione di Pedagogika.it, di portare in bella evidenza la questione nonni, loro ruoli educativi, cambiamento nella percezione sociale e quant’altro, per il solo fatto di aver promosso questa iniziativa sto mostrando di avere a cuore la questione, di essere in certo modo un nonno consapevole e competente.

Potrei persino citare, e lo faccio, di aver scritto e pubblicato, presso l’editore Unicopli, un libro che è una sorta di raccolta di lettere ai miei nipoti. Già in quelle pagine esprimevo dubbi e perplessità sia sulla completa buona fede che aveva animato il mio raccontarmi ai miei nipoti sia sul grado di opportunismo e sensibilità che talora anima quelli della generazione di mezzo, quelli che sono figli e insieme genitori e che, prima o poi, nonni plausibilmente diventeranno.

Voglio dire che, dopo tanta ostensione di buoni sentimenti, miei e altrui, mi prende la paura di avere dato un involontario contributo alla retorica della famiglia, vecchia o nuova, malinconicamente dolce l’una, magnifica e progressiva l’altra per il suo essere contemporanea e sociologicamente contigua al presente, al nuovo; al futuro, persino.

Strani sentimenti che, forse, la dicono lunga sul fatto che il ruolo dei nonni, così come tutti gli altri ruoli ai quali veniamo chiamati nel corso della vita, è un ruolo contraddittorio, ambivalente, non tutto riconducibile a nostalgiche visioni mnestiche o a fosche e rattristanti rimembranze.

Come il diventare genitori non porta tutti, necessariamente, ad una coincidenza o convergenza tra capacità biologica e abilità genitoriale/pedagogica e allo stesso modo mi sembra importante sottolineare che anche l’accesso alla condizione di nonni può comportare per alcuni e per alcune un problema di accettazione, di autoimmagine, di ferita narcisistica alla propria identità, mettere in pesante discussione il proprio essere, e stare, nella famiglia, il proprio abitarla con convinzione e serenità.

Parecchi miei conoscenti, maschi per lo più, non hanno saputo reggere all’evento, qualcuno anche solo al suo approssimarsi, e hanno preferito fuggire: c’è chi lo ha fatto concretamente e cercando legami con persone più giovani che, esorcisticamente, li proteggesse dal significato di metafora dell’invecchiamento; chi limitandosi a rifugiarsi nel lavoro accampando necessità di reddito non sempre dimostrabili; chi, infine, dichiarando la propria incompetenza. E tutti più o meno compensando, o illudendosi di farlo, con la consumistica indulgenza all’acquisto di inutili regali.

Perché non prendere atto della contraddittorietà insita nella condizione umana e, a partire da questa, non provare ad interrogarsi, a disvelare, insieme alla gioia per la vita che continua, insieme a quell’oraziano “non omnis moriar” anche l’angoscia per la vita che passa, fugge, se ne va con il suo bagaglio di stringente necessità? Perché non prendere, anche dolorosamente, atto della difficoltà dell’imparare il Mestiere di vivere?

Personalmente, al di là del mio reale sciogliermi nella funzione nonnesca tutte le volte che posso, ho attraversato angosce e dubbi ai quali ho voluto rispondere scrivendo alcune riflessioni di cui, resistendo al timore di annoiare il malcapitato lettore, riporto alcuni brevi stralci. Stralci ai quali associo, in immediata successione, anche due brani contenuti nel libro di Piero Bertolini, Giorgia, sperimentando così sulle pagine di questa rivista una inconsueta forma di dialogo a distanza tra nonni.

Difficile da dire se quello che vi scrivo veramente ve lo scrivo o se, in qualche modo, lo scrivo per me, per un bisogno mio. So per certo che il fatto di essere nonno, il fatto di non avere fatto con voi quel che, in altri tempi, fece con me mio nonno mi ha procurato qualche disagio.

Lo so, sono cambiati i tempi, i contesti, i luoghi; i ruoli familiari si sono modificati, le appartenenze culturali sono state ibridate, mischiate, rinnovate … ma forse è tutto questo che, davvero, vi voglio dire.

Mi piacerebbe riuscire a raccontarvi cose che nessun libro potrà raccontarvi se non con la distanza della lettura antropologica, con la fredda generalità della ricerca sociostatistica, con la sufficienza espositiva dello spaccato di colore, del folklore.

Vorrei risparmiare a me, ma soprattutto a voi, l’imbarazzo e lo sradicamento dell’immigrato di seconda e terza generazione.

Vorrei evitarvi di dover scoprire troppo in là nel tempo che la vostra formazione personale non è tutta dentro questi luoghi in cui abitate, siete nati, state crescendo.

Vorrei farvi sapere, per tempo, che nella vostra storia personale, nella storia della nostra famiglia, c’è tutto un filone, una serie di storie e di vite di nonni, zii, nipoti, bisnonni, gente che ha vissuto in un’altra parte del mondo.

Gente con altre abitudini e riferimenti culturali, idiomi e modi di pensare dai quali, in qualche modo e senza alcuna consapevolezza diretta, discendiamo e discendete.

E tutti, anche voi, abbiamo tratto, sia pure con la mediazione delle generazioni, alcuni degli elementi costitutivi della nostra personalità.

Poco mi importa della effettiva rilevanza genetica, della reale incidenza della mia famiglia – lo so, per voi io e la mia famiglia rappresentiamo solo un quarto del vostro “bagaglio” – ma io sto parlando d’altro.

Sto parlando, forse, dell’angoscia della dispersione, sto cercando di far sopravvivere, attraverso voi, attraverso il mio raccontarmi a voi, la mia storia, la mia vita, il mio esistere ed essere come sono perché, prima di me, altri ci sono stati che a me hanno lasciato parte di loro. E hanno potuto farlo perché, una volta, il passaggio di alcune informazioni, valori, modi di dire, di sentire, di ridere, di piangere e soffrire era più facile: era agevolato dalla vita in comune.

Si abitava in paesi piccoli, le distanze tra le case erano minime e talvolta si abitava tutti nella stessa casa, tre, quattro generazioni e le radici le storie di famiglia si respiravano quasi insieme all’aria.

Oggi, tutto è più dilatato, annacquato dalle distanze, dai tempi della città, dagli impegni di lavoro di genitori e nonni, dal bisogno di autonomia e di autoreferenza dei genitori che mal sopportano le ingerenze dei nonni e, tutt’al più, accettano che ti metti a raccontare una fiaba ai loro bambini, ma, per carità, di quelle “testate”, che non turbino i sonni dei pargoli! Ho deciso, quindi, di mettermi a scrivere e queste mie pagine le consegnerò ai vostri genitori: decideranno loro quando sarà il momento giusto per farvene partecipi…”.

…Amo anche, e forse di più, navigare nell’ampio mare della memoria, in quel liquido affollarsi di ricordi che mi hanno spinto a scrivervi di me.

Perchè scrivere, perchè scrivere di sé?(…)

Scrivere è poter riprendere brandelli di vita sciupata o mal vissuta, poterci tornare sopra, studiarsi con occhio anche pesantemente autocritico e cercar di riposizionare sentimenti e ricordi in un modo tollerabile e, soprattutto, comunicabile.

Significa anche saper uscire dalla vertigine di sapersi al centro di uno strano gioco di relazioni dovuto all’età ed alle strane combinazioni che la vita, a sorpresa, riserva. Mi vado chiedendo anche se tutto questo scrivere, questo raccontarvi di me, dei miei parenti, della mia terra, non sia una sorta di espiazione; o un senso di colpa per i sentimenti di inadeguatezza che, qualche volta, mi hanno assalito quando pensavo quanto era difficile essere, insieme, figlio, marito, padre, nonno.

O se, piuttosto, dietro questa esposizione del sé, in questa che la Maraini chiama l’impudicizia autobiografica di chi scrive, non ci sia, ancora, il ragazzino migrante che vuole esibire il percorso che ha fatto, gli ostacoli che ha superato, le conquiste che si è sudato.

E’ probabile che io, come tanti, del resto, abbia, senza averne piena consapevolezza, qualche conto aperto su cui debbo ancora ragionare e sul quale vorrò ancora scrivere. Ma sono paziente, della pazienza siciliana che dilata le emozioni all’infinito e stravolge la sensazione del tempo piegandola alla necessità. Significa, infine, tollerare il dubbio che, davvero, possa interessarvi come io elaboro le mie frustrazioni, come coltivo pensieri e ripensamenti, come interrogo il mio ombelico (….).”

(Salvatore Guida, da Giardino sicano)

Cara Giorgia,

non so se e quando leggerai le pagine di questo libro.

Ma una cosa è certa: le ho scritte innanzitutto per te, per aiutarti non già a ricordare, che sarebbe comunque impossibile, o quasi; ma per trasmetterti un sapere personale che ti appartiene anche se solo a livello inconscio, nel profondo della tua personalità.

Ma le ho scritte anche per me. Spesso si dice che in un autentico rapporto, soprattutto se di tipo educativo, fra due persone, entrambe subiscono delle trasformazioni. Personalmente l’ho sperimentato di frequente, ma questa volta è stato diverso. Intanto perché io non ero abilitato – e nemmeno autorizzato ad essere un tuo educatore. Poi perché, ed era ovvio che fosse così, è di fatto volutamente mancata una volontà pedagogica; se preferisci, è mancato un vero e proprio progetto (un programma?) da seguire con sufficiente convinzione e decisione.

Si è trattato comunque di un rapporto educativo che si è andato tuttavia costruendo passo per passo, spontaneamente, quasi senza volerlo. Per questo è stato significativo, almeno lo spero, per te, ma lo è stato analogamente per me. Anzi, per me, forse, lo è stato di più. Esso infatti mi ha permesso di sviluppare senza fretta e senza troppa ansia una serie di riflessioni, pedagogiche ma non solo, che negli altri casi (a partire da quelli professionali) non sempre mi è stato possibile compiere.

Sono stato molto incerto se dare o no alle stampe il risultato di queste riflessioni. Se l’ho fatto è perché ho sentito il bisogno – proprio così – di esternare le emozioni, i sentimenti, i pensieri che il rapporto con te mi ha suscitato, e la cui intensità è stata, non ho difficoltà a dire, straordinaria.

Se il fatto che queste pagine  non siano rimaste solo tue – ma lo sarebbero state veramente? – ti ha dato o ti dà fastidio, ti chiedo perdono. Un perdono che, mi auguro, non ti sia difficile concedermi se non altro perché l’età autorizza debolezze personali altrimenti poco scusabili.

 Potrei concludere queste pagine dicendo che scriverle – e, prima ancora,vivere le esperienze che ho raccontato – è stata per me un gran bella avventura, e così ringraziarti, cara Giorgia, per avermene dato l’opportunità.

Ma questa forma di commiato non mi soddisfa affatto.

Non giustifica, infatti, una qualsiasi conclusione di un percorso fortunatamente ancora aperto ma che non intendo più – forse che non sono più capace di – seguire come ho fatto in questi tre anni.

Allora preferisco interrompere questa specie di dialogo con me stesso (e, ovviamente, con te) con un’ultima riflessione, forse un tantino esagerata e strappalacrime, ma non per questo meno sincera, che mi viene suggerita non dalla mia razionalità ma dalla mia capacità di emozionarmi.

Eccola in due parole. E’ certamente molto bello, e in un certo senso anche rassicurante, sapere che tu hai tutta la vita da conquistare e quindi da rendere significativa per te e per gli altri che vivranno con te. Ma è altrettanto triste sapere che io non potrò seguire questa tua progressiva conquista se non per qualche anno soltanto. Ti pare giusto che una persona come me – come tutti i nonni che hanno cercato di esserlo nel migliore dei modi – che ti ha visto crescere nei primi tre anni di vita, che si è convinto di quanto questi tre anni di vita siano stati importanti per il tuo futuro, che in fondo ha contribuito almeno un po’ al costituirsi della tua personalità, sia condannata a non sapere nulla di ciò che diventerai, di ciò che sentirai, penserai, deciderai? No, per me non è giusto. Anzi, è quanto di più difficile da accettare. E’ davvero una condanna senza appello del nostro essere piccoli e tremendamente limitati nel tempo!

(Piero Bertolini, da Giorgia)