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Fabio Degani

Ciascuno di noi ha la propria genealogia e la propria carta d’identità terrestre.

Ciascuno di noi viene dalla Terra, è della Terra, è sulla Terra…

Assumere la cittadinanza terrestre è assumere la nostra comunità di destino

il compito è immenso e incerto, e siamo alla vigilia non della lotta finale, ma della lotta iniziale”.

(E. Morin, Terra-Patria)

Scrivere non è una cosa facile. Anche per chi sembra farla facile. Ancora meno facile è scrivere di una persona scomparsa, soprattutto quando è cara. Là dove si dovrebbe mettere il “punto”, si continua ad imporsi con prepotenza il “punto e virgola” (e…; e…; e…;). Quando si è più fortunati. O si è sufficientemente abili nel governarsi, nel non varcare la soglia degli impasti emotivi ed affettivi che non usano segno e proseguono imperterriti. Nulla, in ogni caso, anche quando si riesce a governarsi, garantisce alla memoria in viaggio l’immunità: dall’aneddoto fine a se stesso; o dal monumentalismo, già fine a se stesso nell’atto e nella fatica della sua costruzione.

Sarebbero piaciuti a Salvatore Guida esiti di questo genere? Viene da dire no, leggendolo in “Giardino Sicano”: “Devo confessarvi che, per lavoro, mi tocca — e lo faccio con piacere — occuparmi delle «memorie» di altre persone; ma, come spesso accade anche alle persone più modeste, anch’io ho qualche ambizione: mi illudo che quel che andrò scrivendo non sia solo, e per intero, ascrivibile al filone memorialistico… (…)Penso… che, in questo momento, il mio desiderio sia quello di mettermi alla prova, di cimentarmi in un percorso che abbia un significato educativo. Mi piace pensare ad un tentativo di sperimentare la rilevanza formativa, per i più giovani — in questi nostri tempi del villaggio globale e dei miliardi di informazioni disponibili in rete — del poter fruire di conoscenze che nessun network può render loro disponibili”.

Mettersi alla prova”, “cimentarsi in un percorso educativo”, “giovani”, “sperimentare”, “fruire”. Sono parole che compongono il lessico di un’esistenza come quella di Salvatore. Un lessico riconosciuto dai pensieri, dai gesti di affetto che gli rivolge tuttora chi lo ha incontrato e frequentato, anche se per brevi momenti. Entrando nella sede della cooperativa Stripes, di cui egli fu fondatore e a lungo presidente, una piccola targa posata su un’aiuola, recita “A te che ci hai creduto più di me”. All’entrata, sulla bacheca, uno scritto che comincia così: “Ci hai insegnato che lavorare con le persone, con i ragazzi, con i bambini… è quanto di più importante possa esistere”.

Molti sono coloro dai quali Salvatore Guida è stato considerato un maestro. Un maestro non formale, capace di mettersi in gioco con senso di cura, non direttivo ma incisivo, aperto e ben disposto alla reciproca – termine che amava – “contaminazione”, abile, riprendendo Bertolini – un altro pedagogista con cui vi era stima reciproca – a stare nel “vivente dell’educazione”.

Io credo che un riconoscimento così generalizzato difficilmente possa ascriversi soltanto alle qualità del carattere della persona, che pur non mancavano. Anche la consapevole ricerca di un’identità, il desiderio di collocarsi in modo significativo nei processi sociali, culturali, pedagogici ed educativi del proprio tempo, l’esigenza di una “pensabilità” di sé nel e con il mondo, assumendo lo sguardo, la prospettiva della complessità, contano. Erano una cifra visibile nelle riflessioni e nelle pratiche di Salvatore: “Sono entrato nella scuola, da scolaro di prima elementare, da «primino» in prova, circa 62 anni fa. L’ho attraversata fino a poco più di vent’anni per rientrarci, poco dopo, da insegnante. É più che una dipendenza: non riesco a smettere! Continuo ad occuparmi di educazione professionalmente, senza peraltro essermi fatto mancare nulla neanche sul versante più personale, come padre e nonno. Sono più di quarant’anni, pressappoco da quando veniva promulgata la legge n°1044/71, che mi occupo di infanzia, di educazione, di formazione di operatori.” – in “Educare non è facile”, Pedagogika.it.

Sono tutti elementi, questi, che compongono una visione un’intenzione politica nella quale percorso umano e professionale, vissuto quotidiano si intrecciavano inesorabilmente nella forma e in direzione di una costante apertura al mondo, senza particolare timore di sporcarsi le mani con il disagio del nostro tempo ed anzi avendone il desiderio e l’energia, credendo laicamente nelle possibilità trasformative dell’educazione e partendo dall’idea che l’unica impossibilità dell’esperienza umana è quella di “stare soli”: “Educare non è facile, perché non è attività che si possa improvvisare, non è lavoro che si possa fare svogliatamente…”; ma nemmeno attività che possa prescindere dal guardare agli altri: “… dal confronto possono nascere positive contaminazioni, reciproci arricchimenti. É un altro dei nostri modi di essere sempre presenti e vigili sul terreno del confronto, non nutrendo presunzioni esaustive né illusioni autoreferenziali: abbiamo la consapevolezza del fatto che il mondo dell’educazione è popolato da così tante figure professionali, da così tanti modelli e stili educativi che pretendere di farne sintesi è fatica improba e, questa sì, inutile… Riteniamo che rinunciare a parlarne con chi la pensa diversamente da noi finisca, fatalmente, per diventare una rinuncia ad occuparsene, scada in un atteggiamento di chiusura e di abbandono”.

Assumeva concretezza in Salvatore questa impossibilità di “stare soli” attraverso la considerazione del valore della relazione con l’altro; la consapevolezza dell’interdipendenza tra le persone e della necessità di reciproco riconoscimento; la capacità di giudicare se stessi, per esempio astraendo dalle abitudini ed assumendo l’inciampo e l’erranza come valide occasioni pedagogiche; la propensione a mettersi nei panni dell’altro.

Questa continua tensione non aveva bisogno di essere colta attraverso approfondimenti astratti, concettualizzazioni articolate. Essa – bastava guardare – si manifestava continuamente, con una serie di atteggiamenti e comportamenti che componevano una sorta di fenomenologia del quotidiano: una fisicità immediata e diretta, l’incessante viaggiare da un posto all’altro, da un interlocutore all’altro, le partecipazioni a convegni e seminari senza alcuna preparazione di relazioni scritte – perché se l’impianto culturale generale è sufficientemente solido, si può fare a meno di affermare ed è più giusto collegarsi e confrontarsi con gli altri relatori – la creatività progettuale e gli scarti organizzativi in situazioni impreviste, la capacità di consolare ed incoraggiare, lo scambio delle esperienze a partire dai punti critici. C’era, insomma, in Salvatore una grande voglia e un’incredibile energia spese nel socializzare, condividere idee, progetti, sentimenti, comportamenti, esperienze. Con il desiderio di crescere ed aiutare a crescere costruendo relazioni rispettose delle soggettività e capace di fare emergere, nelle relazioni medesime consapevolezza di sé, capacità, autonomia: “Sta in me, forse, la convinzione che il sapere non sia, in sé, una merce indifferente ed indipendente dal modo in cui si riesce a porgerlo”.

Luca Alberti

Fissare sulla carta il ricordo di un amico è, al contempo sia una grande opportunità – consente di fermarsi a riflettere sul senso di una relazione vissuta e compiuta: a scavare, a rielaborare, a fare bilanci personali – che un impegno oneroso, che assume senso pieno se, dall’esperienza della nostra specifica relazione, consente di distillare l’essenza della persona oggetto della memoria, una raffigurazione che anche altri possano riconoscere e condividere.

Salvatore è stato mio dirigente – era stato chiamato a guidare il settore socioculturale di un Comune in cui io ero responsabile della biblioteca – poi divenuto anche amico e maestro.

Non è, naturalmente, né automatico né scontato che un rapporto di tipo gerarchico e amministrativo subisca una tale trasformazione: mi ritengo quindi doppiamente fortunato, per aver incrociato un dirigente come lui – con le sue peculiari doti umane e la sua specifica vocazione pedagogica che in lui diveniva vero e proprio modus operandi da applicare anche in campi assai distanti da quello pedagogico in senso stretto – e per essere stato oggetto proprio io, piuttosto che altri, della sua amicizia e del suo insegnamento.

Io credo che ciò sia successo in virtù di alcune caratteristiche specifiche della personalità di Salvatore.

In primo luogo, l’empatia: si crea spontanea comunicazione affettiva sulla base di valori comuni o percorsi di vita che, in qualche modo si sono incrociati – gli studi classici, ad esempio, nello stesso liceo milanese di cui era stato preside mio nonno – e questo consente un immediato riconoscimento reciproco che annulla la necessità di un faticoso percorso razionale di conoscenza della persona che si ha di fronte.

Poi, la capacità d’ascolto e di comprensione delle esigenze profonde delle persone, al di là di quanto esse siano disposte a manifestare in modo esplicito. Salvatore aveva di fronte, nel mio caso specifico, un bibliotecario ormai ostaggio della propria routine quotidiana, che cercava fuori dal lavoro – nel campo degli studi che aveva condotto all’Università – una gratificazione che il lavoro non gli forniva più. Aveva saputo decifrare le mie difficoltà e darvi risposta.

Infine, la capacità maieutica, dote pedagogica per eccellenza. Salvatore decise di aprire un ufficio comunale per gli stranieri (nel 2000: non eravamo proprio agli inizi, ma quasi, di un fenomeno di cui era difficile prevedere la strategica rilevanza sociale, culturale e politica che ha oggi) e di affidarmelo, stanandomi dal quieto tepore della biblioteca. Io ero, puramente e semplicemente, terrorizzato: mai mi sarei creduto capace di farmi carico di problemi spesso drammatici e del pesante carico emotivo che il nuovo lavoro comportava.

Salvatore, invece, aveva perfettamente capito che il papero, buttato suo malgrado in acqua, avrebbe dato fondo alle sue capacità natatorie e avrebbe saputo, recuperando ciò che aveva studiato, sfoderare a sua volta la propria empatia nei confronti dei suoi nuovi interlocutori. Una spinta – autorevole e non autoritaria – a compiere una scelta che, da solo non avrei mai avuto il coraggio di fare ma che mi era invece assolutamente necessaria.

Credo di essere un uomo fortunato che ha avuto, nel corso della vita, molti maestri: in famiglia, all’università, sul lavoro. Definisco maestro chi non mi ha semplicemente trasmesso delle conoscenze, ma lo ha fatto appunto con capacità empatiche, di ascolto, maieutiche: chi mi ha dato il privilegio di essere mio interlocutore e non semplice insegnante.

Salvatore è stato per me, e per molti altri come me, un maestro. Un maestro vero.

Dario Albertini

Il mio rapporto di conoscenza e stima con Salvatore Guida é nato e si é consolidato in un tempo breve.

Tre anni scanditi dalle sue visite in libreria in occasione di ogni suo ritorno a Bivona e una corrispondenza discreta diventata più fitta nel corso degli ultimi mesi.

Ma cosa significa “tempo breve” nelle relazioni umane?

Quale valenza può avere il tempo quando un rapporto si fonda sulla stima, sul rispetto, sulla condivisione di valori e su un comune sentire?

Salvatore entrava in libreria oscurando la luce della porta con la sua figura possente, mi salutava con quello sguardo carismatico ed unico accompagnato da una di quelle strette di mano vigorose ed oneste con le quali una volta si concludevano, senza firme, persino i contratti.

Salvatore era un lettore ingordo di leggere e sapere.

Fino a prima di conoscerlo, ero solito distinguere gli avventori della libreria in due categorie in base al loro comportamento: i lettori chiaccheroni e quelli riservati, più avvezzi ad aggirarsi in silenzio tra gli scaffali che ad interagire con il libraio. Poi, conobbi Salvatore.

Ricordo il modo in cui osservava i libri riposti sugli scaffali, il gesto con cui, afferratone uno, lo teneva tra le mani quasi a volerne far trasudare il contenuto da cui traeva spunto per iniziare con me una conversazione che, partendo dal libro stesso e dalla quotidianità, diventava una riflessione sulla vita, dai suoi aspetti più semplici alla politica, terreno sul quale ci eravamo confrontati, talora in accordo talora in disaccordo, durante la campagna elettorale per le ammininstrative del 2012.

Mi scrisse: “noto con piacere che antipatizziamo per gli stessi tipi umani”, ma allo stesso modo avevamo in comune tipi umani e persone per le quali entrambi nutrivamo affetto e simpatia.

Nel 2014 mi aveva onorato del darmi del tu ed anche lasciatomi intendere con sufficientemente chiarezza che mi sarei potuto rivolgere a lui nel medesimo modo. Ma non ne fui capace, fedele come sono al “lei” come manifestazione di riguardo che si deve a chi sentiamo maestro.

Di salvatore Guida porto e porterò con me il rispetto radicato per le persone, tutte, persino per l’avversario; l’apertura al confronto aperto, l’amore per la vita in ogni sua manifestazione, quell’integrità espressa anche attraverso una semplice stretta di mano che prima di conoscerlo avevo trovato solo in un uomo, mio padre di cui avevo scoperto in Salvatore impressionante quanto rassicurante somiglianza.

E ora che naviga sulla sua barca in un mare sconfinato, quel mare l’amore per il quale ci accomunava, con le vele gonfie di un vento il cui soffiare e mutare non ci é dato comprendere, mi piace pensare che ci abbia voluto fare uno scherzo mentre ci guarda da chissà quale posto del mondo. Come le rock star e le stelle del cinema, scomparse all’apice della loro fama e di cui si dice che in realtà non siano mai passate a miglior vita ma che siano in qualche terreno paradiso a farsi beffe di noi a cui mancano tanto.

I grandi lo fanno e Salvatore era… é… un grande.

Buon vento caro amico!

Pier Antonio Biondi

Tutta una vita come fosse una 4×100

Ai campionati studenteschi mi avevano messo nella prima frazione della 4×100 e tu eri nella seconda. Alla fine della curva mi sono scomposto e, rincorrendoti per passarti il testimone, ho preso il tuo tallone con la punta della mia scarpetta chiodata. Hai corso la tua frazione come se nulla fosse accaduto e solo dopo, nello spogliatoio, ti sei accorto che il piede era inzuppato di sangue. Non me lo perdonerò mai, ma ho pensato, allora, di che pasta dovevi essere fatto e di quanto, per te, contasse più la squadra della sofferenza personale. La vita, poi, lo ha confermato e tante squadre te ne sono grate.

Non avere paura che ti possa dimenticare, visto che sto perdendo la memoria: a casa non uso mai lo zucchero ma solo il miele e compro sempre quello che viene dal Casentino.

Ciao Salvatore. Ci vediamo per la prossima staffetta.

Maria Lazzati

Una ventata di sana follia siciliana

Di Salvatore ricorderò sempre l’aver portato con il suo arrivo nella nostra classe una ventata di sana follia siciliana e di aver reso più supportabile il peso (in tutti i sensi) di una certa Ermellina, prof.ssa di matematica incubo dei più.

E come non dimenticare la sua magistrale interpretazione teatrale a fine anno scolastico del “Berretto a sonagli” dove si muoveva da consumato attore in mezzo a uno gruppo di volenterosi comprimari di cui ricordo solo l’agitarsi di mani!

Ma forse allora non avevo avuto modo di conoscere a fondo l’altro Salvatore, quello che scelse, in barba a ogni mia previsione, un indirizzo di vita rivolto agli altri, che brigò per fare in modo che, pur con i miei problemi, potessi partecipare alla sua festa di Rho e che a dicembre, già ricoverato in ospedale, rispose agli auguri dicendo che di non voler far conoscere ai compagni il suo stato di salute per “non deprimere lo spirito del gruppo” durante le festività.

Enrico Pasqui

Un compagno dinamico e solidale

Febbraio 1964, freddo cane, corsa campestre al “Forza e Coraggio”. Partiamo insieme, insieme restiamo finché, al secondo giro, Pasqui scoppia. Guida non lo abbandona, lo affianca, lo tira fino al momento del ritiro del compagno.

Estate 1965, prima della maturità: nel gran caldo io e Salvatore compiamo alcune scorribande in Lambretta lungo la Comasina e il Sempione con qualche puntata a Milano.

Maggio 2014, Parco dell’Adda, rimpatriata annuale ex-III F: lungo una scalinata erta verso una chiesetta millenaria Salvatore ed Enrico restano staccati dal gruppo, salgono senza fretta parlottando dei propri acciacchi.

Maurizio Zacchetti

Un funerale diverso dagli altri

Più che a matrimoni, cresime, comunioni, battesimi o compleanni, è ai funerali che io di solito non manco di andare. Cerco scrupolosamente di evitare gli appuntamenti del primo tipo perché non mi riesce di far festa quando la festa è imposta dal calendario o nelle circostanze canoniche in cui bisogna per forza essere allegri. Andare ai funerali, invece, non è che mi piaccia, ma sento il dovere morale – se conoscevo la persona, anche se non necessariamente mi era amica ma se comunque aveva significato qualcosa per me nel corso degli incontri che con essa avevo avuto durante la vita – di renderle comunque quest’ultimo omaggio, nel prendere congedo da lei che mi precede in questo viaggio verso l’ignoto che un giorno anch’io dovrò affrontare. Vado per riflettere, vado per interrogarmi. E poi, sotto certi profili, i funerali sono molto istruttivi: ne ho visti di tutti i tipi, da quelli in pompa magna a quelli senza neanche un fiore, da quelli partecipati da folle oceaniche, magari più attratte dall’evento che non dal sentimento, a quelli nei quali, oltre il prete e il sagrestano ci si poteva contare sulle dita. Istruttivi perché è spesso in quest’occasione – dal tipo di gente che prende parte al rito e da come si comporta, da cosa dice e dai commenti che fa – che a volte finalmente e a volte non senza sorprese si capisce in positivo o in negativo chi fosse stata veramente in vita la persona che si accompagna all’estrema dimora. Sotto questo profilo i funerali di Salvatore sono stati straordinariamente esemplari. Ho visto un’intera cittadina – Rho – parteciparvi e affollare commossa e compunta la stradina di periferia dove risiedeva Salvatore, per lo più giovani belli da vedersi nel loro dolore misurato e intimo, non di facciata: a chi sfuggiva una lacrima, chi sulla bara deponeva una carezza. E quanti fiori al funerale di Salvatore. Ma quelli che secondo me contavano di più, non erano le grandi e ricche corone con le coccarde di dedica (che pur c’erano ed erano moltissime), ma i variopinti e semplici mazzi di fiori di campo deposti con pudore dalla gente più umile e anonima. Io fino a quel momento avevo solo vagamente intuito che cosa avesse fatto Salvatore nella vita, il valore di apertura verso la gente – soprattutto la più bisognosa – che era alla base delle attività delle organizzazioni che Salvatore aveva saputo creare. In quel momento ho capito – cosa che finora non ho saputo fare io nella mia vita e della mia vita – come Salvatore sia stato un uomo che ha saputo spendere bene e far fruttare i talenti che gli erano stati affidati all’atto della sua nascita. Sono stato contento per lui che al suo funerale anche noi della F fossimo presenti in molti: a distanza di quarant’anni quasi metà della classe. Dire che verrà ricordato e rimpianto, nel caso di Salvatore, non è una frase di maniera. Questo del suo funerale, sotto certi profili, è l’ultimo ma forse anche uno dei più belli che ci ha lasciato. Un funerale così non capita di vederlo tutti i gironi: Salvatore se lo meritava.

Qualche altro mio ricordo personale di Salvatore? Tantissimi.

Tra tutti: il torneo “interclasse“ di pallavolo in cui, sotto la guida di uno scatenato e sudatissimo Salvatore, la nostra sezione F arrivò inaspettatamente a classificarsi seconda; la recita presso l’allora Teatro Angelicum de “Il berretto a sonagli” di Luigi Pirandello, in cui Salvatore “giganteggiò” suscitando unanimi applausi di consensi nella doppia veste di regista e di prim’attore; le lezioni presso l’aula di chimica e di fisica in cui Salvatore seppe sporadicamente ma egregiamente svolgere il ruolo di assistente nella conduzione degli esperimenti di quella “pazza” dell’Ermellina; le esilaranti risposte a un’interrogazione di filosofia della buonanima di Fiorilli in cui Salvatore seppe disquisire per mezz’ora di un argomento di cui non sapeva assolutamente niente; in anni recenti, la sua tenuta da “nettuno” (maschera, pinne e panza) al bagno di ottobre in quel di Framura, nonché la signorilità della sua ospitalità riservata a quelli della F nella “2giorni” nel Mugello.

Grazie ancora di tutto, Salvatore.

Aspettaci lì dove sei andato avanti, ché un giorno torneremo a riunirci per nuove imprese.

Flora Giantomaso

L ‘amicizia è uno dei doni più preziosi perchè ci permette di donare la nostra gioia e di ricevere quella del nostro amico. Non negare mai a nessuno la tua sincera amicizia”.


Chiara Baratti

Salvatore, un siciliano emigrato a Milano a quindici anni negli anni ’60, che entra in una classe del liceo Manzoni (il liceo classico bene di Milano) e, non solo non mostra disagio, ma gioca la parte del diverso fino in fondo, riuscendo a interagire con tutti con la sua maschera teatrale.

Questa è l’immagine che ho io di Salvatore, immagine che non distingue troppo il ragazzo di allora dall’uomo che ho re-incontrato cinque anni fa. Ricordo Salvatore alle prese con le recite di Pirandello allora, e con la curiosità di conoscere una forma particolare di teatro di improvvisazione, quando ci siamo rivisti dopo quasi cinquant’anni.

Una maschera del teatro greco, una maschera popolare, una maschera di vitalità e di azione: questa è per me l’altra faccia del pedagogista e dell’imprenditore, che ho ritrovato dopo tanti anni.

Carlo Ventrella

Salva, nulla dei progetti che avevamo realizzato a Pavia si è salvato”

Carlo pirla, vienimi a trovare!”

Salva pistola, dove stai?”

Questa conversazione era intercorsa tra me e Salvatore pochi giorni prima che Maria mi annunciasse la sua morte.

Nelle poche parole scambiate per sms è sintetizzato il rapporto affettuoso che ci legava, ma sopratutto la disponibilità umana e intellettuale che Salvatore Guida dimostrava in ogni momento della sua attività professionale verso chi collaborava con lui nella realizzazione di progetti educativi. 

Ma è accaduto a noi due che, da un rapporto professionale, è scaturito un profondo legame amicale nutrito certamente da ideali e valori comuni ma sopratutto dalla capacità di ascolto e di accoglienza che Salva aveva certamente come caratteristica della sua personalità.  

Coltivata” proprio alla luce di quegli ideali che per così dire ci avevano affratellati.

La nostra conoscenza risale alla partecipazione ad una convention sugli asili nido italiani tenutasi nel luglio del 1997 ad Ancona. Esausti dopo due giorni di relazione e dibattiti e lavori di gruppo in una soffocante Aula Magna di una scuola media nella periferia di Ancona, ovviamente per fumare, c’eravamo incontrati su un terrazzo accomunati dal desiderio di sottrarci con qualche battuta ironica  a quella atmosfera mista di rivendicazioni sindacali, progettualità accademica ultra raffinata, nonché di interventi della solita sottosegretario o parlamentare locale che prometteva mirabolanti ed improbabili riforme. 

Scoprimmo così che forse, essendo stati entrambi ex comunisti, verso la fine degli anni ’70 avevamo entrambi frequentato la stessa Commissione di lavoro sulla formazione professionale istituita a livello regionale dalla direzione del PCI; in quella sede probabilmente avevamo sostenuto tesi “rispettosamente opposte” a quelle del relatore che all’epoca come potemmo ricostruire nel ricordo che ci accomunava era un funzionario di partito che aveva ben scarse competenze in materia ma non avendo prospettive di carriera ad alti livelli dirigenziali era stato dirottato sul binario morto di una commissione sostanzialmente inutile. 

Scavando nelle rispettive memorie  ci stupimmo di aver partecipato allo stesso progetto ministeriale di riforma della pubblica amministrazione (FEPA) che aveva coinvolto 400 enti pubblici in tutta Italia nella seconda metà degli anni ’80, anche quel progetto che si poteva realizzare con una spesa irrisoria si arenò lasciando comunque un’eredità di cultura professionale utilissima per chi svolgeva un ruolo dirigente negli enti locali. 

Ma la fine degli anni ’90 e il periodo immediatamente successivo a Tangentopoli nel vivo dello scontro tutto politico tra centrodestra e centro sinistra, tra valori ed ideali ultra liberisti ed idealità progressiste, c’era stato spazio per entrambi nel tentare una progettazione educativa che avesse al centro come fulcro programmatico ed istituzionale il Comune ed il suo ruolo nell’ambito di un sistema formativo integrato con le realtà del terzo settore. 

Scaturì anche l’idea di dar vita ad una rivista, Pedagogika, che nel suo primo numero nacque come raccolta degli atti di un convegno sulla riforma della scuola che appunto si tenne a Pavia con la collaborazione ed il patrocino del Comune di Pavia, dell’Università, ecc…

Nei 15 anni successivi, nel pieno rispetto dei differenti ruoli io e Salva, mattone su mattone, riuscimmo a costruire a Pavia una rete di attività e di servizi che lungamente hanno saputo resistere all’avvicendarsi di amministrazioni di svariato colore.

Debbo a Salvatore il sostegno umano e morale in molti momenti della mia vita in cui dovevo per mantenere ben saldi i principi che ci accomunavano, decidere di rompere il rapporto contrattuale che mi legava all’amministrazione da cui dipendevo. 

Ancor di più gli debbo la vicinanza nei giorni angoscianti successivi alla morte improvvisa di mio padre con il quale solo negli ultimi mesi della sua vita ero riuscito a recuperare un rapporto confidenziale ed affettuoso; in quei giorni le ore passate con Salvatore hanno avuto la fondamentale funzione di rimuovere rimorsi, rancori, incomprensioni e nel col tempo restituirmi un pacificato ricordo di mio padre a cui attingere ancora riscoprendo un affetto paterno profondo seppure troppo pudicamente manifestato.

Nei primi anni 2000 dalla realizzazione di un corso di formazione professionale per addetti a cooperative sociali tenutasi a Roma nacque il comune intendimento di impiantare attività educative anche nell’hinterland romano ovviamente concorrendo agli appalti di servizio banditi dagli enti locali; nei due anni in cui si lavorò insieme con rapide incursioni in pochi giorni mi sembrava, durante il viaggio in automobile, ovviamente con Salvatore costantemente per ore alla guida, che ogni ostacolo burocratico fosse facilmente aggirabile davanti alla razionalità del progetto e della sua realizzabilità.

Ma committente pubblico e progettista oltre ad essere entrambi muniti di ben salda onestà intellettuale, debbano condividere quello che in un tempo ormai remoto con un pò di retorica si definiva il senso dello stato e dell’essere entrambi servitori del bene pubblico.

Questa era l’altra caratteristica di Salvatore: nessun ostacolo è insuperabile e chiunque si trovi a doversi assumere la responsabilità di dirigere nel privato o nel pubblico i servizi educativi deve porsi sempre il problema e risolverlo di motivare e formare il personale che collabora con lui. 

In tanti altri momenti della mia vita privata recente ho fatto ricorso al consiglio e all’affetto di Salvatore, è forse questo che più mi manca nella consapevolezza tuttavia che continuare a ricordarlo mi è indispensabile per sentirlo vicino come una presenza viva.

Di ciò gli sarò grato fino a quando sarò capace di rivivere nella  memoria il tratto di vita percorso assieme.

Barbara Mapelli

Non ho conosciuto molti anni fa Salvatore e non sono state numerosissime le nostre occasioni di incontro, quindi potrei dire che la nostra amicizia non ha una storia: eppure voglio scrivere di lui, anche – ma non solo naturalmente – per il gran bene che voglio a Maria.

Conosco Salvatore e Maria alla Bicocca, subito mi chiedono e offrono moltissimo: da fare, scrivere, pensare, questa generosità mi frastorna e mi piace, mi fa un po’ vergognare del mio, supposto, aplomb milanese. Poi vengo a sapere che lui è siciliano e mi incanto ad ascoltare e vivere la sua sicilianità: sono un’innamorata dell’isola, ho comprato a Modica una piccola casa dove vado appena possibile e sto studiando ‘da siciliana’ come dicono i miei amici di laggiù. E siciliano Salvatore lo è totalmente, generosamente, lo è nella figura, nei gesti, nella scrittura, nel dono di sé che può apparire immediato ma che – almeno mi sembra – conserva i tratti della ritrosia della sua gente (e del bambino che ho incontrato all’asilo).

Facciamo tante cose insieme e lui e Maria mi offrono una grande fiducia, credono in ciò che scrivo e pubblico con loro, mi accompagnano a presentazioni convegni e sono le occasioni anche per stare un po’ insieme Ricordo un fine settimana in Veneto, indimenticabile per la quantità di baccalà alla veneta – notoriamente indigesto – che abbiamo mangiato (e nessuno si è sottratto). E poi le cene da amici a Milano e sempre, nelle mie orecchie, la straordinaria risata di Salvatore, i suoi racconti, aneddoti e lo stupore che, al contrario di molti altri, non si ripetesse mai.

Nonostante la poca storia vera che abbiamo in comune, c’è un tratto di lui che vorrei ricordare come quello che più mi ha colpito. La sua acutezza e la rapidità di comprensione. Era una di quelle persone, rare, che sai che capiscono, anche se hai detto poche parole, anche se hai fatto un po’ di confusione: il loro sguardo ti conferma, le parole che fanno seguire completano il tuo pensiero e difficilmente sbagliano. E ti senti bene, capita, con un in più di chiarezza che ti è e sarà utile. Questo mi è successo varie volte con Salvatore e mi ha fatto stare bene con lui.

Eugenio Rossi

Quando oggi ripenso a Salvatore mi vedo seduto all’aperto in un bar di un assolato pomeriggio nel mese di giugno di due anni fa. Fu un incontro magico e come sempre una piacevolissima occasione di scambio di punti di vista e d’idee su aspetti personali e professionali, sugli atteggiamenti che mettevamo in gioco nei rapporti di lavoro, su come affrontavamo momenti importanti di relazione con gli altri.

Anche in quella occasione, ma ogni volta che passavamo del tempo assieme ci ritrovavamo culturalmente vicini e in assonanza di pensiero. Quante volte mi sono rispecchiato nelle sue riflessioni, ma un aspetto del carattere di Salvatore mi ha sempre colpito e affascinato. É un tratto del suo stile di relazione che gli ho sempre invidiato per il clima costruttivo di comunicazione che riusciva in ogni occasione a realizzare.

Il suo dono è che gli veniva naturale ed era talmente capace di accogliere il pensiero degli altri sino a trasformarlo e convertirlo in utilissime riflessioni, approfondimenti, consigli. Sapeva ascoltare e cogliere l’ordine del discorso e dopo averlo immerso nella sua grande esperienza, riusciva a riproporlo in modo nuovo e originale. Così agendo di fatto gestiva i tempi della comunicazione con gli altri interlocutori, li faceva sentire importanti e sviluppava in positivo il significato dei contenuti affrontati.

Spesso la riflessione che proponeva era infarcita di aneddoti divertenti che rendevano ancora più chiare le argomentazioni che intendeva esprimerci. Erano storie personali che ci facevano capire quanto fossimo vicini nelle esperienze e quali accorgimenti aveva posto in essere per affrontarli con successo. Ci insegnava come agire per analogia, senza far sentire in difetto o in errore gli interlocutori. Riusciva con naturalezza a costruire una relazione empatica e simmetrica. Sempre riflettere con lui realizzava un arricchimento personale, ma anche un’esperienza ricca di emozioni che condizionavano e aumentavano il valore degli argomenti affrontati assieme e influiva sulla fruizione degli apprendimenti, sulla memorizzazione.

Voi mi insegnerete che è normale che un pedagogista sappia ascoltare ed accogliere gli altri da sè. Sarà anche vero, ma tra tutti gli educatori che ho conosciuto lui era unico nel farti provare di essere capito e nell’accompagnarti indenne nel cambiamento che ti suggeriva.

All’inizio della nostra conoscenza mi sono chiesto se era un approccio voluto o spontaneo da parte sua. Se era un costrutto tecnico o una vocazione naturale. Con il passare degli anni e una conoscenza più approfondita, ho compreso che era il suo modo personale di affrontare l’incontro con il pensiero altrui, il pensiero differente. Ho capito quanto lui ci tenesse a rispettare i suoi interlocutori, senza mai farsi prendere e trascinare dai pregiudizi e dalle sue convinzioni personali. Ho toccato con mano quanto li ha aiutati a migliorare le convinzioni precedenti. Lui incarnava una vera relazione di aiuto, un “altro significativo” per tutti, anche per me.

Ho provato spesso ad imitarlo nel condurre esperienze di accoglienza, di rispecchiamento, e nel proporre una analoga scansione dei tempi e dei modi della relazione. Ho provato ad accogliere il punto di vista degli altri e a lavorare su questo per valorizzare e migliorare le consapevolezze dei miei interlocutori. Ancora oggi mi chiedo se sono riuscito, nella formazione che propongo, a costruire un clima di comunicazione così coinvolgente e rispettoso del punto di vista degli altri, da indurre la disponibilità a giocarsi, la confidenza. Se ci sono riuscito lo devo anche a lui.

Ho perso un amico che mi ha insegnato molto con il suo esempio, non smetterò mai di ringraziarlo nei miei pensieri.

Grazie Salvatore, ciao

Sergio Tramma

Salvatore Guida era meridionale, e con il libro “Giardino sicano. Bivona come metafora” lo ha esplicitato pienamente, si potrebbe dire, a tutto il mondo date la potenziale fruibilità di qualsiasi narrazione che assuma la forma di uno scritto stampato e pubblicato. Il libro è un insieme di lettere ai nipoti, in realtà è un’unica lunga lettera con qualche pausa tra un episodio e un altro, quasi a prendere fiato dalle fatiche che sempre comporta il tentativo di dare senso attuale e futuro a storie del passato. È una lettera che nasce, è lo stesso Guida a scriverlo, “dall’angoscia della dispersione” e dal tentativo di “far sopravvivere, attraverso voi, attraverso il mio racconto in voi, la mia storia, la mia vita, il mio esistere ed essere come sono perché, prima di me, altri ci sono stati che a me hanno lasciato parte di loro”. È volontà di trasmettere una storia individuale e familiare ai nipoti, affinché possano continuarla ancorandosi a forti e riconosciute radici. Ma è anche una scrittura motivata dall’intenzione di contribuire a costruire una storia sociale da trasmettere alle generazioni successive, anzi alle coorti successive, svincolata la parentela ristretta o allargata che possa essere.

Viene in mente Francesco Guccini, quando nell’apertura del suo ultimo libro (Un matrimonio, un funerale, per non parlare del gatto) scrive che un simile lavoro comprende “istantanee, colme di ironia e appena velate di malinconie, di un tempo andato che non ritornerà”, istantanee che sono l’esplicitazione di ciò che è rimasto impressionato nella “pellicola della memoria” dell’autore, cioè “figure sfuggenti, sornione come gatti, dolci come il ricordo di chi se n’e andato, o forse un po’ beffarde come fantasmi”. Sono quelli di Guccini racconti che, come in Salvatore Guida, costituiscono “un viaggio attraverso il tempo e i registri narrativi, e riportano in vita per noi esistenze minime, destinate a essere dimenticate se non giungesse la parola a rievocarle”.

Il libro di Guida è un libro di memorie intenzionalmente candidate a essere trasmesse, ed è, nello stesso tempo, un libro sulla meridionalità, cioè come recita il vocabolario Treccani on-line, “Caratteristica di ciò che è, o ha l’apparenza di essere, meridionale”, per estensione “Il complesso delle varie componenti (culturali, comportamentali, di mentalità, ecc.) tipiche, ma talora stereotipiche, di chi vive nell’Italia meridionale o ne proviene”. Interessante, sempre nel vocabolario citato la “settentrionalità”: “Caratteristica di ciò che è, o ha l’apparenza di essere, settentrionale”, per estensione “Il complesso delle varie componenti (culturali, comportamentali, di mentalità, ecc.) ritenute tipiche, ma talora stereotipiche, di chi vive o proviene dai paesi settentrionali o dall’Italia del Nord, usato spec. in contrapp. a meridionalità: è luogo comune non sempre fondato che la freddezza sia tipica della settentrionalità. Definizione sintetiche uguali, ma con qualche differenza: la meridionalità parrebbe stare solo nell’Italia meridionale, la settentrionalità in non meglio identificati paesi settentrionali, oltre che nell’Italia del Nord, e poi, quasi a scusarsi (escusatio non petita …?), si sottolinea il luogo comune della freddezza, che non è caratteristica che si possa associare alla settentrionalità.

La meridionalità – ammesso che esista in toto o in qualche intreccio di sfumature – è in realtà un argomento complesso, alle volte diventa un fardello per chi la possiede, e non è un articolo facilmente vendibile e acquistabile. Chi è meridionale, e consapevolmente vuole possedere e manifestarne spontaneamente alcuni tratti, è stato, ed ancora oggi lo è, continuativamente impegnato in una corsa a ostacoli: convincersi e convincere che camorra, mafia, ndrangheta sono nel patrimonio sociale (non solo meridionale), ma non in quello genetico; oppure che, davanti ad alcune culture politiche radicate al Nord, e in tempi di rinascita di separatismi probabili e improbabili, la soluzione non è cadere nell’irredentismo pro Regno delle Due Sicilie, mettendo in discussione l’annessione del meridione da parte della “sabauda marmaglia”, (come viene definita la casa Savoia in una canzone di protesta di fine Ottocento). Emerge dalle parole di Salvatore Guida una meridionalità, nella specifica articolazione della sicilianità, serenamente rivendicata, che va oltre la Sicilia, e si espande sino a diventare una “mediterraneità” maturata negli scambi, non sempre pacifici, che si sono succeduti nel corso di una lunghissima storia tra i popoli che si affacciano sul quel lago salato che è il Mediterraneo. Meridionalità che diventa mediterraneità perché al Sud non sono esistiti e non possono esistere confini e limiti; al Nord forse sì: in fondo, il Vallo di Adriano non è stato forse un modo per dirsi che al Nord bisogna pur mettere un qualche limite?

La meridionalità che emerge dal lavoro (e dai comportamenti) di Salvatore Guida è pacata, ironica, benevola, quasi a costituirsi nodo di un reticolo identitario (quando si potrà tornare a discutere laicamente e pacatamente di identità?) in costante riformulazione e divenire. Si costruisce e si esplicita nell’intreccio del quotidiano minuto e ripetuto, cioè l’essenza dell’esistenza individuale e collettiva. È una meridionalità che si costruisce utilizzando il “giardino utile”, quello del sostentamento, che è anche bello, ma non per chissà quali interventi d’architetti ed esperti (di “poeti laureati” direbbe Eugenio Montale), ma perché è la combinazione delle colture che lo rende bello: non ha bisogno di essere pensato e fatto tale, lo è in sé. È una meridionalità che è fatta di terra, di cibo, di campagna, di relazioni tra persone e cose collocate in territori piccoli e ben delimitato, così come dalla globalizzazione attivata dai movimenti migratori in entrata e in uscita. È fatta di oggetti dell’artigianato o dell’arte dell’arrangiarsi, di leggende, di spiegazioni del mondo, è una meridionalità fatta di orizzonti ampi, che arrivano alla Grecia e ai paesi musulmani, poi fino alle Americhe (Salvatore Guida non ha fatto in tempo a leggere “Storia vera e terribile tra Sicilia e America” di Enrico Deaglio, dove si narra quanto l’italianità, e in particolare, la meridionalità, e in particolare ancora, la sicilianità, sia in sé una condanna). E poi le migrazioni verso l’altra l’Italia: andare al Nord per fuggire dalla fame, per lavoro, per studio, per essere moderni. Ma cosa vuol dire essere migranti meridionali migranti in quegli anni del Novecento ancora temporalmente molto vicini alla fine della guerra, e al contempo, a dispetto di qualsiasi logica temporale, già cosi prossimi alla fine del Millennio? Salvatore Guida si rivolge ai nipoti scrivendo: “Voi non potete sapere cosa vuol dire essere appena arrivati a Milano dalla Sicilia, avere una buona considerazione di sé e sentirsi dire, da uno che hai appena conosciuto, uno dei tuoi nuovi compagni di scuola, che vuole, a modo suo, mostrarti simpatia: «la scuola è uguale dappertutto, certo avrai qualche problema con l’italiano, ma vedi che se ti applicherai ce la puoi fare»”. Davanti a questa frase, scrive Guida, “tu sai”, ed è un sapere a volte nervoso, altre disilluso, altre ancora aristocraticamente distaccato e provocatorio, cioè tu sai invece “che a quindici anni hai letto tanto quanto lui non leggerà mai in tutta la sua vita”, tu sai che “appena avrà scoperto che non sei il selvaggio che lui crede, ti si appiccicherà addosso e non ti mollerà più e ti toccherà passargli le versioni di latino e di greco e fargli anche le tracce dei temi”, tu sai che “comunque dovrai «abbozzare» perché di tipi così è pieno il mondo: ce n’è in abbondanza a Palermo come a Milano” e che la vita di relazione “vuol dire anche turarsi il naso, vuol dire sentire dire che i terroni sono molto ignoranti, vuol dire resistere alla voglia di saltargli al collo, rispondere con un mezzo stentato sorriso all’ultima battuta cretina e, alla fine, ad espressa domanda su come la pensi tu, sfoderare il sorriso più candido e rispondere con la più marcata pronuncia possibile «siciliano sugnu, niente capivu di chiddo che dicisti»”.

Salvatore Guida nasce nel 1946, ha accompagnato ed stato accompagnato dalla “grande trasformazione”, quell’intreccio breve e tumultuoso di cambiamenti interrelati: industrializzazione e post-industrializzazione, consumi, migrazioni, sviluppo, mezzi di comunicazione di massa, che hanno trasformato l’Italia e gli Italiani, quasi antropologicamente, secondo la nota posizione critica di Pasolini. Appartiene a una coorte di passaggio, che ha tenuto faticosamente insieme il premoderno con il cosiddetto postmoderno, e lo ha tenuto insieme di fatto, a prescindere dalla consapevolezza e dal piacere e/o dispiacere di farlo. Salvatore Guida l’ha fatto anche preservando, vivendo e raccontando agli altri la sua siciliana meridionalità appassionata e appassionante.

Manca l’ articolo di Maria Piacente