NON SI SENTE NIENTE!

Qualche dubbio sull’ascolto educativo

L’altro ci si rivela per quello che è, non per ciò che noi ci rappresentiamo, e per questo motivo troviamo così rassicuranti le diagnosi e le catalogazioni, che in realtà bloccano l’ascolto, sono parole che pongono un limite invalicabile alla manifestazione del mondo dell’altro

Raffaele Mantegazza*

Le usate confidenze di malattia e di sesso dove ciascuno ascolta sol se stesso

 Francesco Guccini

“Canzone della vita quotidiana”

 Se fosse possibile stilare una classifica delle parole maggiormente abusate nel dibattito pedagogico, dopo il primo posto inattaccabile di “empatia”, avremmo sicuramente la medaglia d’argento per “ascolto”. Tutti sembrano ascoltare, tutti dicono di ascoltare e a forza di riempire il silenzio con le loro vanterie da provetti ascoltatori finisce che le uniche parole udibili siano le loro. Ascolta il prete dietro la grata preconciliare del confessionale, ascolta il poliziotto che interroga così come l’insegnante che, ahimè, compie una azione definita dallo stesso verbo, ascolta il curioso dietro le tende, ascolta lo psicologo, i professori all’esame ascoltano gli studenti dire che Foucault critica l’esame come ascolto estorto, l’adepto delle discipline orientali ascolta le proprie viscere e lo stesso fa il medico, magari tramite una risonanza magnetica. Ma se tutti ascoltano, chi parla? E come mai, se tutti ascoltano, alla fine non si sente niente?

Forse perché pensiamo che basti ascoltare per indurre l’altro alla parola. Perché il problema è anzitutto questo: lo spazio dell’ascolto è prima di tutto spazio della parola dell’altro, che si dà fuori dall’ascolto e lo definisce e soprattutto fa sì che non sia solo una finzione (come i temi assegnati ai ragazzi: “racconta una bugia che hai detto ai tuoi genitori”; “sì, certo, la vengo a raccontare a te!”). L’ascolto educativo non nasce dal nulla o da una imposizione istituzionale (come ben sa chi ha provato ad aprire servizi – soprattutto telefonici – rimasti poi deserti) ma da una parola, un gesto, una movenza dell’altro che vengono intercettati come se fossero rivolti a noi. Non ascoltiamo l’altro per causare la sua loquacità, ma al contrario lo ascoltiamo perché ha parlato, ha sbadigliato, è rabbrividito. Anche se non si è rivolto a noi. Soprattutto se non si è rivolto a noi. “Ma chi parlava con te?”; questo forse è un buon inizio per un percorso di ascolto.

L’ascolto è una conseguenza, un dopo. Israele ascolta YHWH perché YHWH ha parlato, non ha la presunzione di causare la parola di YHWH  solo perché il popolo si è messo in ascolto.
Il YHWH pedagogo chiede ascolto; ma la sua legittimazione, ciò che spinge il popolo ad ascoltarlo veramente, è l’a- zione che ha messo in moto per salvare il suo popolo. Nemmeno YHWH può chiedere un ascolto del tutto gratuito; anch’Egli ha ascoltato la sofferenza del suo popolo quando ancora non si rivolgeva a Lui, perché non aveva ancora quel Dio. YHWH ha scelto di farsi i fatti del popolo, di intervenire anche se non richiesto; la relazione di ascolto non nasce da una richiesta di aiuto esplicita e ad personam (in Egitto YHWH non era il Dio di Israele) ma dall’intercettazione di un bisogno. Chiedere a un adolescente di parlare è ovviamente inutile; chiedergli di ascoltarci può essere frustrante per noi e soprattutto per lui; restituirgli un ascolto su quanto ha già detto (e, lo ripetiamo, non a noi) è un inizio di una possibile relazione educativa.

E del resto, in principio non è nemmeno il logos; in principio è l’eros. Quando ascoltiamo la parola siamo già a un secondo livello: il lapsus, il lamento, il grido, il silenzio, il brivido, il riso, il pianto sono gli elementi primari, con tutta la forza della loro espressività ma anche il dubbio sulla loro ambivalenza. L’en- fasi sui linguaggi emotivi e non verbali spesso ignora che per saperli trattare occorrono enormi competenza e prudenza. Prima della richiesta razionale di aiuto c’è il desiderio o la sofferenza, caratterizzati entrambi dalla mancanza di limiti, dalla impossibilità di un giudizio, dalla necessità di accoglienza. Intercettare il desiderio e la sofferenza, e quel misto tra i due che rende ancora più complesse le questioni umane, è il vero inizio dell’ascolto. Ovviamente il percorso che parte dalla pancia e dal cuore deve essere condotto alla ragione; ma il pensiero è sempre figlio del desiderio e del dolore e l’ascolto delle dimensioni non verbali è difficile, arduo e richiede una altissima professionalità.

“Non si sente niente” cantano i tifosi quando i cori degli avversari sono troppo fiacchi; “non si sente niente” dice il passante con il telefono incollato all’orecchio o lo studente che ha perso la connessione nella didattica on line (nemmeno sotto tortura la chiamerò mai DAD). A volte è vero che non si sente niente perché l’ascolto par- te da dimensioni non udibili; non solo per- ché esso non ha a che fare solamente con l’udito ma perché la limitatezza costituti- va dell’essere umano ci impedisce l’ascolto totale (e totalizzante e magari totalitario); come non sentiamo gli ultrasuoni e non vediamo l’infrarosso, così non ascoltiamo mai del tutto l’altro essere umano (o vivente).

Watzlawick parla dell’impossibilità di non comunicare e interpreta il silenzio come forma di comunicazione; nulla da dire per quanto riguarda la teoria della comunicazione, ma l’approccio educativo deve andare al di là degli aspetti comunicativi. Il silenzio può essere un buco nero, un baratro all’interno del quale ogni comunicazione naufraga; il silenzio può essere un segno del nulla, l’assenza di senso, e interpretarlo solo come comunicazione (“se non comunichi stai comunicando che non vuoi comunica- re”) rischia di creare un elegante gioco verbale e di baloccarsi con i paradossi ma di non risolvere la questione. Il para- dosso non è solo un bel gioco dialettico, è una sofferenza esistenziale. Pensare al silenzio come forma di comunicazione (il che rende attuale l’ipocrita frase popolare “chi tace acconsente”) significa depotenziarlo e addomesticarlo perdendone di vista la tragicità; è la critica che Lakatos (anche se per molti versi ingenerosa) rivolgeva alla psicoanalisi, quando questa interpreta ogni forma di silenzio come resistenza all’analisi stessa. Il silenzio non va aggirato nel suo potenziale annichilente: quanto il silenzio comunica, e quanto invece è scacco della comunicazione? Quanto dobbiamo ascoltare e quanto rispettare l’impossibilità di comunicare? Quanto l’ascolto va inevitabilmente incontro allo scacco, alla disperazione, all’abbandono?

Non tutto infatti è comunicazione perché non tutto è comunicabile; ascoltare l’altro significa entrare in un orizzonte di mistero, mettere in campo un vero e proprio atto di fede nella soggettività dell’altro. Il dolore dell’altro non si coglie attraverso un’analogia con il mio dolore (lui sta male quanto stavo male io/di più/di meno) ma con un vero balzo a fondo perduto nel mistero. Rimanere in se stessi garantendo accoglienza ed equilibrio e al contempo affondare nel dolore dell’altro è la specificità dell’ascolto. Con tutti il rischio di perdita dell’equilibrio, di burn-out, di eccessivo coinvolgimento. “Bisogna non farsi coinvolgere dall’educando” è una di quella frasi-killer che oltretutto provocano sensi di colpa (“ma allora se mi lascio coinvolgere significa che non vado bene?”). Semmai occorre capire cosa fare dell’inevitabile coinvolgimento emotivo, il che è tutta un’altra questione. Ascoltare è un atto di potere. Lo abbiamo detto tutti sulla scia dell’invadente e onnipresente Foucault, e forse lo abbiamo capito e non è il caso di continuare a ripeterlo. Perché il senso di colpa rispetto alla connessione tra ascolto e potere, il percepirci solo come agenti di un dominio nascosto rischia di farci buttare via tutto. L’ascolto non è solo potere anzi a volte è rinunciare al potere. “Digli pure che il potere io l’ho scagliato dalle mani”: rinunciare al potere significa mettersi in ascolto dell’altro e poi, sicuramente, provare a coinvolgerlo in una relazione che è an- che di potere. Ma l’ascolto dell’altro è prima di tutto stupore e spiazzamento. L’altro ci si rivela per quello che è, non per ciò che noi ci rappresentiamo, e per questo motivo troviamo così rassicuranti le diagnosi e le catalogazioni, che in realtà bloccano l’ascolto, sono parole che pongono un limite invalicabile alla manifestazione del mondo dell’altro. Definizioni come “omosessuale”, “migrante”, diagnosi come “dislessico”, “discalculico”, acronimi come Bes, Dsa fotografano una delle tante dimensioni dell’essere umano che abbiamo davanti e ne ignorano altre, anzi letteralmente le seppelliscono sotto il peso di una parola-gettone, di una parola-passepartout. Non si ascolta più l’altro perché la definizione ci ha dato la chiave per accedere a tutta la sua vita, riassunta in poche lettere; abbiamo preso una parte del suo essere e l’abbiamo resa la chiave di volta per catalogarlo. “Prof, io sono un Dsa”: qualcuno mai chiederà perdo- no per avere portato un adolescente a definirsi cosi? Ovviamente l’altro è altro proprio perché abita a modo suo le con- dizioni esistenziali che le definizioni e le diagnosi vorrebbero cristallizzare. E l’ascolto non può ignorare questo rischio: un conto è il dato sull’altro che anche le prove oggettive e diagnostiche possono fornirci, un conto è la lettura ermeneutica che l’altro compie a proposito del dato, e che è il vero ambito di lavoro pedagogico. Più che ascoltare l’altro, ascoltiamo come l’altro si ascolta, vediamo come l’altro si vede, interpretiamo come l’altro si interpreta.

In realtà però occorre capire che l’ascolto pedagogico è solo una parte di un atteggiamento umano che viene messo in campo quando ci si prende cura del vivente; l’uomo e la donna trasformano in parola i lamenti della natura, come una lunga tradizione ha sottolineato, da S. Paolo a Rilke. Il superamento dell’antropocentrismo è il fondamento filosofico e culturale della possibilità di un ascolto che aiuta a crescere gli altri esseri umani. La parola, infatti, oltre ad essere la specificità dell’essere umano, è prima di tutto responsabilità, ovvero letteralmente capacità di rispondere a un appello, che anche in questo caso non è detto sia rivolto direttamente all’ascoltatore. Sembra una provocazione proporre l’ascolto del non-umano come fondamento dell’ascolto pedagogico, ma non lo è: significa dare fondamenti ecologici ed ecosistemici ad ogni rapporto tra esseri viventi, ricordando che il rapporto tra umano e umano è una delle tipologie delle relazioni che intercorrono tra le diverse forme del vivente. Ascoltare gli oceani e i gatti per poter ascoltare gli umani? Perché no? In fin dei conti, siamo certi che i cani, le farfalle e le montagne non lo stiano già facendo da millenni?

 

*Professore associato di Pedagogia presso la facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Milano Bicocca.

Ha creato da qualche anno un progetto di studio denominato “pedagogia della resistenza”