Dalla persona allo spazio che cura: il transito della narrazione

Per favorire la transizione attraverso l’esperienza della malattia, non è sufficiente formare o sviluppare le competenze per accogliere e raccogliere la storia di chi soffre; è necessario lavorare sulla postura narrativa e narratoriale dell’operatore, che non si limita al ruolo di testimone, ma contribuisce a costruire e continuare la stessa storia.

Christian De Lorenzo*

Nel terzo capitolo di Medicina narrativa, Rita Charon racconta i cinque aspetti narrativi della medicina: temporalità, singolarità, causalità, intersoggettività, eticità. Nel paragrafo dedicato alla singolarità, si legge questa storia:

Mio sgradevole e scortese amico, che stai sempre a provocare. “Per essere piccola, fai un sacco di rumo- re”, dici. Mi interrompi con le tue domande, mi correggi quando parlo con i tuoi compagni di stanza, così tanti in sessantanove giorni di prigionia. Lo sappiamo entrambi che sei tu il mio preferito. Mi piace passare un po’ di tempo con te alla fine della giornata, senza cartella né penna. Mi porti sui campi di battaglia della Seconda guerra mondiale, sul tavolo della cucina dove parlavi di baseball con i tuoi fratelli. Voliamo insieme all’indietro nel tempo, lasciandoci alle spalle la tua stanza buia. Sai trasformare questo ambiente per magia. Mi lasci entrare in te, nel tuo passato, nel tuo punto di vista. Mi fai un regalo, Pete. Nessuna statistica potrà mai capirlo.1

Questo breve testo è stato scritto da una non meglio identificata «professionista» nel quadro del seminario di Oncologia narrativa, che ha avuto luogo per tre anni, due volte al mese, presso il New-York Presbyterian Medical Center. Si tratta dell’ospedale collegato a Columbia University, l’università dove attualmente – a tredici anni dall’uscita di Narrative Medicine in inglese e a qualche mese da quella della traduzione italiana – Rita Charon dirige il programma in Medicina narrativa. Ho voluto proporre questa singolare, per l’appunto, «cartella parallela»2 nel secondo Atelier che abbiamo dedicato a tale genere di scrittura presso il Centre Hospitalier Intercommunal de Créteil, alle porte di Parigi, dove mi occupo, in qualità di «consulente letterario», della formazione alla Medicina narrativa.3 Ovviamente lo abbiamo letto insieme ad alta voce nella traduzione francese; ma quello che ho imparato, vale anche per la nostra lingua.

Premetto che, nel giugno del 2019, alla vigilia della pausa estiva, avevo presentato esempi più «classici» di cartelle parallele, sempre tratti dalla «Bibbia» di Rita Charon, dove la narrazione si svolgeva retrospettivamente alla prima persona, in una maniera molto simile a quella dell’aneddoto autobiografico. In quell’occasione, dopo l’analisi del testo in gruppo, avevo chiesto ai partecipanti di scrivere lì, durante l’Atelier, la loro prima cartella parallela, e di condividerla.

Per la ripresa settembrina degli Atelier al Centre Hospitalier Intercommunal de Créteil, quando ho invitato gli operatori a presentarsi, dall’appuntamento successivo, con le loro personali cartelle parallele, ci ho tenuto a mostrare che le scelte «formali» potevano essere ampie e libere, sciolte dai vincoli della cartella clinica, dalle gabbie di quella che Elliot George Mishler4 ha definito «la voce della medicina». È piuttosto dalla «voce del mondo della vita», secondo la definizione tratta anche dalla fenomenologia husserliana, che una cartella parallela trae la propria forza.

Nella mia idea, il testo sopraccitato mostrava che si poteva, per esempio, optare per una scrittura tra prima e seconda persona, come in una lettera. Altre due cartelle parallele suggerivano, addirittura, la possibilità di sconfinare nella lirica.5

Il tema della libertà espressiva può puntare l’attenzione, per contrasto, sull’espressione con cui si conclude il terzo periodo della storia riportata da Rita Charon: «Sessantanove giorni di prigionia». Prigionia per chi? Per chi cura o per chi è curato? Forse, per chi cura e per chi è curato. L’apertura del testo, che simboleggia l’apertura dell’operazione testuale in sé, permette di seguire, al contempo, entrambe le ipotesi interpretative.

Una cosa è certa: i racconti di vita del paziente consentono non solo all’anonima «professionista» di sottrarsi alla «prigionia», lasciandosi alle spalle la stanza buia, con un volo all’indietro sui campi di battaglia della Seconda guerra mondiale e anche su quelli, più giocosi e meno sanguinari, ma altrettanto epici, da baseball L’«ambiente» si trasforma «per magia»: è un vero e proprio «regalo», che genera una forma di riconoscenza.

Alla fine, si riesce a intendere il desiderio nel testo di un biglietto di ringraziamento, anche se l’inizio è all’insegna di tutt’altro sentimento: una sorta di doppia «provocazione», quella di chi cura e scrive, che fa da specchio a quella di chi è curato e parla. Provocazione di cui si chiarisce il portato affettivo, e affettuoso, proprio dopo il termine «prigionia»: «Lo sappiamo entrambi che sei tu il mio preferito».

Da sistema disciplinato come la statistica con le sue griglie – e disciplinare –, l’ospedale, nel racconto, si fa altro e altrove. Questo transito, anche spaziale, è reso possibile attraverso e dentro la relazione, laddove questo termine indica non soltanto il legame, il vincolo, che si può costruire tra chi cura e chi è curato, ma anche l’attività, da un punto di vista etimologico, con cui si «riferisce» una storia, si «stende un rapporto» e dunque, più estensivamente, si narra.

Sempre per contrasto, mi tornano in mente i gesti, le immagini e le parole che un’operatrice ha utilizzato, nel con- testo degli Atelier di Medicina narrativa del Centre Hospitalier Intercommunal de Créteil, per definire una sensazione provata durante la stesura della cartella clinica nel suo reparto. Ha alzato la mano destra, ha messo le dita a uncino accanto alla guancia, all’altezza dell’occhio, e ha cominciato a scuoterla velocemente, dicendo qualcosa del genere: «Quando scrivo nella cartella clinica, ho l’impressione che il magistrato mi osservi e mi controlli, da dietro le spalle». Una situazione che Rita Charon, nel capitolo dedicato alla triade pratica della Medicina narrativa (attenzione, rappresentazione, connessione), racconta fuor di metafora:

In ospedale, le cartelle cliniche possono capitare tra le mani di molte persone, che includono avvocati, amministratori, ricercatori, assicuratori o impiegati. Perciò, tristemente, stanno perdendo il valore di strumenti di riflessione, e sono sempre meno utili dal punto di vista clinico. Non vi si raccontano più conflitti e incertezze, per paura che tali rivelazioni abbiano conseguenze legali.6

Sappiamo da Michel Foucault quanto tale «regime disciplinare» abbia cominciato a radicarsi, fin dal Settecento, nella nostra cultura. Alla fine del capitolo dedicato al panoptismo, il filosofo francese va oltre, equiparando, con una domanda allo stesso tempo retorica e provocatoria, vari luoghi, ormai diventati di sorveglianza e punizione: «Se la prigione assomiglia agli ospedali, alle fabbriche, alle scuole, alle caserme come può meravigliare che tutte queste assomiglino alla prigioni?»7

Del resto, oggi, come fa notare Micaela Castiglioni, «transitare nel transito della malattia può essere paradossalmente ostacolato proprio dall’organizzazione stessa laddove non sia in grado di prendersi cura prima di tutto dei pazienti e dei loro famigliari, ma anche dei propri operatori, nei diversi ruoli ricoperti, nonché di se stessa».8

Come facilitare, perciò, il transito delle storie in ospedale, affinché tale transito non diventi una transumanza, con una riduzione dell’umano al bestiale, ma abbia luogo un vero e proprio processo di transizione, per chi cura e chi è curato, e anche per l’istituzione? Come decostruire la «prigionia»?

Le pratiche narrative sono una delle strade e delle risposte, è noto. Come suggerisce Guy Allen, rifacendosi al celebre saggio di Winnicott9, le «personal narratives» si configurano quali «“tran- sitional phenomena” – things that mediate the potential space between inner and outer, things which operate in “the third area” between self and other”»10. Ecco perché, per favorire la transizione attraverso l’esperienza della malattia, non è sufficiente formare o sviluppare le competenze per accogliere e raccogliere la storia di chi soffre; è necessario lavorare sulla postura narrativa e narratoriale dell’operatore, che non si limita al ruolo di testimone, ma contribuisce, come sappiamo, a costruire e continuare la stessa storia.

Un esempio letterario può giungere in soccorso. Nell’immaginario popolare, il braccio destro di Sherlock Holmes viene spesso liquidato con un: «Elementare, Watson!». In realtà, nei quattro romanzi e cinquantasei racconti dedicati alla coppia investigativa, l’espressione non viene mai pronunciata in questa forma, ed è comunque raro che Sherlock dica «elementare».

Watson, nella resa letteraria, funziona piuttosto alla stregua di un raffinato doppio dell’autore: dottore come Arthur Conan Doyle (chirurgo militare l’uno, medico di bordo l’altro), prende parte alle imprese di Holmes e le racconta. È quello che Genette11 definisce un narratore omodiegetico/extradiegetico. Una figura che, allo stesso tempo, ha un ruolo di attore e testimone, e che combina, per dirla alla Charon, le virtù dell’attenzione e della rappresentazione, sviluppando una profonda connessione con il protagonista.

Ora, è proprio questa la duplice posizione narratoriale di chi cura; ed è questa la duplice posizione, di transito e transizione, che la scrittura narrativa permette di esercitare, oltre che di sperimentare, al di là e al di qua dell’inevitabile portato tecnico di un gesto che voglia dirsi, ma soprattutto farsi terapeutico.

Del resto, se ci volgiamo alla storia della medicina, non stiamo parlando di una novità assoluta. Basti pensare, ben prima del sistema disciplinare che Foucault ri-costruisce – e ben prima del paradigma oggettivante di una medicina che ha rinunciato al proprio statuto di «arte» – a pratiche della narrazione pedagogiche e riflessive come quelle delle observationes12 rinascimentali, dove i medici raccontavano, al di fuori dei trattati di teoria, i casi singolari a cui assistevano e in cui agiva- no, senza rinunciare all’operazione della prima persona: la loro. Una tradizione che ha radici profonde e che risale fino a Galeno, se non addirittura a Ippocrate, come suggerisce l’antologia di storie tratte dai libri del medico di Pergamo e curata, oltre che commentata, dal medico francese Symphorien Champier nel 1532, sotto il titolo di Claudii Galeni Perga- meni Historiales Campi.

Non intendo dire che tra la pratica odierna della cartella parallela e la nascita cinquecentesca dell’osservazione medica o l’eredità della scrittura galenica ci sia una connessione diretta, come se, con la Medicina narrativa, altro non si facesse che recuperare un passato distrutto dalla disciplinarizzazione dei luoghi di cura e dalla tecnicizzazione dei saperi. No, non si tratta di un ripiegamento nostalgico su un’età dell’oro di cui si tenta di recuperare lo splendore.

Intendo piuttosto sottolineare il valore anche storico della singolarità di chi cura, declinata esplicitamente, nel testo, alla prima persona, in un’indagine che la Medicina narrativa, oggi, consente nel senso di una transizione. Come sarebbe possibile, d’altronde, favorire il transito nella malattia dell’altro senza attraversa- re le proprie narrazioni, anche nei termini di competenze professionali?

Ma non solo. Il racconto della soggettività curante, se condotto in maniera sistematica e in ottica di sistema, con tempi di riflessione e spazi di formazione ricavati all’interno delle strutture

– istituzionalizzati, dunque –, può condurre, insieme con gli operatori, anche gli ospedali a transitare oltre il regime disciplinare per diventare narrativi.13

Dice sempre Guy Allen: «The story operates not only in the transitional space between writer and reader but also in the transitional space between cultures».14

Una narrazione come quella della cartella parallela si configura dunque anche come un atto culturale, o quantomeno di cultura sanitaria, forse addirittura politico, che arriva a includere e integrare il racconto della sofferenza con la relazione terapeutica, nel riconoscimento di uno spazio comune, all’interno e all’intorno. Oggetto di transito e di transizione, permette di istituire il passaggio poroso e continuo tra le tre dimensioni della persona curata, di quelle curanti e del luogo che le accoglie, contribuendo alla costruzione di una intersoggettività reale, sotto l’egida della relazione.

 

*Consulente letterario e responsabile del progetto di medicina narrativa presso il Center Hospitalier Intercommunal Decréteil, insegna medicina narrativa nei corsi di etica della facoltà di medicina presso l’Université Paris-Est Créteil. Ha curato varie antologie per Einaudi, per cui è stato anche editor.

 

 Note:

1 Rita Charon, Medicina narrativa, Raffaello Cortina, Milano 2019, p. 61.

2 Per chi non conoscesse la «cartella parallela», questo vero e proprio «genere» di scrittura clinica inventato da Rita Charon nel 1993 «per incoraggiare i professionisti sanitari e gli studenti a raccontare, in linguaggio ordinario, le esperienze che vivono con i pazienti» (Rita Charon, cit., n. 21, p. 251), rinvio al capitolo 8 (Ibid., pp. 167-185).

3 La prima stagione formativa è cominciata a gennaio 2019. Cinquanta operatori, tra partecipanti e co-conduttori, sono stati suddivisi in cinque piccoli gruppi, che si sono incontrati una volta al mese, per due ore, lavorando insieme sulle competenze narrative.

4 Elliot George Mishler, The Discourse of Dialectics of Medical Interviews, Ablex Press, Norwood 1984.

5 Vedi Rita Charon, cit., pp. 64-65 e 170.

6 Ibid., p. 161.

7 Michel Foucault, Sorvegliare e Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976, p. 247.

8 Micaela Castiglioni, «Transiti nella malattia e nei luoghi di cura», it, 23, 1, 2019, p. 43.

9 Donald W. Winnicott, Oggetti transizionali e fenomeni transizionali (1951), in Dalla pediatria alla psicoanalisi. Patologia e normalità nel bambino. Un approccio innovatore, Mar- tinelli, Firenze 1991, 275-290.

10 Guy Allen, «The “Good Enough” Teacher and the Authentic Student», in Jon Mills (a cura di), A Pedagogy of Becoming, Editions Rodopi, Amsterdam-New York 2002, 155.

11 Gérard Genette, Figure Discorso del racconto (1972), Einaudi, Torino 1986.

12 Vedi Gianna Pomata, «Sharing Cases: the Observationes in Early Modern Medi- cine», Early Science and Medicine, 15, 3, 2010, pp. 193-236, e «Observation Rising: Birth of an Epistemic Genre, ca. 1500-1650», in Lorraine Daston e Elizabeth Lunbeck (a cura di), Histories of Scientific Observation, University of Chicago Press, Chicago 2011, pp. 45-80.

13 In proposito, per favorire la creazione, lo scambio e la comunicazione di buone pratiche narrative all’interno delle istituzioni di cura, segnalo la nascita del Narrative Hospitals Network (NHN), i cui membri fondatori sono Nuovo Ospedale di Biella (Vincenzo Alastra), Centre Hospitalier Intercommunal de Créteil (Je- an-Marc Baleyte e Christian Delorenzo), Università Milano-Bicocca (Micaela Castiglioni), Université Paris-Est Créteil (Roberto Poma).

14 Guy Allen, cit., p. 159.

Bibliografia

Allen, Guy, «The “Good Enough” Teacher and the Authentic Student», in Jon Mills (a cura di), A Pedagogy of Becoming, Editions Rodopi, Amsterdam-New York 2002, p. 155.

Castiglioni, Micaela, «Transiti nella malattia e nei luoghi di cura», Pedagogika.it, 23, 1, 2019, pp. 43-44.

Charon, Rita, Medicina narrativa, Raffaello Cortina, Milano 2019.

Foucault, Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), Einaudi, Torino 1976.

Genette, Gérard, Figure III. Discorso del racconto (1972), Einaudi, Torino 1986. Mishler, Elliot George, The Discourse of Medicine. Dialectics of Medical Interviews,

Ablex Press, Norwood 1984.

Pomata, Gianna, «Observation Rising: Birth of an Epistemic Genre, ca. 1500- 1650», in Lorraine Daston e Elizabeth Lunbeck (a cura di), Histories of Scientific Observation, University of Chicago Press, Chicago 2011, pp. 45-80.

Pomata, Gianna, «Sharing Cases: the Observationes in Early Modern Me- dicine», Early Science and Medicine, 15, 3, 2010, pp. 193-236.

Winnicott, Donald W., Oggetti transizionali e fenomeni transizionali (1951), in Dalla pediatria alla psicoanalisi. Patologia e normalità nel bambino. Un approccio innovatore, Martinelli, Firenze 1991, pp. 275-290.