Sillabario pedagogiko – Tradursi

di Francesco Cappa

Goffredo Parise, descrivendo la necessità che lo aveva spinto a stendere i suoi Sillabari, ha detto: “Gli uomini d’oggi hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie”. Ogni pedagogia è intrisa di ideologia, ma nasce sempre da un sentimento, non sempre benevolo, che riguarda i rapporti con noi stessi e con l’altro, compresi alla luce del tempo in cui viviamo.

Questa rubrica si propone di mettere al lavoro uno sguardo sulle cose che ci circondano, siano queste parole, immagini, incontri, eventi. Un’attenzione per quelle tracce che rivelano il pedagogico nel quotidiano, non dimenticando che l’osservazione – inizio di ogni educazione – è il miglior antidoto per le illusioni del sentimentalismo. Solo così i dettagli che stavano, forse, per sfuggirci possono diventare dei segnali.

Mattia Toaldo, ricercatore del pro- gramma Medio Oriente e Nordafrica dell’European council for foreign relations di Londra, iniziava un suo articolo su Refugees Deeply con questa frase: “Nel momento in cui l’immigrazione viene vista quasi come una crisi esistenziale per l’Unione europea, è facile dimentica- re che Bruxelles ha sviluppato una politica comune al riguardo solo negli ultimi due anni”. L’articolo è stato pubblicato all’inizio di Luglio del 2017.

Già alla prima lettura di questa frase di Toaldo, ciò che più aveva colpito la mia immaginazione era la figura antropomorfizzata dell’Unione europea colpita da una “crisi esistenziale” di fronte al fenomeno dell’immigrazione. Di fronte all’insistente presenza, inquietante e affascinante dell’immigrazione, anch’essa probabilmente e fulmineamente trasformata nella mia mente in una delle tante immagini di uomini e donne persi dentro una avventura quasi sempre tragica e mortificante.

Quasi immediatamente quest’immagine ne ha richiamata un’altra: l’Unione europea era Jeremy Irons ne Il danno, film di Louis Malle del 1992 con un’indimenticabile e giovane Juliette Binoche, tratto dal romanzo di Josephine Hart. Irons nel film è come preso in un incanto che lo rende stordito da una passione travolgente che non sente ragioni, a volte freddo e perfido calcolatore nelle sue sottili macchinazioni per vivere e ‘morire’ in una torrida storia d’amore con la compagna di suo figlio. Lo stordimento del protagonista del romanzo, interpretato da Irons col quel suo fare allo stesso tempo tenebroso, cool e blasé mi ha sempre fatto pensare ad un nucleo di incomprensione, di difficoltà di capire qualcosa che contemporaneamente proveniva dall’interno della storia di un incontro e dalla sua esteriorità violenta, poderosa e minacciosa. Forse per questo questa associazione è sorta così immediata in me, forse svela ciò che da molti anni penso rispetto alla sorprendente impreparazione dell’Europa a incontrare un fenomeno epocale che lo stesso Spirito eurocentrico ha preparato da moltissimo tempo. Come una passione di conquista inconfessabile perché sotto gli occhi del mondo intero.

Non eravamo e non siamo preparati alla natura di questo incontro con l’immigrazione?

Non siamo e non riusciamo ad essere preparati, educati, formati all’incontro con altre culture e, in modo ancora più specifico e speciale, con le culture dell’immigrazione?

Già molti anni fa Martha Nussbaum diceva che il concetto di “scontro di ci- viltà” sostenuto da Huntington è sbagliato perché gli stessi sentimenti di tolleranza e intolleranza si possono ritrovare tanto nella civiltà occidentale, quanto in quella orientale, compreso l’islam: non sono le civiltà ad essere intolleranti, ma le

persone all’interno di esse che sono tolleranti o intolleranti. Ed è con esse, io credo, che dovremmo fare i conti: sono queste persone che dovremmo educare e formare a leggere, interpretare, co- municare e narrare in ben altri modi i fenomeni che non vanno reificati in categorie. Come sostiene da molti anni Marco Aime, dovremmo essere molto più interessanti non ad incontrare “conflitti che sono sempre più etnicizzati”, ma dovremmo sforzarci di incontrare – an- che nei momenti di maggiore tensione

– individui che portano con sé un modo di leggere il mondo e non sono affatto portatori di culture in astratto.

Oggi siamo immersi in flussi di persone, di idee e merci che si muovono in modi sempre più veloci; viviamo spesso in contesti svincolati dai territori e le

opzioni possibili di appartenenza sono sempre più numerose. Come ha scritto Hannerz ne La complessità culturale, oggi il modo in cui la differenza culturale si organizza intorno a noi somiglia molto ad un mosaico globale di unità circoscritte, ma quando gli individui circolano con il carico ingombrante dei propri significati e soprattutto quando i significati, grazie alla nuova velocità impressa dai sistemi e dai mezzi di comunicazione globali iniziano a muoversi – e molto veloce- mente – anche senza il ‘supporto fisico’ delle persone, i territori non possono più essere gli unici contenitori delle culture. Nonostante il passato, come il presente, sia stato attraversato da una miriade di soggetti in movimento, continuiamo a pensare a una stretta, e in parte ormai anacronistica, analogia tra cultura, popolo e territorio.

C’è invece, a mio parere, un’altra analogia che dovrebbe impegnare i nostri sforzi di creare una disponibilità differente e una formazione

conseguente capaci di affrontare il volto di un fenomeno “esistenzialmente critico” come l’immigrazione. Io credo ci sia una profonda e fertile analogia tra l’esperienza pratica del tradurre e l’esperienza formativa. Provo a spiegare in che termini.

Tanto per cominciare si tratta di rinunciare al sogno di una traduzione perfetta, in cui il sapere non viene tocca- to, in cui si fa il sogno di tradurre perfettamente il messaggio iniziale in un’altra lingua. Quante volte nella letteratura, nei testi, il refrain è “Parliamo lingue di- verse”, come tra genitori e figli. Allora si tratta di prendersi la responsabilità di questa traduzione, di dare corpo a questa traduzione, e quindi di assumere come un compito la sua infedeltà. Nella traduzione emerge il problema della fedeltà e del tradimento. Ma sappiamo che ogni traduzione è già una ritraduzione. Nel passaggio dall’orale allo scritto, diceva Platone, la questione è che lo scritto non dà la versione di ciò che si pensa, ma semplicemente fornisce una forma di stabilizzazione del pensiero. Nella traduzione allora possiamo vede- re i modi in cui ci formiamo e deformiamo le possibilità della nostra lingua nel momento in cui incontriamo lo stranie- ro, nel momento in cui iniziamo a dare un volto alla natura differente del suo leggere la realtà e il mondo, compreso il mio mondo.

La traduzione, se per esempio pensiamo a quella dei testi, è vicina all’ordine della testimonianza perché per tradurre bisogna avere fiducia in qualcosa, fiducia nel testo di partenza, fiducia nel lettore futuro, che in qualche modo deve abbeverarsi a questa traduzione. Dice- va Walter Benjamin che senza traduzione non c’è sopravvivenza. Se i testi sacri non fossero stati tra-

dotti e quindi desacralizzati non sarebbe sopravvissuto quasi nulla della cultura, di certo non solo occidentale.

Cosa può significare, dunque, pensare il rapporto tra formazione e traduzione? Cosa può significare l’espressione “traduzione formativa”?

La traduzione formativa è una figura dell’incontro. È la figura dell’incontro con lo straniero, con l’altro che non capisce la mia lingua, con chi deve imparare quello che io so. E ogni traduzione non può che generare un sapere aperto, perché ogni traduzione costruisce una variazione, ricerca il significato, non parte da un significato già istituito. È in questo senso che si rafforza l’analogia tra traduzione e formazione: perché la traduzione è squisitamente una mediazione etico-pratica. Chi forma è un mediatore e il suo operare non può che passare attraverso questa mediazione, come sosteneva molti anni fa Andrea Canevare nel suo testo intitolato Pietre che affiorano, in cui tematizzava proprio il significato e la funzione cruciale dei mediatori nei processi educativi come dispositivi per contrastare le logiche di dominio che si annidano dentro le re- lazioni.

La traduzione e la formazione di ciò che sta al cuore della trasmissione, non solo di sapere, è consentita da questo tradimento del testo iniziale, dalla trasformazione mediata del sapere di par- tenza e di ciò che io credo di sapere. In questo senso un buon processo formativo dovrebbe sempre concorrere alla co-costruzione di un sapere che nasce dall’esperienza dell’incontro.

Solo se io sono disposto, come avviene nella traduzione, a scoprire mentre traduco qualcosa che non conoscevo anche della mia lingua di provenienza, se sono

capace di tollerare l’estraneo che c’è nel mio sapere, quindi capace di abitare un modo differente di relazionarmi con ciò che credo di sapere, può passare qual- cosa nella formazione, perché lì si crea lo spazio per l’altro, lo spazio dell’ospite, come scriveva Paul Ricœur.

La formazione come traduzione è efficace solo se il lavoro del lutto e il lavoro del ricordo incontrano l’effettività e la materialità dell’esperienza che l’altro è fuori dai modi in cui cerco di reificarlo, di non riconoscerlo. Se il lutto, la me- moria e la realtà effettiva dell’altro non vengono separati forse allora può esserci lo spazio per formarsi e per tradursi, l’u- no nell’altro, gli uni negli altri. Cerchiamo di imparare forsennatamente nuove procedure, nuovi modi di comprendere l’esperienza, ma non tanto facendo conto di tutto quello che abbiamo alle spalle, di quello che ha significato in termini di valore umano quel sapere che portiamo e che incontriamo in chi viene.

Se si è disposti a vedere ciò che ancora non si è visto nel proprio sapere, ossia se si è disposti a consentire la traduzione, a mettere cioè in luce la latenza di quello che noi sappiamo, le risorse ancora inoperanti nel nostro modo di fare che solo l’incontro con l’altro per cui devo tra- durre mobilita, allora può darsi un in- contro davvero formativo. Perché è solo il desiderio di tradurre che può rendere operante ciò che è latente o dorme dentro il nostro sapere. Il desiderio di tradurlo può trasformare il nostro sapere e ampliare le nostre capacità formative; può permetterci di accettare quel sape- re anche se cambiato e può permetterci di riconoscerci in quello che l’altro ci porta come un suo oggetto d’amore diverso dal nostro: per- ché cosa dovrebbe essere la cultura di ognuno se non un oggetto d’amore che prima crediamo già di possedere e che dopo dobbiamo imparare a riconquistare?

Se si è disposti a tutto ciò, allora io credo che il nostro compito di educatori, di formatori, di mediatori sia assicurarci che gli effetti di queste traduzioni siano degli effetti visibili dentro le nostre professioni, dando vita a nuove figure, anche figure professionali, che non possono che passare da un’etica della traduzione formativa. Julia Kristeva, in un saggio intitolato “L’altra lingua o tradurre il sensibile”, ha scritto che ogni straniero è essenzialmente un traduttore. Sono pronto a scommettere che sempre di più questo vale, soprattutto oggi, per ogni formatore.