Un villaggio per educare – Intercultura e identità culturale

Un villaggio per educare

a cura di Alessia Todeschini

Domande, curiosità e dubbi dal mondo dell’educazione

Siamo un gruppo di educatrici. Nella nostra equipe di lavoro e nel nostro servizio si parla spesso di come accogliere le famiglie valorizzando le loro differenze, le loro storie, le loro culture di origine e contemporaneamente di come raccontare la nostra. Ma a volte, detto fuori dai denti, non sappiamo che pesci pigliare. I tentativi sono stati tanti, alcuni riusciti altri meno. Un esempio: ha senso non fare la festa di Natale e chiamarla festa di Inverno con un approccio laico? È giusto, ad esempio mettere le famiglie cinesi nelle condizioni di organizzare il loro capodanno all’interno del servizio se lo vogliono o è un approccio posticcio? E come ci si comporta durante la festa della mamma e del papà con le famiglie monoparentali o omo-genitoriali? Vorremmo evitare di fare della pedagogia da cous cous, in cui l’approccio interculturale si risolve con la festa coi cibi etnici, ma a volte è davvero difficile capire come muoversi.

Risponde Stefania Mombelli*

 

I filosofi del linguaggio amano dire che le parole sono etichette (tra senso e significato)… , sarebbe un po’ come dire che esse sono degli indicatori che veicolano contenuti, ma non si posso identificare con essi. Insomma, se io applico all’aceto l’etichetta del Chianti… berrò comunque aceto… e viceversa.

Allora forse occorre andare oltre le parole per cercare percorsi di senso. Occorre cioè interrogarsi su cosa è meglio fare per l’educazione dei bambini che ci sono affidati e per le loro famiglie. Certamente il contesto socioculturale è mutato rapidamente e nel tentativo di essere “politicamente corretti” e cercando di essere inclusivi, con famiglie portatrici di identità culturali e religiose differenti, spesso si aggiungono o modificano metaforicamente le “etichette” o i nomi delle feste, per poi ritrovarsi a creare situazioni e contesti che appaiono poco comprensibili… o forse poco credibili.

È accaduto, ad esempio di avere bambini figli di coppie omosessuali (in questo caso due mamme). L’equipe si è interrogata se festeggiare la classica festa della mamma tradizionale. É avvenuto che l’equipe ha scelto, in questo caso, di festeggiarla in modo tradizionale, le donne in questione hanno aderito entrambe alla festa, partecipando in modo spontaneo e cordiale senza manifestare o richiedere alcun tipo di attenzione particolare. Questa esperienza ci fa osservare come le persone non cercano trattamenti “speciali”, ma vogliono partecipare e appartenere, nella quotidianità, senza tuttavia rinunciare o omettere il proprio modo di essere.

Lo stesso principio è applicabile a questioni etniche, religiose o culturali. L’integrazione si manifesta attraverso il riconoscimento dell’identità di cui siamo portatori (non solo etnica, ma anche riguardante la persona), allora, il rispetto per l’alterità non si manifesta cambiando l’etichetta, o il nome della “festa” di turno, ma attraverso quelle attenzioni che ci permettono di ri-conoscere l’altro e i suoi bisogni.

Insomma, chiamare festa di Inverno, la Festa di Natale, non è di per sé un problema, il rischio è quello di far perdere di significato alla prima, senza viceversa dare un significato pregnante alla seconda. Il rischio è altresì di creare un “luogo virtuale” per festeggiare qualcosa che rimanda a qualcos’altro… creando ambigui- tà e confusione nelle famiglie, qualunque sia il portato culturale.

Sappiamo benissimo che le famiglie italiane festeggiano il Natale, affermare però che esse siano tutte devote e praticanti risulta probabilmente un’esagerazione. Tuttavia, essa è, anche per queste, la festa dei bambini e nessun genitore vorrebbe impedire al proprio bambino di viverne la magia e la sorpresa del dono. Non vogliamo affermare con questo che occorre adeguarsi alla cultura dominante o statisticamente alla maggioranza; anzi, occorre fare un lavoro in più: cercare di comprendere ciò che accade in ogni contesto-nido, poiché ogni realtà è portatrice di istanze differenti. Cioè, potrebbe anche darsi il caso che in alcuni situazioni possa essere anche indetta una festa dell’inverno, oppure perché no, la festa del capodanno cinese, non stiamo parlando di numeri, (quanti cinesi, quanti italiani, quanti marocchini ecc..), ma di come quel particolare contesto-nido possa accogliere, comprendere, in modo apprezzabile questa iniziativa pensata e costruita all’interno di un progetto educativo laico che pone al centro il bambino.

Ecco che il focus si sposta dal nome-etichetta della festa al significato che per la comunità dell’asilo acquisirebbe la festa in questione. L’operatore quindi non deve cercare una soluzione definitiva al problema, ma “osservarne la complessità” e lavorare quotidianamente con questa attitudine.

Quindi, ancora una volta, per permettere o facilitare l’integrazione di qualche famiglia o favorire il confronto e la conoscenza, al fine di eliminare quei pregiudizi reciproci che spesso rendono difficile l’integrazione e la convivenza occorre porre attenzione quotidiana alle persone e alle loro sensibilità. In altri termini devo cercare di capire che significato ha per “quella mamma” o “quel papà” che incontro quotidianamente e non rifarmi soltanto a modelli preconfezionati, spesso pregiudiziali.

Il nido è, se ci pensiamo bene, un’occasione stupenda per favorire le relazioni fra gli adulti, infatti i bambini, forse perché piccini e privi di costrutti e pregiudizi, vivono la loro quotidianità esprimendo bisogni che possiamo definire come indistinguibili da quelli degli altri bambini, dimostrando di fatto un’integrazione naturale e spontanea… questa si, potrebbe esser d’esempio per molti adulti (compresi anche noi operatori).

Tuttavia, occorre coltivare queste possibilità, sono d’accordo con ciò che si chiede nella domanda… non basta fare un buon cous cous, per favorire l’integrazione, occorre lavorare ogni giorno, per permettere alle persone di sentirsi “comprese”, accolte nelle loro specificità, e quindi anche nelle loro identità culturali. Ciò significa forse, che per creare inclusione, occorre focalizzare meno l’attenzione sui grandi eventi (Natale, Pasqua, festa del papà, della mamma, Hallowen, ecc..) ma lavorare in quegli spazi detti – forse in maniera riduttiva – “informali” (mi riferisco, all’acco- glienza del mattino, al momento del ricongiungimento, ecc..) facendo attenzione al modo in cui si comunica con i genitori, intercettando le loro sensibilità, senza dar l’impressione di giudicare e cercando sempre di comprendere. Molto spesso ad esempio il migrante è solo, ha una rete sociale limitata o nulla, soprattutto se è in Italia da poco, ed il nido è uno dei pochi luoghi dove la comunicazione e la relazione ha un significato importantissimo per le mamme e i papà che affidano ad altri il loro bambino.

Sarà quindi con l’autenticità della relazione e con l’attenzione alle istanze di cui le persone (piccole o grandi) sono portatrici, che suddette feste assumono significati inclusivi e non stigmatizzanti… allora qualunque cosa può essere un pretesto per fare educazione e fare festa, anche con un panettone o un buon Cous Cous… possibilmente preparato da mani sapienti!

Non si tratta di una soluzione approssimativa al problema, una via di mezzo… ma dell’assunzione di una competenza e di una responsabilità ulteriore, che l’educatore deve assumersi oggi, poiché suggerita da una realtà sociale più complessa articolata che nel recente passato.

*Coordinatrice e operatrice Nidi Stripes