Come dovrebbe essere? No, come è.
Di SERGIO TRAMMA
Ordinario di Pedagogia generale e sociale presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca.
Encomiabile l’iniziativa di Pedagogika di stimolare e proporre una riflessione attorno a un tema complesso, difficile e delicato come quello del rapporto tra pedagogia-educazione ed etica. Encomiabile perché nei confronti di tale questione una tensione conoscitiva irrequieta e non banale deve essere sempre tenuta accesa, al fine di ridurre la tentazione di avventurarsi alla ricerca di una rassicurante e definitiva sistematizzazione universale di tale rapporto, piuttosto che di eluderlo dichiarandolo obsoleto.
La riflessione sull’etica concernente gli obiettivi e le prassi educative si colloca sempre in un campo denso di contraddizioni e questioni aperte. In particolare, il rapporto tra educazione ed etica, ovunque lo si collochi – nella filosofia e nella sua storia, nella pedagogia e nei suoi travagli, nelle varie manifestazioni della politica ecc. – invita a porsi domande di fondo, strategiche e valoriali e non strettamente “tecniche”, riguardanti le condotte auspicate. E porsi delle domande (al di là della retorica) significa segnalare l’esistenza di un problema, cioè l’esistenza di uno stato di fatto diverso dallo stato auspicabile, un “come è” diverso da un “come vorrei che fosse” o, sulla base di una qualche kantiana legge morale, “come dovrebbe, in assoluto, essere”.
Nella fattispecie, interrogarsi attorno all’etica in ambito educativo significa quindi cogliere un insieme di problemi che potrebbero essere riassunti in alcune domande riguardanti l’esistenza di sufficienti atteggiamenti e comportamenti etici rispetto a quelli auspicabili, all’acquisizione dei quali indirizzare i soggetti destinatari delle azioni educative intenzionali, e se questa etica è autogenerata, cioè appartiene di per sé alla pedagogia, a tutta o a parte della pedagogia, o se è, invece, derivata, ed eventualmente da quale ambito e da quali culture.
Tutto ciò, ovviamente, ferma restando la convinzione che l’educazione all’etica non possa che avvenire attraverso didattiche e strumenti che siano ritenuti etici, rifiutando quindi a priori pratiche che non siano tali come, per esempio, quel terrorismo ritenuto legittimo e funzionale quale strumento educativo. Infatti, tra le molte possibili sfumature di significato, l’educare può essere inteso anche come il tentativo di far sì che l’altro sia in un certo modo e compia spontaneamente e convintamente degli atti senza ricorrere a forme di coercizione (considerabili di per sé anti-etiche, quantomeno da una rilevante parte della cultura pedagogica): per esempio persuadere gli educandi a pensarsi imprenditori di se stessi e come tali muoversi in un ambiente professionale caratterizzato da precarietà e da esaltazione della competitività come dimensione “naturale” e funzionale, piuttosto che convincere qualcuno ad andare volontario in guerra per difendere valori supremi e non essere costretto a farlo d’autorità, esempio quest’ultimo che potrebbe apparire estremo ma, stante le esperienze passate e il più che tintinnar di sciabole attuali, purtroppo non lo è. Oppure, e siamo su un versante del tutto opposto, agire per il “bene” assoluto (comune, si direbbe oggi, abusando di un termine già di per sé inflazionato) non per costrizione, ma grazie a un convincimento educativamente generato, talmente radicato e solido che non necessita di essere detto ed esibito a se stessi e agli altri, quasi un’essenza da vivere e praticare positivamente senza averne consapevolezza. Nell’affermare ciò, vengono alla mente le parole del cappellano al detenuto Alex, protagonista di A Clockwork Orange di Antony Burgess, prima che venga sottoposto al trattamento sperimentale che lo renderà altro dal malfattore che era: «Stanno per farti diventare un bravo ragazzo […]. Non sentirai mai più il desiderio di commettere atti violenti o di offendere chicchessia in alcun modo o di turbare la Pace dello Stato»[1]. Attenzione, dunque, a quanta costrizione possa essere agita anche per “nobili fini”, apparentemente etici, raggiunti però con didattiche non etiche.
Il caso delle didattiche poco etiche deve indurre a riflettere attorno al fatto che la pedagogia non sia un “pranzo di gala”, in cui i soggetti che la frequentano siano mossi tutti e sempre da intenti etici derivati e orientati dal diverso dosaggio delle idee e delle prassi di autori che vanno da Dewey a Rousseau, da Montessori a Freire. In campo pedagogico si muovono anche soggetti che hanno un concetto di bene che non è universale e inclusivo, bensì particolare ed escludente. Il riferimento non è alle pur presenti forme di “pedagogia nera” o a sistemi dittatoriali con efficienti apparati educativi, è anche a quella pedagogia che, al di là di quanto proclami a se stessa e agli altri, considera i soggetti destinatari del lavoro educativo come delle “risorse umane” da formare in funzione delle esigenze del mercato del lavoro, cioè delle imprese. È quest’ultima una pedagogia che si intreccia con quella del merito e della meritocrazia, con quella che enfatizza le (reali e presunte) potenzialità d’apprendimento fornite dalle nuove tecnologie o dai dispositivi di vario tipo senza porsi più di tanto il senso dell’apprendimento in una società a innovazione continua e a diseguaglianze crescenti. Una tale presenza di pedagogie con differenti riferimenti culturali, finalità e obiettivi e metodi comporta, tra le molte altre conseguenze, il ridursi, se non l’esaurirsi del tutto, della possibilità di trovare un insieme di convinzioni riconducibili a un bene costituito da valori, principi e condotte pressoché universali. La ricerca degli obiettivi e delle prassi educative associati all’etica universale fa piuttosto pensare al film “All’inseguimento della pietra verde” di Robert Zemeckis, pur se verde è anche la Kryptonite delle storie di Superman. In altri termini, fa pensare alla inanità della ricerca di una “cosa” perenne e definitiva che, in un afflato di ecumenismo e universalismo, accumuni tutti gli umani in relazioni non mercantili in grado di generare, attraverso lo scambio o il dono, vantaggi reciproci ed egualitari.
La questione del rapporto tra etica ed educazione, quindi, si pone diversamente, cioè in termini di capacità di accettare come scenario non riformabile le differenze, le contraddizioni, i conflitti insanabili tra i diversi attori che compongono lo scenario sociale, attori che tranne per il fatto, pur non trascurabile, di essere umani (ammesso che una tale definizione abbia qualche probabilità di risultare anch’essa universale ed eterna) hanno interessi, aspettative, motivazioni differenti e financo antagoniste, e tutto ciò comporta la presenza di etiche differenti.
È a partire da ciò che è necessario ricordare quanto l’etica rischia di diventare una parola connotata positivamente in sé, subendo la stessa sorte di altre parole come inclusione, sostenibilità, comunità, solidarietà ecc., che nell’ultimo periodo si sono trasformate da parole shibboleth a parole passe-partout, cioè da parole in grado di testimoniare l’appartenenza a un delimitato campo valoriale e di prospettiva educativa a termini utilizzati per collocarsi sportivamente nell’area del “bene” e comunicare l’alone della propria positività specifica o aspecifica, reale o presunta. Non si capirebbe altrimenti perché una banca si presenti sul mercato definendosi etica (una contraddizione in termini direbbe Brecht) e non utilizzando altre parole e espressioni meno impegnative quali, per esempio, “non taccheggiatrice”, “conveniente”, “onesta” e similari, oppure che una gioielleria si faccia pubblicità dichiarando di vendere gioielli etici. In ultima analisi, l’etica sembra in alcuni casi costituire il tentativo di darsi uno scudo per impedire di “sparare sulla Croce Rossa”, una sorta di autocertificazione del proprio collocarsi nel campo del bene (universale) e non del male (altrettanto universale).
La questione non si pone però in termini di capitolazione dell’universalismo (quell’universalismo che rischia sempre di trasformarsi in assolutismo o monoteismo laico o religioso) nei confronti del preoccupante e/o confortante relativismo. Non si pone in tal modo poiché l’intera questione non può confondere il piano culturale dell’analisi delle diversità e del riconoscimento del loro essere e divenire con il piano dell’assunzione di responsabilità della scelta rispetto a quello che si ritiene essere il bene verso cui tendere. Non può e non deve essere, tale bene assoluto ed eterno al quale, prima o poi, l’umanità giungerà vuoi per il lavorio di una qualche religione (la quale, per fare ciò deve innanzitutto espellere la concorrenza) vuoi per l’azione di qualche soggetto che si pensa motore della storia: dagli operatori sociali agli intellettuali, piuttosto che generata da qualche appartenenze mono o pluri-identitarie (possibilmente a caratterizzazione debole e meticcia), da quelle etniche a quelle di genere, che liberando se stesse si pensano liberatrici dell’umanità intera, visto che tale compito non è riuscito al proletariato di marxiana memoria.
Davanti a questioni di tale portata vale sempre la pena di consultare alcuni “fondamentali” utili a fornire dei punti di riferimento. Per esempio, per Gianni Vattimo[2] la riflessione della filosofia sui problemi etici si sviluppa soprattutto nei momenti di crisi, quando la compattezza e la continuità di un mondo di valori si incrina, e tale crisi comporta che le norme che parevano ovvie vengono messe in discussione, non funzionano più i consueti criteri di legittimazione e i principi e le modalità conoscitive riconosciuti validi per stabilire ciò che è “bene” e ciò che è “male”.
È una fase di passaggio nella quale, parafrasando Antonio Gramsci, il vecchio è finito, ma ancora resistente, e il nuovo avanza ma ancora non si impone, una situazione nella quale possono generarsi mostri. In campo pedagogico il vecchio è composto da molti elementi che possono essere rintracciati in quella pedagogia prodotta in un periodo che va dal Dopoguerra alla fine degli anni Settanta e che aveva come proprio asse il tentativo (illusorio?) di ridurre, in particolare tramite l’educazione scolastica, le diseguaglianze sociali e di far sì che la formazione dei soggetti non fosse solo una brutale socializzazione al lavoro e ai conformismi sociali. È una pedagogia che, in alcune delle sue espressioni cattoliche, marxiste e liberali, ha tentato di costruire un disegno educativo universale ed eterno all’interno del quale il bene e il giusto universale avevano una posizione centrale e dirimente. È una pedagogia del passato che deve fare i conti con l’esaurimento della sua spinta propulsiva in campo educativo e con l’avvento di un nuovo dove l’utile particolare e non universalistico, ideologicamente connotato come non ideologico, tende a occupare sempre più spazi in ambito educativo e culturale.
Educare all’etica? Anche per questa dimensione del lavoro educativo vale quanto potrebbe dirsi della miriade di “educazione a qualcosa”, a un certo modo di essere, che riguarda vari aspetti della sfera individuale e della vita sociale: legalità, cittadinanza, genere. Non vi è molta possibilità di successo per un’educazione intenzionale tesa a far sì che le persone diventino in un certo modo, attraverso pratiche esortative e predicatorie, pur se costellate da animazioni e attivazioni di vario tipo. Si tratta di educare alla disamina, anche tignosa quando necessaria, della concretezza del reale e dei rapporti sociali che vi sono, educare all’accettazione delle contraddizioni e dei conflitti quale caratteristica ineliminabile delle relazioni tra gruppi sociali, educare all’assunzione di responsabilità che nascono dal compromettersi in scelte e decisioni. In altri termini, si tratta di fornire strumenti per riflettere attorno alla costruzione sociale di idea di etica indicandola come una tensione costante verso un assoluto che tale mai non potrà essere, per propria natura e non per i limiti, o le illusioni, dell’educazione.