SILLABARIO PEDAGOGIKO (Etica intellettuale)
Di FRANCESCO CAPPA
Non so voi, ma io, ogni volta che mi si presenta alla mente la parola etica – forse anche solo per una questione di assonanza o forse, ancor più, per una questione di risonanza dell’immagine che mi si presenta alla mente – penso immediatamente alla tecnica.
Forse anche Hannah Arendt aveva lo stesso riflesso mnestico. Così, infatti, scriveva in un passo della sua Vita activa. «Nel 1957 un oggetto fabbricato dall’uomo fu lanciato nell’universo e, per qualche settimana, girò intorno alla Terra seguendo le stesse leggi di gravitazione che determinano il movimento dei corpi celesti – del sole, della luna, delle stelle. Certamente il satellite costruito dall’uomo non era come la luna o le stelle, non era un corpo celeste che potesse rimanere in orbita per un tempo che a noi mortali, vincolati al tempo terrestre, sembra eterno. Tuttavia, per un certo periodo, esso riuscì a rimanere nel cielo e si mosse in prossimità dei corpi celesti, come se fosse stato ammesso in via sperimentale alla loro sublime compagnia. […]
La reazione immediata, espressa sotto l’impulso del momento fu di sollievo per il primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigionia terrestre. E questa strana affermazione, lungi dall’essere la trovata accidentale di qualche reporter americano, involontariamente riecheggiava la straordinaria epigrafe che, più di vent’anni prima, era stata scolpita sul monumento funebre di un grande scienziato russo: l’umanità non rimarrà per sempre legata alla Terra. […]
Benché i cristiani abbiano parlato della terra come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano considerato il corpo come prigione della mente o dell’anima, nessuno nella storia dell’umanità ha mai concepito la Terra come una prigione per i corpi degli uomini, o manifestato realmente la brama di andare letteralmente fin sulla luna. Sarebbe questo l’esito dell’emancipazione e della secolarizzazione dell’età moderna, iniziate con l’abbandono, non necessariamente di Dio, ma di un dio che era il Padre Celeste: il ripudio sempre più fatidico di una Terra che era la Madre di tutte le creature viventi sotto il cielo? La Terra è la vera quintessenza della condizione umana, e la natura terrestre, per quanto ne sappiamo, è l’unica nell’universo che possa provvedere gli esseri umani di un habitat in cui muoversi, respirare senza sforzo e senza artificio.
Molti sforzi scientifici sono stati diretti in tempi recenti a cercare di rendere artificiale anche la vita a rescindere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i figli della natura. È lo stesso desiderio di evadere dalla prigione della terra che si rivela nel tentativo di creare la vita in una provetta, nel desiderio di mescolare sotto il microscopio il plasma germinale congelato di persone di comprovato valore per produrre esseri umani superiori e modificarne la grandezza, forma e funzione; Io credo anche che un desiderio di sfuggire alla condizione umana si nasconde nella speranza di protrarre la durata della vita umana al di là dei limiti e dei cento anni. Quest’uomo del futuro, che gli scienziati pensano di produrre nel giro di un secolo, sembra posseduto da una sorta di ribellione contro l’esistenza umana come gli è stata data, un dono gratuito proveniente da non so dove (parlando in termini profani), che desidera scambiare, se possibile, con qualcosa che lui stesso abbia fatto».
La tecnica, lo sviluppo tecnologico, il modo in cui l’uomo sta nel rapporto con questo sviluppo, il cambiamento che questo sviluppo produce nel rapporto col mondo, con la realtà, con gli altri, con se stesso, sembrano delimitare un campo d’esperienza in cui etica e pedagogia vengono messe alla prova.
Un paio di anni fa ho imparato alcune cose rilevanti sul rapporto tra etica e pedagogia iniziando un serrato corpo a corpo con alcuni testi della recente letteratura, sugli effetti educativi benevoli o nefasti di internet, dei social network, dell’infosfera che ci circonda, ci opprime, ci esalta, ci deprime, ci offre infinite possibilità di piacere inconfessabili e di passatempi che sembrano, forse non solo in apparenza, degradare in modo indefinito e indicibile le virtù etiche, così care ad Aristotele, che devono tendere alla felicità.
Uno dei padri della rivista Wired è stato Nicholas Carr. In un suo libro di qualche anno fa intitolato “Internet ci rende stupidi?”, si possono leggere un paio di pagine, a mio avviso illuminanti, su una questione poco trattata dalle riviste mainstream, che cercano continuamente di istruire i loro lettori sui significati e sugli effetti della vita iperconnessa e del suo coatto divenire, sempre più impalpabilmente votato alla sottomissione a buon mercato di corpi docili e menti flebili. Si tratta della questione dell’etica intellettuale delle tecnologie. Ogni tecnologia è un’espressione della volontà umana, scrive Carr. Attraverso i nostri strumenti, cerchiamo di estendere il potere e il controllo sul mondo circostante: sulla natura, sul tempo, sulla distanza e gli uni sugli altri. Le tecnologie possono essere divise sommariamente in quattro categorie, a seconda del modo in cui integrano o ampliano le nostre capacità innate. Un primo gruppo – che include l’aratro, l’ago da rammendo e l’aereo da combattimento – amplia la nostra forza fisica, la destrezza o la capacità di recupero. Un secondo gruppo – di cui fanno parte il microscopio, l’amplificatore e il contatore Geiger – estende la portata o l’accuratezza dei nostri sensi. Un terzo gruppo – che contiene tecnologie come la cisterna, la pillola anticoncezionale e il granturco geneticamente modificato – ci aiuta a dare una nuova forma alla natura per assecondare le nostre necessità o i nostri desideri.
La mappa e l’orologio appartengono alla quarta categoria che si potrebbe chiamare – prendendo a prestito un termine usato con un significato leggermente diverso dall’antropologo sociale Jack Goody e dal sociologo Daniel Bell – “tecnologie intellettuali”. Questa locuzione si riferisce a tutti gli strumenti che usiamo per ampliare o rafforzare le nostre facoltà mentali: cercare e classificare le informazioni, formulare ed esprimere chiaramente le idee, condividere abilità tecniche e conoscenze, fare misurazioni e calcoli, aumentare la capacità della memoria. La macchina da scrivere è una tecnologia intellettuale. Lo sono anche l’abaco e il regolo calcolatore, il sestante e il mappamondo, il libro e il giornale, la scuola e la biblioteca, il computer e internet. Anche se è vero che l’uso di qualsiasi strumento può influenzare il nostro modo di pensare e di vedere il mondo – per esempio l’aratro cambiò il punto di vista dell’agricoltore, il microscopio aprì nuove frontiere di esplorazione mentale per lo scienziato – sono però le tecnologie intellettuali a determinare in modo più significativo e duraturo che cosa e come pensiamo. Sono questi, infatti, i nostri strumenti più personali, quelli che usiamo per esprimerci, per dare una forma alla nostra identità personale e pubblica e per coltivare le relazioni con gli altri.
La questione interessante, e particolarmente interessante da un punto di vista pedagogico, che viene troppo spesso sottostimata dai discorsi degli esperti di scienze della comunicazione, delle tecnologie e di scienze dell’educazione – che cercano di affrontare i problemi che, per esempio, oggi studenti ed insegnanti affrontano nella vita scolastica – riguarda il fatto che ogni tecnologia intellettuale incarna un’etica intellettuale. Ossia un insieme di assunti riguardo al modo in cui la mente umana lavora o dovrebbe lavorare. La mappa e l’orologio condividono un’etica simile. Entrambi pongono l’accento in modo nuovo sulla misurazione e sull’astrazione, sul percepire e sul definire forme e processi che vanno al di là di quelli evidenti ai nostri sensi.
Il problema pedagogicamente rilevante è però che l’etica intellettuale di una tecnologia è raramente riconosciuta dagli inventori di quella tecnologia. Di solito essi sono talmente impegnati a risolvere un problema particolare o a districare qualche spinoso dilemma scientifico o ingegneristico, che non riescono a vedere le implicazioni più ampie del loro lavoro. Scrive Carr: «Anche gli utenti della tecnologia, normalmente, ne ignorano l’etica per concentrarsi sui benefici pratici che possono ottenere dall’uso di quello strumento. I nostri antenati non inventarono ne usarono le mappe per aumentare la loro capacità di pensiero concettuale o per portare alla luce le strutture nascoste del mondo. Né, tantomeno, fabbricarono orologi meccanici per stimolare l’avvento di un pensiero scientifico. Quelli furono effetti secondari delle tecnologie». Ma degli effetti secondari di una potenza quasi inestimabile. In definitiva possiamo dire che è l’etica intellettuale di un’invenzione ad avere l’impatto più profondo su di noi. L’etica intellettuale è il messaggio che un medium o un altro strumento trasmette latentemente alle menti e alla cultura dei suoi utenti. In questo innesto latente, nella non immediata riconoscibilità della portata pedagogica dell’etica di una tecnologia, sta il punto in cui l’esperienza formativa si intreccia in modo inestricabile con la vita etica.
Come ha scritto Simon Critchley: «Come fa un soggetto a vincolarsi a una cosa qualsiasi che ritiene buona per sé? Questa è la domanda etica fondamentale. Per rispondere abbiamo bisogno di una descrizione e di una spiegazione dell’impegno soggettivo che sottende l’azione etica. Si può sostenere che tutte le questioni di giustificazione normativa, rispetto alle teorie della giustizia, dei diritti, dei doveri, degli obblighi o quant’altro, dovrebbero essere riferiti a quella che possiamo chiamare esperienza etica. L’esperienza etica sollecita la struttura fondamentale del soggetto morale ovvero ciò che potremmo intendere come la matrice esistenziale dell’etica». Come tale l’esperienza etica ci restituisce una spiegazione della forza che motiva ad agire moralmente, in virtù della quale un soggetto decide di aderire a una data concezione del bene. Senza una spiegazione plausibile della forza motivante, vale a dire, senza una concezione del soggetto etico la riflessione morale viene ridotta a una vuota manipolazione dei quadri di giustificazione standard: deontologia utilitarismo ed etica della virtù.
Forse ha ragione Alain Badiou: bisogna cercare di essere «fedeli all’evento» che ognuno di noi può essere, nel tentativo di tendere ad una felicità che ci supera. L’evento diventa il punto centrale sia dell’esperienza etica sia dell’esperienza formativa. In questo senso, si tratta di costruire le condizioni in cui il processo che mi forma come un soggetto che sa abitare il mondo – che sa riconoscere quali dei suoi desideri sono realmente desiderabili perché il mondo non diventi un campo in cui tutto può o debba essere consumato – venga a coincidere con l’occasione etica in cui la mia pratica permette all’altro di conoscere i limiti e le possibilità della sua libertà.
Una libertà non gravata da un giudizio o da un quadro di valori già prescritto: una libertà che può nascere solo dall’immaginare insieme delle forme di vita ulteriori, foriere di alternative pedagogiche.