La bellezza di Ana (editoriale)

Di MARIA PIACENTE

Ebbene sì, ci siamo cimentati con un argomento difficile e forte che non lascerà indifferenti.
Le sigle con le quali vengono descritte le fragilità – ma davvero si tratta di fragilità? – sono veramente tante, troppe. Molti sono gli spunti e gli interrogativi che i collaboratori e le collaboratrici di questo dossier hanno indagato. Il mare magnum nel quale si naviga ha fatto sì che, questa volta, abbiamo voluto dotarvi di una scheda illustrativa ragionata, riguardo le denominazioni delle varie sigle. In una parola dei BES: bisogni educativi speciali che, secondo noi, ciascuna e ciascuno di noi potrebbe avere, perché per noi ogni alunno è speciale.
Infatti, a noi interessano soprattutto le soggettività di ognuno e non vogliamo soffermarci sulle etichette, che certo rassicurerebbero di più perché danno un nome alla difficoltà che ci sembra di individuare e non ci obbligherebbero a pensare più di tanto.
Soprattutto a noi interessa entrare nelle specifiche parole andando alla ricerca di quell’alterità in divenire tipica della condizione umana. Tra tutti i passaggi di vita, l’adolescenza (e la vecchiaia) sarebbe paragonabile a delle vere unità di crisi. Ne parla Francesco Stoppa: «La parola greca Krisis, infatti, non descrive l’evento in questione e nemmeno l’effetto che esso produce, il danno subito; segnala invece il generarsi di una precisa e profonda reazione interiore in chi ne è stato colpito. L’adolescenza sarebbe paragonabile a delle vere e proprie unità di crisi dove il soggetto deve prendere atto che esistono pezzi di sé che incorrono in graduali o repentine mutazioni… siamo continuamente chiamati ad un cambio di passo nel rapporto che intratteniamo con la nostra esistenza e con la realtà, e negli imprevedibili svolgimenti che caratterizzano il transito intergenerazionale»[1].
Così cresciamo e diveniamo umani: con il tocco umano e con la presa di coscienza delle nostre crisi. È sempre necessario quindi essere in sintonia con l’altro da noi? Certo! E come è possibile non esserlo: se vogliamo insegnare, se vogliamo testimoniare, sostenere e assistere alla crescita intellettuale fisica e spirituale dei bambini, delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze che ci sono stati affidati e con i quali impegnarci nei passaggi di vita?
Dovremmo, prima di tutto, chiederci se quel bambino o quella ragazza sono stati riconosciuti pienamente come soggetti, il che implicherebbe il fatto che, come qualcuno sostiene negli articoli scritti per questo dossier, poiché ciascuno e ciascuna di noi è un soggetto speciale, alla ricerca del suo intimo desiderio, ha bisogno di qualcuno che glielo rispecchi: occorre essere visti, occorre essere “riconosciuti”.
Maria Zambrano scrive: «C’è bisogno di una coscienza che raccolga il personaggio che vaga errabondo per la città oppresso sotto il peso della propria vita indefinita, non vista da alcuno (…). Ci vediamo nell’altro, e solo quando qualcuno raccoglie la nostra storia, la storia delle nostre pene, della nostra contentezza e del nostro fallimento, solo allora ci conosciamo. Come conoscerci se non ci conosce nessuno?»[2].

Pensando alle nostre storie, alle nostre identità, mi è tornata in mente una situazione particolare che ebbi modo di seguire in una scuola dell’hinterland milanese. Si tratta di una ragazzina rumena, nome di fantasia Ana, arrivata in Italia una quindicina di anni fa insieme ai suoi genitori, lavoratori attenti e affettuosi con questa unica figlia. La bambina, poco più che settenne, venne inserita in una terza classe nella quale, a dire delle maestre, era accolta con curiosità e calore da tutti i compagni. Ana veniva invitata a casa delle amichette di scuola per fare i compiti, ma anche per festeggiare i compleanni dei compagni. A volte la madre nei vari scambi culinari che si organizzano a scuola, preparava delle torte tipiche del loro paese di origine e le portava a scuola in occasione di piccole feste alle quali partecipavano altri genitori che a, a loro volta, portavano le proprie specialità.
Ana parlava poco, era molto intelligente e sensibile e piano piano stava imparando l’italiano, anche con l’aiuto di qualche lezione dedicata. Dopo un po’ di tempo cominciò a porsi un problema: Ana studiava, seguiva nei tempi e nei modi i compagni e riusciva a fare i compiti nei ritmi previsti, quasi fin troppo; ma quando veniva interrogata succedeva qualcosa… Non parlava, non spiccicava quasi nemmeno una parola. Non sapeva cosa dire.
Era come se dicesse: “Io non mi dono qui, faccio tutto, ho imparato quello che dovevo e che vi aspettavate da me…, ma non voglio raccontarvelo, non parlo io!”. Non si dava, ecco il problema: la ragazzina sapeva fare i compiti, stava bene in classe, di quando in quando parlava, ma poco, con la sua compagna di banco… ma quando veniva interrogata non rispondeva.
La maestra fece un incontro prima col consiglio di classe, poi – per capirne di più – con i genitori sempre disponibili. Tutto sembrava tranquillo in casa, la bambina non riportava nessun problema dalla scuola ed era sempre al passo con gli altri rispetto al programma e ai progressi sul piano didattico. Al perdurare di questa situazione, il consiglio di classe decise di suggerire ai genitori, che già cominciavano a preoccuparsi, di parlare con Ana e proporle qualche incontro con la psicologa della scuola, la dottoressa Zazzi, che Ana conosceva abbastanza bene perché a volte le capitava di incontrarla nel cortile della scuola e qualche volta la dottoressa Zazzi le aveva chiesto come si trovasse in Italia… Insomma per Ana poteva essere una persona di fiducia.
Ana accettò, senza alcuna ritrosia e nelle sedute – a poco a poco – si aprì, mentre in classe persisteva il suo mutismo. Dopo circa un semestre o poco più, la psicologa dette una restituzione degli incontri sia ai genitori, sia agli insegnanti. Emerse che Ana non si apriva e non voleva parlare in classe, non perché imparare la nostra lingua fosse così difficile per lei, il fatto era che per Ana avere un eloquio piuttosto fluido nella nostra lingua era fonte di forte turbamento, di dolore e di angoscia. Era come se sentisse di operare un tradimento verso i genitori e verso il suo paese: il tradimento della sua lingua, della sua terra. Così non ne voleva imparare un’altra e, attraverso quella modalità di rapportarsi con la classe ed i compagni, pensava di tenere al riparo e di custodire il più possibile e per più tempo la sua amata terra. In seguito, con serenità Ana si è concessa alla classe, alle maestre alla lingua italiana. Nonostante questa situazione si fosse evoluta bene, i tentativi di stigmatizzare la bambina, magari con una sigla inadatta, ci sono stati. La preoccupazione di attivarsi a fare qualcosa è inversamente proporzionale ai sentimenti di frustrazione che la scuola e la famiglia vivono quando pensano di non potere tollerare il limite e le difficoltà degli allievi. La tentazione di marcare il deficit e dargli un nome, anziché interrogarlo, è troppo forte.
È proprio quello che a noi può sembrare un deficit che potrebbe, invece, rivelarsi un grande talento nascosto, una crisalide impegnata nella crescita per diventare una farfalla che non deve essere disturbata. Gli insegnanti dentro di loro lo sanno. L’insegnamento non può essere considerato un contesto nel quale trasmettere solo competenze, ma un luogo dove essere pienamente umani e dove coltivare con cura la nostra umana bellezza.

 

[1] Cfr. Francesco Stoppa, Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza, Feltrinelli 2021.

[2] Cfr. Maria Zambrano, Le parole del ritorno, Feltrinelli, 2022.