La “farmacia” di un poeta (intervista a Milton Fernandez)

A cura di MARIA PIACENTE


Milton Fernandez è nato a Minas, in Uruguay, nel 1958. Si è laureato in Arte drammatica all’Accademia Nazionale di Montevideo e si è successivamente diplomato alla scuola del Piccolo Teatro di Milano. Ha lavorato come mimo, danzatore, attore, maestro d’armi in diverse produzioni teatrali. E’ ideatore del Festival della Letteratura di Milano e fondatore della casa editrice Rayuela edizioni, per la quale ha tradotto numerose opere di autori latino-americani. La sua produzione è ampia ed eterogenea, con continui tentativi di sperimentazione linguistica e tematica.

 

Cosa e’ per te la scrittura?
A dire la verità, non ho mai trovato una risposta del tutto soddisfacente a questa domanda. Provo ad improvvisare (divagando un po’). Secondo una vecchia leggenda, che qualcuno mi raccontò – non so nemmeno quando, né dove –  ci fu un tempo in cui agli umani fu concessa una parola magica che, nel momento in cui veniva pronunciata, ci faceva dono di prodigi non riscontrabili nella realtà quotidiana. Oppure, di una diversa percezione di quella realtà.
Sono cresciuto in un posto al confine del creato, un paese di circa 500 anime, nella frontiera tra Uruguay e Brasile. La domenica sera, seduti intorno ai “vecchi”, ascoltavamo storie che parlavano proprio di questo: il portento dell’immaginazione, che ci portava lontano da quel mondo tirato su a sudore, fango ed acqua. E tutto diventava allora possibile. Gli esseri invisibili che riuscivamo a intravvedere intorno a noi, e che avrebbero continuato a spaventarci nelle notti che seguivano, semplicemente conformati dalla magia di quelle parole, e i loro relativi silenzi. I mondi che ci attendevano, appena girato l’angolo del tempo. E l’universo si dischiudeva davanti ai nostri occhi, al suono di quelle voci, quel suono che spalancava tutte le porte.
Un giorno lo abbiamo dimenticato, prosegue la leggenda. Quel suono diventò, quindi, “la parola perduta”, che alcuni di noi continuano a cercare  – qualcuno dice invano – ovunque si trovino.
Ecco, questo, pressappoco, è per me la scrittura. Un mettere la vita al condizionale, convinto che “potrebbe” essere diversa, scorrere su altri binari, illudermi  di poter modellarla, cambiare i suoi tempi, riascoltarla, una e un’altra volta, sapendo che la realtà sarà comunque sempre un’altra cosa.
Ceci n’est pas une pipe, scriveva Magritte sotto l’immagine di una pipa. Questa non è una pipa. Una frase che gli scrittori dovrebbero scrivere sotto ogni parola scritta. L’amore che cerco di raccontare, o la tristezza, le parole con cui lo faccio, possono somigliare all’amore, o alla tristezza, ma sono altro. Sono il potere con cui mi concedo di integrarli in un altro sistema, chiamato racconto, narrazione o lingua. Ciò che scrivo non è la realtà, ma la riflessione che ne deriva.
In alcune tribù africane, quando un raccontastorie finisce la sua narrazione, appoggia la mano in terra e dice: «Qui la lascio, fatela vostra, raccontatela d’ora in poi come volete».  Ecco la realtà che, come ogni scrittore, qualche volta mi sono illuso di poter modellare.
La letteratura non è fatta di cose reali, diceva Nabokov, non è nata il giorno in cui arrivò un ragazzo di corsa nel villaggio, urlando “Al lupo, Al lupo”, con un grande lupo alle calcagna. È nata il giorno in cui arrivò un ragazzo di corsa nel villaggio urlando “Al lupo, al lupo!”, e non c’era nessun lupo dietro di lui.
Insomma, scrivo per poter convincermi di essere vivo, per mettere ordine nei cassetti, per combattere l’oblio che, come diceva Pessoa, è pieno zeppo di memoria.
Dalla paura di morire, conclude Eduardo Galeano, ricordando Sherazade e le sue mille notti più una, nacque l’arte di raccontare storie.

Cosa e’ per te la poesia e scrivere poesia?
Leggere dei poeti, sostiene uno studio dell’Università di Liverpool, può produrre più benefici di tanti libri e terapie di auto-aiuto. O di “Mindfulness” (qualunque cosa voglia dire).
Scienziati, psicologi ed esperti in Letteratura hanno monitorato l’attività cerebrale di 30 volontari alle prese con la lettura, in un primo momento, di testi poetici e, successivamente, degli stessi testi tradotti in un linguaggio prosaico, o colloquiale. I risultati, anticipati dal Daily Telegraph, dimostrano che il cervello soffre (gode) di una sorta di eccitazione straordinaria quando incontra strutture semantiche complesse; quei meccanismi non abituali della comunicazione; il dover andare a cercare nuovi significanti tra le maglie di un linguaggio che credeva di conoscere come le sue mani. Questo stimolo genera endorfine a non finire, oltre a una serie di cambiamenti che riescono, se siamo capaci di abbandonarci a un piacere (solitario o meno), a farci girovagare tra spazi mai conosciuti prima, a porci delle domande nuove di zecca, o a fregarcene di quelle che ci hanno attraversato fino a ieri la strada.
Il panteista irlandese (questo mi è stato presentato da Borges) Escoto Erigena disse che le sacre scritture (io credo qualsiasi libro di un qualsiasi poeta degno di chiamarsi tale) nascondono un numero infinito di sensi, e le paragonò al piumaggio multicolore del pavone.
In quella coda, in quel numero non-finito di percezioni, potremmo passare la vita, senza mai trovare il tempo di annoiarci. Nel «silenzio verde» di Carducci. Nel «Andavano scuri nell’ombra della notte solitaria», di Virgilio. La sua «avara luce». La «luna militare» di Quevedo. La «Sera d’oro fuso» di Lorca, o «La tigre di tenerezza», di Cansinos Aséns. Erroneamente supponiamo che il linguaggio corrisponda alla realtà, a «quella cosa così misteriosa che chiamiamo realtà», sostiene (sempre) Borges. In verità il linguaggio è un’altra cosa. Lo dicono anche quelli di Liverpool.
Cos’è? Ecco la sfida. Per quanto mi riguarda, il miglior modo di dialogare con me stesso, e scoprire che in fin dei conti non sono così noioso. Il discutere, e alle volte persino arrivare alle mani, con Emerson (a cui ho appena chiuso un libro in faccia), con Emily Dickinson, con Juan Gelman, con Benedetti, con Walt Whitman, con Calvino, con Dylan Thomas, con Cortázar, con Liber Falco, con Roque Dalton… Amici che ogni tanto tiro giù dal loro letto verticale, a seconda dell’acciacco di giornata. La mia farmacia, fatta di parole, ogni volta nuove.
In latino “inventare” e “scoprire” sono sinonimi. Lo diceva Platone, molto prima di quelli di Liverpool: inventare non è altro che ricordare. Poi Bacon, un giorno, avrebbe aggiunto: «se imparare vuol dire ricordare, ignorare vuol dire saper dimenticare».
Per tornare a Liverpool, questi stimoli del cervello, costretto a una azione non dozzinale, pare si mantengano attivi per molto tempo, potenziando la nostra capacità di indagine e di comprensione di un mondo non del tutto finito e diagnosticato. Funziona meglio di tante tecniche di auto-aiuto, sostengono, visto che agisce sulla famigerata parte destra del cervello, lì dove stocchiamo i ricordi autobiografici. Aiuta a riflettere su di loro, a guardarli (a guardarci) da un’altra prospettiva.
Secondo me, il miglior viaggio che possiamo augurarci per la vita che sta per cominciare.

Che valenza ha, dal punto di vista educativo, cominciare ad insegnare alle bambine ed ai bambini, fin da piccoli a poetare e a scrivere poesie?
Qualche tempo fa, i prof. di una delle scuole più lungimiranti di Milano – Rinascita – mi invitarono a un incontro con gli studenti, a parlare di poesia. La partecipazione era volontaria, e ai ragazzi fu chiesto di avanzare una richiesta in forma di lettera, indirizzata a me, spiegando i motivi per cui avrebbero voluto partecipare. Uno di loro scrisse: «Caro Sig. Milton, (…) in questi giorni sto facendo un viaggio con le parole e mi servono i remi per viaggiare, e i remi sono le poesie…».
Ecco, ogni volta che qualcuno parla di “insegnamento”, parlando dei bambini, e soprattutto parlando di poesia, mi tornano in mente queste parole, e quella mattinata di irrefrenabile creatività.
“Abitare poeticamente il mondo” si intitola il libro scritto da Christian Bobin qualche anno fa. Nell’incipit ci sono queste parole: «Poesia è un atteggiamento, una pratica di relazione con il mondo che consente alle cose, alle persone, agli eventi, di mostrarsi a noi, come se nascessero ogni volta».
Proprio quello che fanno i bambini, quando glielo permettiamo. Quando la nostra follia smette di cercare di modellarli a nostra immagine e somiglianza. Quando smettiamo di tarpare le ali alla loro prodigiosa creatività, incanalandoli sui modelli con i quali sono state tarpate le nostre.
La poesia può insegnare (a tutti noi, bambini compresi), che i sentimenti sono importanti. E che senza questi – senza le emozioni, la commozione, la fragilità con cui a volte affrontiamo certi fatti – la vita sarebbe grigia. E, parafrasando Chesterton, non dobbiamo insegnare loro che il grigiore esiste, questo loro lo sanno già. La poesia può insegnare che il grigiore si può sconfiggere.


Da molti anni dirigi il Festival Internazionale di Poesia a Milano: qual e’ stata la tua esperienza?
Dodici anni fa nacque, a Milano, il primo Festival della Letteratura. Un sogno collettivo nel quale, allora, in pochi credevamo. Lo abbiamo fatto senza mezzi, senza la collaborazione delle istituzioni (anzi), e senza referenti politici. Semplicemente mettendo le nostre migliori energie al servizio di un’idea: collegare gli spazi con le persone, e queste persone con altre ancora. Luoghi e voci – corpi, strumenti, mani, pennelli, fotocamere, cineprese – che da tempo si stavano cercando e finalmente s’incontravano. Siamo nati liberi – poeticamente indipendenti – e se mi perdonate un moto di orgoglio, essere rimasti tali credo costituisca il nostro più grande successo.
Qualche anno più tardi, nel 2016, rispondendo a una proposta di collaborazione avanzata da un ramo dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano – che finalmente avvertiva la nostra presenza – abbiamo creato il Festival Internazionale di Poesia, FIPM, al Mudec, Museo delle Culture. Oggi, ancora segnati da un evento epocale che per molto tempo ha tentato di ridurci al silenzio, riconfermiamo ogni anno la nostra vocazione di respiro all’aria aperta, guardandoci negli occhi, parlando con le nostre voci, lottando, tutti insieme – con tutti i mezzi a nostra disposizione – per un diritto irrinunciabile chiamato cultura. Cioè, «l’insieme dei tratti distintivi, spirituali e materiali, intellettuali e affettivi che caratterizzano una società o un gruppo sociale, e include – oltre alle arti e le lettere – modi di vita e di convivenza, sistemi di valori, tradizioni e credenze», come stabilisce l’Unesco. La nostra dichiarazione d’amore alla vita.

 

Ci puoi raccontare delle collaborazioni con festival poetici e in generale di scrittura nei vari paesi con i quali sei in relazione?
Quest’anno, tra pochi giorni, inizia il Festival Tour de Villa, di Gressan/Aosta. In un luogo fatato, tra le mura di un castello del 12° secolo; un posto di impareggiabile bellezza, tra alberi secolari e la serena magnificenza di quelle vette che custodiscono, da sempre, mondi solo apparentemente diversi – la cultura, il sentire, l’incessante musica verbale di un territorio tra i più belli della creazione. Questo Festival (10 e 11 giugno 2023), di cui curo la direzione artistica, è strettamente collegato col Festival della Letteratura di Milano e con il Festival Internazionale di Poesia di Milano, in un abbraccio ideale e fattuale che creerà – lo sta già facendo – una via di scambi creativi, artistici ed umani. Sono stato di recente a El Salvador, invitato al Festival Internacional de Arte y Poesía de la Universidad de Santa Ana, ed è nata anche lì una collaborazione che continuerà il prossimo anno, e che racconterò successivamente. E sta nascendo un Festival, sempre intimamente collegato con i nostri, alla Repubblica Dominicana. Ma anche di questo vi racconterò strada facendo.