Dare valore alle persone (editoriale)
Di MARIA PIACENTE
Molti e preziosi punti d’intreccio emergono dagli articoli dei prestigiosi collaboratori e collaboratrici del dossier di questo numero, che ringrazio davvero molto per la disponibilità. Leggendoli, una notevole quantità di spunti si è aggiunta a quanto mi ha subito evocato il titolo “La città… una casa a cielo aperto?”: se le città fossero davvero una casa, ciascuna e ciascuno di noi avrebbe un posto sicuro dove rimanere e dove approdare nei momenti difficili. Sappiamo però che non è sempre così. Nella tensione tra due poli – spazi allo stato brado e luoghi vivibili – emergono contesti e livelli educativi che fanno riflettere. Per esempio, svariati luoghi rigenerati si rivelano non così fruibili come era nelle intenzioni di chi li ha progettati: a volte, addirittura, vi sono distanze siderali tra i bisogni reali di un certo contesto e gli spazi rinnovati. Il compito è arduo, in effetti. Per esempio, solo da poco tempo la toponomastica femminile ha fatto il suo esordio e abbiamo cominciato a porre nei nostri paesi e città monumenti o sculture relative a personaggi femminili, così che le nostre bambine possono cominciare a conoscere anche le eroine del passato. Il nostro mondo non è fatto solo dalle meravigliose piazze italiane, ma soprattutto dai corpi di uomini e donne che circolano, sostano, si mostrano negli spazi di paesi e città. Si tratta dei luoghi transitati dai cittadini dove per primi sono i corpi ad incontrarsi, a parlare di sè: siamo noi, sono le persone che si raccontano l’un l’altro, che svelano la propria storia anche in quel piccolissimo frammento di tempo con cui i nostri occhi impiegano a scorrere il volto, l’abbigliamento, l’aura di chi sta davanti a noi. È essenziale pensare a luoghi dove potersi fermare e incontrare. «Vorrei una città che fosse proprio come una casa a cielo aperto. La casa non è appena un insieme di stanze e di muri, ma ha qualcosa in più: dà un valore alla persona». Così scrive Giuseppe Lanzarini, un giovanissimo collaboratore e sognatore di questo numero, che mi ha fatto riflettere su come gli architetti e le architette debbano mettere al primo posto le persone: rigenerando luoghi dove sia possibile sentirsi a casa e incontrarsi con gli altri, dove anche i grandi spazi vengano pensati a misura di ciascuno di noi. Prima delle auto, delle moto, delle biciclette e di qualsiasi altro mezzo di trasporto, a muoversi nelle città sono innanzitutto i nostri corpi che, invece, oggi più che mai hanno poco spazio di libero movimento e sono sempre più costretti, sempre più pigiati in ossequio al dio denaro. Basti pensare agli spazi angusti che sperimentiamo quando viaggiamo sui mezzi pubblici, per percorsi di breve o lunga percorrenza. Per rigenerare luoghi, non è necessario proporre progetti faraonici, né spazi nei quali ci si potrebbe quasi perdere: è necessario invece pensare ai cittadini come singoli soggetti che raccontano la propria storia e che hanno bisogno di luoghi educativi dove “imparare a vivere”. Per esempio, non basta mettere qua e là una panchina colorata di rosso per ricordare a chi passa che la violenza contro le donne va combattuta e che al primo posto c’è sempre il rispetto reciproco: tutta la città dovrebbe raccontarlo e raccomandarlo fin dalle fondamenta, dalla strutturazione e costruzione di spazi dove l’odio, la violenza e il disprezzo non trovino appigli, ma subito un soccorso, un’accoglienza, una casa appunto. Al di là del godimento estetico che ci regalano tanti progetti architettonici, occorre che i luoghi transitati dalle donne, dagli uomini, dai ragazzi, dalle bambine e dai bambini siano luoghi vivibili per davvero. Anche i neonati hanno il diritto di vivere pienamente i parchi dei loro paesi e città con luoghi accoglienti, dedicati e facilmente raggiungibili da chi si prende cura di loro.
Probabilmente penserete che siamo dei sognatori… Noi sogniamo, sì. Ma non siamo ingenui. Siamo convinti che solo una pedagogia dei luoghi possa allontanare il più possibile gli orrori che troppo spesso tingono di sangue le nostre città. Siamo convinti sia necessario creare luoghi e “non luoghi” dove una persona accerchiata possa trovare un’ancora di salvezza, dove occhi sicuri (non solo quelli delle telecamere di sorveglianza) possano porgerle una mano; dove una anziana signora possa passeggiare nel parco di fronte a casa senza temere per la propria incolumità.
La città è una casa a cielo aperto solo quando una donna o un uomo, un ragazzo o una bambina possano viverla in sicurezza e serenità. Per questo, ogni luogo dovrebbe essere ricordato e perfino nominato dall’affetto dei cittadini che lo praticano. Quando un luogo è o diventa familiare, sicuro per ritrovarsi o riposarsi, i nostri corpi se ne ricordano e diventa facilmente raggiungibile da tutti.
Anche quest’anno le mie vacanze in un piccolo paese del sud sono state connotate soprattutto dalla compagnia familiare; dalle brioche mattutine col gelato; dal passeggio sul mare; dagli spettacoli teatrali allestiti nella stupenda cornice del parco archeologico di Scolacium, un tripudio di emozioni incorniciate da stelle brillanti sopra le nostre teste e dal frinire dei grilli nel silenzio dell’imbrunire.
«Ti aspetto domattina per fare colazione al Bar Rosso», ci si diceva la sera per poi accorgersi che ormai il Bar Rosso – così chiamato per i tavolini e le sedie che lo arredavano da anni – era diventato di un altro colore. Che dispiacere. Se però capitate lì e chiedete del Bar Rosso, anche se ha cambiato colore, ve lo indicano tutti.
Buon Autunno.