La fabbrica delle parole (casa)

Di PAOLA NAVOTTI

 

«Molti anni fa, mi aveva colpito un’immagine in cui si vedeva un ammasso di stelle e galassie e una freccia che indicava un puntino bianco con scritto: “Voi siete qui”. Allora quest’immagine mi aveva detto qualcosa di importante ma che al momento – ero ancora ragazzino – non avevo capito bene. Ora credo di averla capita un po’ meglio: noi, esseri umani, siamo da qualche parte in un grande universo e nella sua enorme complessità. (…) Da lì dove siamo, da quell’infinitesima areola di universo in cui ci è capitato di essere, agiamo, pensiamo, trasformiamo le cose che ci stanno attorno. Cioè viviamo»[1].
Dove viviamo sta la nostra casa. Qualsiasi azione, pensiero, o progetto, parte dal luogo in cui ab-itiamo, verbo che non a caso ha lo stesso prefisso e radice delle parole ab-itudine, o ab-ito. Un’abitudine è ciò che si ripete quotidianamente; un abito è ciò che caratterizza l’aspetto; un’abitazione è il luogo in cui per lo più si ripetono le abitudini e si decide il proprio abito.
La nostra abitazione però non è solo la casa privata; ma anche lo spazio pubblico – città, o paese – dove a sua volta abita la nostra dimora personale. Qui, negli spazi privati e pubblici che abitiamo, possiamo lasciare il nostro segno: possiamo cioè – a partire da ciò che più ci sta a cuore – cambiarne l’aspetto, farli nascere di nuovo, ripensarli e progettarli addirittura come megafoni di ideali. In una parola renderli più casa nostra.
Casa deriva dal latino casa-ae: parola usata dai Romani per indicare la capanna di legno e paglia in cui vivevano i contadini più poveri, o la baracca costruita dai legionari all’interno dell’accampamento (castrum, non ha caso). Con il termine domus, i Romani indicavano una residenza signorile, così spaziosa da poter ospitare tutta la grande familia. Per questo il capofamiglia si chiamava dominus: signore, padrone di casa. La maggior parte della popolazione cittadina, tuttavia, non risiedeva né nelle domus, nè nelle casae dei contadini. I più poveri delle città romane stavano nei cenacula: stanze affittate all’interno di edifici a più piani (precursori dei nostri condomìni), usate solo per dormire e, appunto, per cenare.
Quando nel VI secolo d.C i Longobardi si stabilirono in Italia occupando militarmente le città, i cittadini romani fuggirono nelle campagne, costruendo quelle capanne di legno e paglia che si chiamavano casae. Questa separazione tra dominatori e sudditi durò così a lungo, quasi trecento anni, che domus divenne una parola lontana dalla realtà dell’esistenza quotidiana; e la parola latina casa iniziò ad indicare non più una baracca improvvisata, ma la casa, l’abitazione stabile di ogni persona. Quel porto sicuro che, anche quando non ci sei, resta ad aspettarti.

 

[1] Cfr. Ezio Manzini, Politiche del quotidiano, Edizioni di comunità, 2018, pp. 7-8.