Un’idea nuova di conservatorio per un’idea nuova di città

Di RAFFAELLO VIGNALI
Direttore scientifico PoliS-Lombardia e Presidente del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano.


Nella primavera del 2019 si è posto il problema di trovare nuovi spazi per il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano. Diversi fattori motivavano a trovare soluzioni: l’avvio di nuovi corsi di popular music (pop/rock), prima assenti dall’offerta formativa dei conservatori, con relativi problemi di spazi e di “convivenza acustica” con i corsi di musica classica; la crescente domanda di iscrizioni (poco più di 600 nel 2018, oltre 800 nel 2019, 1.400 nel presente anno accademico); infine, la volontà di consentire agli allievi di poter rimanere a studiare in Conservatorio, al di là delle lezioni.

La soluzione più comoda sarebbe stata quella di cercare locali in zona (c’erano scuole che stavano chiudendo a pochi metri di distanza). Ma si è deciso di considerare altri fattori. All’epoca, i media milanesi davano ampio spazio al fenomeno del cosiddetto “boschetto della droga” a Rogoredo: la triste processione tra la fermata della metropolitana e il Parco Cassinis, andata e ritorno, di giovanissimi che compravano e consumavano eroina a bassissimo prezzo. Sempre in quel periodo, gli abitanti di Rogoredo protestavano per questa situazione e per lo stato di abbandono di alcune aree ed edifici. Leggendo tali notizie, la scelta è stata immediata: “andiamo a Rogoredo a fare il Bosco della Musica”. Nella consapevolezza che la soluzione di questi problemi non può essere soltanto delegata alle forze di pubblica sicurezza, pur necessarie, ma dipende dalla capacità di offrire ai giovani una attrattiva più potente a quella della droga. Non solo. I conservatori sono generalmente considerati un po’ come delle torri d’avorio, delle isole felici nelle nostre città e, quindi, strutture d’élite. In realtà, pochi sanno che i conservatori si chiamano così perché sono nati negli orfanatrofi. Il primo conservatorio è nato a Napoli nel Seicento da un artigiano che ha raccolto i ragazzi di strada delle periferie per insegnare loro un mestiere (di solito artigiano), per dare loro un futuro; poi, qualcuno ha avuto la straordinaria intuizione di insegnare la musica a chi aveva questo talento, facendo diventare i conservatori come degli ascensori sociali. La nostra scelta di Rogoredo riprendeva questa origine, interpretandola per il contesto contemporaneo e ci ha costretto a recuperare la coscienza che le istituzioni possono – e debbono – contribuire alla crescita della città e del territorio in cui vivono: devono in qualche modo “eccedere se stesse”, uscendo dalla loro comfort zone.

Il progetto[1]
Abbiamo innanzitutto dialogato con il Comune per individuare l’area, poi abbiamo affidato al Politecnico di Milano lo studio del masterplan del progetto, che è stato un importante e intenso lavoro comune di ricerca. La prima scelta era tra due modelli: campus aperto o campus chiuso. Abbiamo scelto decisamente il modello del campus aperto (un’area di verde pubblico con all’interno le funzioni) e sostenibile. Nel campus abbiamo previsto spazi didattici destinati a vari corsi: Popular Music (pop e rock) e Jazz nella Palazzina ex-Chimici, che recupereremo quale memoria del passato industriale di Rogoredo; musica elettronica; laboratori di sound design aperti anche agli studenti che intendono avviare produzioni. Inoltre, una residenza progettata per chi studia e insegna musica, che favorisca la vita comune; un auditorium; una struttura per la musica immersiva: spazi per la formazione di figure legate agli strumenti musicali e di coworking per coloro che intendo avviare nuove attività, spazi che saranno aperti anche alla cittadinanza e alle associazioni, a cominciare dal quartiere. Si stanno ideando anche nuove iniziative formative da avviare nel campus anche in ambiti non tradizionali e con particolare attenzione alla transizione dallo studio al lavoro (tirocinii, un incubatore per liutai, ecc.). Abbiamo avviato e stiamo avviando contatti con i soggetti che intervengono nell’area di Santa Giulia: gli operatori immobiliari; Sky; Fastweb, il leader europeo dello spettacolo dal vivo che gestirà dopo l’evento del 2026 l’Arena olimpica; le imprese che si localizzeranno a Santa Giulia. Ciò anche in vista di nuovi percorsi dalla formazione al lavoro per i nostri studenti. Per realizzare il progetto (l’inizio lavori è previsto a primavera 2024), stiamo dialogando con la comunità locale, di cui vogliamo essere parte per lavorare con tutti ad immaginare insieme il futuro non solo edilizio dell’area; e abbiamo costruito partnership forti con il Comune di Milano, Regione Lombardia, il Ministero dell’Università e della Ricerca e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Quest’ultimo ha messo a disposizione del progetto parte significativa delle risorse necessarie, considerandolo una best practice di rigenerazione urbana. In un suo intervento agli inizi del progetto (2019), l’assessore all’urbanistica del Comune di Milano dava espressione a questa intuizione: «La risposta deve essere far vivere i quartieri di una vita nuova. In questo progetto c’è un’idea nuova di insegnamento, c’è un’idea nuova di servizi rivolti agli studenti. C’è un’idea nuova di conservatorio e c’è un’idea nuova di città…».

Cosa (e chi) rigenera le periferie
In questi anni, a partire da tale esperienza, mi è capitato spesso di approfondire il tema della rigenerazione urbana in riferimento alle periferie, sia attraverso letture, che attraverso la partecipazione a momenti di riflessioni su questo tema. In generale, almeno in Italia, si registra – tra le poche eccezioni, Elena Granata[2] – una riduzione di questa tematica alle sole dimensioni urbanistica e architettonica da un lato, e agli elementi legati alla sostenibilità ambientale, come la mobilità dolce, o all’innovazione digitale (IoT, Internet of Things) dall’altro. Si tratta di elementi importanti e di grande rilievo, ma sono condizione necessaria, non sufficiente.

Alcuni anni fa, la Caritas pubblicò una interessante ricerca sulle periferie italiane – “La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane”[3] – che documentava una serie di casi, tra cui il quartiere Zen di Palermo o quello del Librino a Catania che, pur progettati da note archistar, in pochi anni erano diventati simboli del degrado. In qualche caso, l’amministrazione locale tende a bandire dal lessico la stessa parola “periferie”, preferendo termini come “la città a 15 minuti”. La domanda da porsi, invece, sarebbe non come sostituire il vecchio vocabolo, ma – per dirla con Pasolini – come dargli una semantica nuova, in senso antropologico e culturale, ribaltando la marginalità in valore e l’alterità in conferimento di senso[4].

Diversamente, la letteratura americana affronta il problema da altri punti vista. Spesso gli autori non sono architetti, ma economisti, sociologi, designer. In particolare, numerosi saggi scientifici[5] associano la riuscita dei progetti di rigenerazione urbana delle periferie alle anchor institution, ovvero a soggetti pubblici, privati e non profit che intervengono nel campo della ricerca scientifica e tecnologica, dell’alta formazione e della ricerca medica. Sottolineo solo per un momento l’espressione anchor institution: i soggetti della conoscenza e dell’educazione sono àncore, ovvero simbolo di approdo sicuro e di speranza.

Michael Porter, in un suo saggio molto originale, parla addirittura di vantaggio competitivo delle periferie[6]. L’economista analizza diversi casi di rigenerazione di periferie urbane attraverso l’insediamento di imprese e coglie una invariante: hanno avuto successo i progetti nei quali una parte dei dipendenti si è insediata nello stesso quartiere; dove ciò non è accaduto, i progetti sono falliti in breve tempo. Tale spunto introduce quella che ritengo essere la condizione necessaria per la rigenerazione urbana delle periferie: cultura ed educazione. I soggetti funzionalmente preposti a queste giocano un ruolo decisivo nei processi di rigenerazione delle periferie urbane, perché sostengono la formazione del vero e insostituibile soggetto della rigenerazione urbana: la comunità. Questa idea era molto chiara in Italia nell’immediato Secondo Dopoguerra; era una delle basi del cosiddetto Piano Fanfani (Piano INA-Casa, 1948-1963), che hanno dato forma a molti dei quartieri delle nostre città, laddove c’erano baracche, discariche di rifiuti e distese di orti. Erano un modello di nuova edilizia popolare, caratterizzato da un’urbanizzazione non intensiva, con fabbricati non troppo alti e spesso immersi nel verde. Ma soprattutto i piani prevedevano in queste città satellite la presenza di scuole, di luoghi di aggregazione, di chiese; cioè, di luoghi della comunità, in cui la vita morale potesse essere educata e sostenuta. All’inaugurazione di uno di questi nuovi quartieri, quello dell’Isolotto a Firenze, il Sindaco La Pira pronunciò un discorso molto eloquente dal titolo “Non case, ma città”. Gli faceva eco nella stessa occasione Piero Bargellini che, dopo aver distinto i concetti di urbs e civitas, affermava: «Città, sempre città, perché le città sono la testimonianza tangibile d’un legame sociale, di una convivenza civile, d’un’unità tra gli uomini, che nelle case abitano e nelle città invece vivono, cioè fan parte d’un organismo…»[7].

C’è da chiedersi se questa consapevolezza persista ancora oggi. O se, invece, le nostre periferie – e non vi è differenza se popolari e/o degradate o gendrificate (trasformate da quartieri popolari in zone abitative di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale) – non assomiglino di più alle città invisibili dei dialoghi tra il Gran Kan e Marco Polo narrati da Italo Calvino. «Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. Dice: “Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”». Ma non è un destino ineluttabile, come spiega nella sua replica Marco Polo: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e dargli spazio, e farlo durare»[8].

Conclusione (tutt’altro che conclusiva)
Il progetto di Rogoredo riuscirà se la comunità del Conservatorio saprà diventare parte viva e attiva della comunità locale e se così, insieme ad essa, saprà immaginare il futuro come fatto culturale, secondo la bella espressione dell’antropologo Arjun Appadurai[9].

Tra il sicuro cullarci sul nostro grandissimo patrimonio del passato, o il rischiare di investirlo perché diventi oggi ricchezza per tutti, abbiamo optato per la seconda ipotesi, perché “quello che non è inferno”, se non si rinnova, inesorabilmente diventa a sua volta inferno. Anche le istituzioni, se – in qualche modo – non tornano ad essere quello che erano all’origine, ovvero movimento di risposta ai bisogni di una comunità. La sfida per le istituzioni oggi è di essere in uscita. A cominciare da quelle che hanno la loro missione sul fronte educativo. E, per quelle come noi, che hanno la fortuna di educare alla bellezza, l’uscita è un imperativo categorico.

Rendering Bosco della Musica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note
[1] https://www.consmi.it/it/645/avvisi/7867/il-bosco-della-musica

[2] Cfr. Elena Granata:

[3] Cfr. Caritas Italiana, La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il Mulino, 2007.

[4] Cfr. Martino P., Verbaro C., Pasolini e le periferie del mondo, Edizioni ETS, 2016.

[5] Si segnala in particolare:

  • Patterson K. L., Silverman R. M., Schools and Urban Revitalization. Rethinking Institution and Community Development, Routledge, 2014.
  • Porter M., Inner-City Economic Development: Learnings From 20 Years of Research and Practice, in “Economic Development Quarterly”, May 2016, pp.105-116.
  • Taylor H. L., Luter G., Anchor institutions: An Interpretive Review Essay, Conference on anchor institutions on December 10, 2013 in Baltimore, Maryland.

[6] Cfr. Michael Porter, Anchor Institutions and Urban Economic Development: From Community Benefit to Shared Value, Inner City Economic, Forum Summit 2010 October 26th.

[7] Cfr. Giorgio La Pira, Piero Bargellini, Non case, ma città, 1954: https://www.comunitaisolotto.org/wp-content/uploads/2021/09/non-case-ma-citta.pdf

[8] Cfr. Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972.

[9] Cfr. Arjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina Editore, 2021.