Festa del lavoro: cosa festeggia chi è giovane?
Di REBECCA CONTI
Qualche giorno fa un amico mi ha consigliato un podcast. Si chiama Essere grandi-perfetti o felici condotto da Barbara Stefanelli e basato sull’omonimo libro della psicoterapeuta Stefania Andreoli.
Nelle sei puntate il podcast fa luce sui vissuti e la quotidianità dei così detti “giovani adulti”, cioè quei ragazzi tra i 20 e i 30 anni, che usciti dall’adolescenza si apprestano ad affrontare un mondo che presenta sempre più sfide. Tra vari temi trattati-famiglia, sesso, relazioni-il podcast dedica molto spazio al lavoro, in quanto campo fondamentale per la realizzazione dell’individuo.
In mezzo alle molte crisi di questi tempi, infatti, i giovani adulti si trovano immersi in una realtà che sta cambiando profondamente il loro rapporto con il mondo del lavoro, relazione che sta diventando molto più flessibile e dinamico. È norma studiare e lavorare insieme, anche dedicandosi a lavori totalmente fuori dal proprio campo di studi e non capita di rado che i ragazzi di oggi abbiano anche più di un lavoro per integrare il guadagno che deriva dal primo. A prescindere dal periodo di formazione e magari di studio, quando arriva il momento di dedicarsi al mondo del lavoro, i ragazzi ne sono a buona ragione, spaventati. La difficoltà ad affermarsi e a trovare qualcosa che permetta di condurre una vita dignitosa, o che si ponga in continuità con tutti gli anni spesi a studiare, si sente.
L’impossibilità di fare programmi, istinto insito nella natura umana, crea alienazione e smarrimento, tant’è che ci si chiede quale sia davvero il proprio posto nel mondo. Sapere di offrire qualcosa in cui si crede alla società e “sentirsi contributivi” rappresenta difatti il sentire chiave per lo svolgersi di una quotidianità funzionale e diretta al nostro benessere e alla nostra serenità.
Oltre che un sistema basato sulla “performance”, il sistema con cui tanti i giovani si trovano a fare i conti è quello dominato dalle -talvolta schiaccianti-aspettative altrui.
Questa complessità viene a galla soprattutto nel campo del confronto tra generazioni profondamente diverse: quelle dei giovani adulti e dei loro genitori. Nella generazione dei genitori contemporanei si tratteggia una tendenza sempre più diffusa, nonché quella di vedere i figli come una proiezione di tutto ciò che è stato dato a loro. La logica malsana e sottesa che ci sta inconsciamente dietro è: perché non fai un bel lavoro dopo tutto quello che abbiamo fatto per te? Questa dinamica porta con sè il seme del senso di colpa: la frustrante sensazione di non essere abbastanza nonostante abbiamo avuto tutto.
Ciò si riflette in un incessante e tenace desiderio per un “lavoro dei sogni”, un ambizioso obiettivo a cui tendere e su cui investire tutte le proprie forze e la propria motivazione. Ma cosa succede quando questo sogno non è poi così definito? Cosa accade quando da giovane adulto alla domanda “cosa vuoi fare da grande” non si ha ancora una risposta?
Siamo poi così sicuri che la formula del “sogno nel cassetto” sia l’unica auspicabile? Forse dati i tempi di oggi, questa visione può e deve essere modificata. E’ entusiasmante e nobile avere un obiettivo definito a cui tendere, ma ci sta anche avere dele incertezze. Ci sta anche che le circostanze e le possibilità concrete ci facciano cambiare direzione. Va bene se il nostro sogno così precisamente visualizzato e per-fetto passi dall’essere una rigida prescrizione ad una possibilità flessibile, rinegoziata, ripensata alla luce della propria crescita e delle situazioni contingenti.
Il clima di precarietà contemporaneo porta di certo con sé molto disagio e sofferenza, ma sta anche rivoluzionando profondamente il rapporto tra giovani e lavoro, e non solo in negativo.
E se fosse che giovani di oggi, facendo di necessità virtù, stanno lentamente trainando verso una trasformazione e un cambiamento positivo del modo di intendere il lavoro?
In quest’ottica la diversità delle esperienze sperimentate diventa un valore. Avere una “storia lavorativa” spezzettata permette prima di tutto di sperimentarsi in contesti anche molto diversi tra loro, dalla cameriera, alla hostess, al lavoro di ufficio… Conoscere persone diverse, imparare un mestiere ed essere Uno in molte vesti: cosa può essere se non una ricchezza?
Da un punto di vista educativo, si creano certamente delle personalità uniche ed irripetibili, una somma di tutte quelle esperienze “da rifare” o “da evitare” che plasmano una narrazione personale senza uguali.
Un altro punto di svolta che caratterizza i giovani adulti è il cambiamento del modo di in cui percepiscono se stessi a lavoro e di quello che sono disposti a sperimentare.
I millenials prima e la generazione z poi sono caratterizzati da una spiccata attenzione per la salute mentale legata al lavoro-con il famoso obiettivo del work-life balance– e per gli effetti del proprio lavoro in termini di sostenibilità ambientale. “Non si può volere tutto” potrebbe dire qualcuno. “Ma perché il lavoro deve essere sofferenza?” dicono i giovani.
Sì alla fatica, sì all’impegno e al duro lavoro, sì alla passione, all’ostinazione e alla persistenza ma banalmente no alla rinuncia di se stessi, no all’assorbimento totale e no allo sfruttamento.
La narrazione “da bar” secondo cui i giovani “non vogliono impegnarsi”, svilisce e ignora le potenzialità di un cambiamento di prospettiva. I giovani di oggi possono essere portavoce di straordinarie idee, invenzioni e progetti nel mondo del lavoro e soprattutto essere un esempio di modi nuovi e creativi di relazionarsi con una complessità con cui tutti dobbiamo fare i conti.