Al volontario basta essere volonteroso?

Di FRANCESCO TAGLIABUE
Produttore creativo per il cinema e la serialità tv

Il carcere è un deposito di lontananze stivato di vicende drammatiche che spingono per loro forza naturale al racconto. Sono vite segnatamente “altrui” che generano la capacità magnetica di portare domande divisive.

La prima: perché tu qui e io no? In fondo, fino a una certa età, tutti godiamo di identiche cornici protettive. Famiglia, parenti, scuola, parrocchia costituiscono il normale vaccino contro il contagio di esperienze fuorvianti. Ma in quale momento e per quali concause il percorso si separa dal piacere per l’ordine quotidiano e sceglie il rifiuto di ogni barriera? Oltre le apparenze, questo può fare di “loro” e di “noi” due incomunicabilità? Quando scegli di entrare da volontario nel carcere per un forte sentimento di solidarietà, sei stato prima formato a un modulo di comportamento che giustifichi la tua decisione agli occhi interrogativi del detenuto? Se ti interrogassero, avresti una risposta razionalmente accettabile? Sai che il carcere è un deposito di cultura delle relazioni che impone un’adeguata capacità di confronto e di risposte? Senza una preventiva formazione, pensi che al volontario basti essere una persona volenterosa?

Il carcere è un antico progetto tutto politico che colleziona un album antropologico utile a riflettere sul caos e sul comune bisogno di normalità. Contiene anime che ci avvicinano alla traduzione sociale di frustrazione, abbandono, emulazione, obbedienza, ribellione, violenza, cinismo e persino onore, una vecchia parola in disarmo e quasi sempre fraintesa. In casi abbastanza numerosi, assomma senza criterio selettivo storie di persone che sanno di dover pagare perdendo in libertà, ma che non vogliono arrendersi senza tentare un riscatto. Perché in carcere ci va chi, sapendo di avere sbagliato, si assume la responsabilità di pagare l’errore nei modi che gli vengono imposti dall’ordine costituito: l’onere del nostro giudizio si trasferisce sul loro obbligo di rimborso dei danni, che vengono misurati in tempo. Quando la colpa è un guasto invalutabile, nessuno possiede abbastanza tempo per ripagare, e il registro contabile viene timbrato con la scadenza al 31 dicembre 9999.  Noi giudicanti e loro giudicati siamo perciò “pari & patta” senza spazio per discriminazioni di alcun genere.

Su simili consapevolezze frammentarie, ho affrontato un’esperienza di volontariato al carcere di Bollate, istituto simbolo di reclusione rieducativa dove le pene non si scontano a porte chiuse. La sperimentazione di un modello speciale di detenzione che, per scelta della donna straordinaria che l’ha voluta, applica il criterio del minor abbandono del recluso, esigerebbe altrettanta qualifica di “speciale” per chi organizza dall’esterno iniziative di assistenza o di animazione. Ma nella mia personale esperienza di volontario chiamato da una zelante associazione ad offrire medicamenti culturali da banco, ho scoperto piuttosto di essere bisognoso di profilassi preventiva. Ho confrontato la straordinaria vitalità dei reclusi con la polverosa vecchiezza del volontariato d’antan, educato a non porsi domande oltre lo slancio che partorisce il gesto e che culmina nel paradosso della buona volontà: facile paternalismo e pretese educative senza adeguate radici formative traducono l’intervento dall’esterno in medagliette al valor dell’effimero, mentre finiscono per sottrarre il tempo del detenuto a un costruttivo silenzio interiore.

Allora, c’è spazio per altre domande: è pertinente alle esigenze che il carcere pone il campionario di risposte random di cui dispone l’operatore volontario delle associazioni? E una volta pronto a separarsi dalle convenzioni dei luoghi comuni, con quale diritto il volontario esterno può concretamente partecipare a percorsi rieducativi per i detenuti? Quale antibiotico della sua farmacia può curare la malattia culturale e spirituale del disordine?

Negli ultimi sei anni – a parte i mesi orribili della pandemia che resero impossibile la frequentazione dell’istituto – ho provato a ragionare sul mio improvvisato diritto di offrire ai detenuti una valida promessa di futuro. Che rappresenta il semplice “tutto” di quel che chiedono.

Vivo professionalmente da sempre il mondo della comunicazione, e sono convinto che nessun luogo più di un carcere sia contiguo alla libertà dei media: questi ultimi rappresentano lo spiraglio per riflettere sul tempo e sulla storia, per conoscere le diversità, per educarsi a relazioni che dovranno avere “dopo” un’impronta spontanea di reciproco rispetto. Indicano il piacere per il dovere e per la riconquista piena dei diritti.

Ho verificato che l’esperienza condivisa con un gruppo di detenuti a Bollate sulla conoscenza e l’utilizzo dei media – la televisione e il cinema, in particolare – ha sviluppato suggestioni che portano a ragionare sul giusto e l’inaccettabile, a scrivere “parole” che non temono i muri perché varcano ogni barriera. I messaggi da “fuori” lasciano il segno “dentro”, e da dietro il muro escono promesse di cambiamento perfettamente calate nel possibile.

Tra tutti i media, cinema e televisione possono insegnare che la fusione tra arte, finzione e realtà – nel rappresentare esempi di trionfi, di sbagli e di cadute – forma il tracciato paradigmatico dell’esistenza. In fondo al quale, un happy end è sempre augurabile.

Mi manca una formazione specifica da educatore, ma ho avuto la presunzione di raccogliere la sfida che il carcere mi ha posto, chiedendomi di condividere vicende umane complesse. Il vissuto e la passione professionale mi aiutano a filtrare razionalmente la spinta emotiva che mi attende varcando la sbarra e a trovare parole ragionate nei pomeriggi con i detenuti.

Poca cosa, probabilmente, in attesa che menti e cuori competenti creino un percorso per costruire interventi di volontariato più educati e più efficaci.