Lettera da “fuori” a “dentro”: da parte di Federico (80 anni)
Di FEDERICO NAVOTTI
Caro bimbo,
ci siamo incontrati 63 anni fa al carcere minorile Beccaria di Milano. Purtroppo non ricordo il tuo nome, ma tutti gli altri particolari sì e non li scorderò mai: se chiudo gli occhi, rivivo ancora le emozioni di quel pomeriggio passato insieme. Tu avevi circa 12 anni e io ne avevo 17. All’epoca giocavo a pallacanestro nella squadra dell’oratorio, il cui campo aveva un fondo di catrame così ruvido, che nessuna caduta ci risparmiava da sbucciature e abrasioni. C’erano però anche i canestri con le retìne adeguatamente rammendate da qualche anima buona, e per noi “pulcini” questo era tutto! La squadra si faceva onore soprattutto grazie alla passione del nostro allenatore, Chicco, che sacrificava molto del proprio tempo libero per insegnarci i fondamentali del gioco.
Durante un allenamento – erano due a settimana, entrambi di sera – Chicco ci comunicò che avremmo giocato una partita amichevole contro i detenuti ospiti del Beccaria. Ogni volta che si presentava l’occasione di giocare una partita in più, noi eravamo felici e dunque lo fummo anche allora, seppur non ci rendessimo subito conto di che esperienza sarebbe stata.
Arrivò il fatidico pomeriggio.
Il carcere minorile a quell’epoca era in piazza Filangieri, proprio dirimpetto a quello degli adulti, il San Vittore. Appena arrivati, l’eccezionalità di una situazione che non avremmo potuto immaginare prima, si impose con forza: l’ingresso era buio e tetro e, dopo i rituali controlli, fummo circondati da numerosi ragazzi e ragazzini che ci chiedevano qualche spicciolo e, soprattutto, le sigarette. Tu eri uno di loro. Ti ricordo come se fosse ora: il tuo sguardo incrociò insistentemente il mio e mi sfiorasti la mano mendicando una sigaretta. Al mio diniego, giustificato dal non essere un fumatore, facesti un gesto di delusione: evidentemente, fumare era un fatto così consuetudinario all’interno del riformatorio, che per te doveva essere a dir poco inaudito che io non fumassi.
Venimmo accompagnati nello spogliatoio. Al momento di uscirne, guardammo i nostri avversari e fummo presi da un forte senso di disagio: noi in ordine con la tuta e le scarpette; loro abbigliati tutti diversi e alla meglio. Prima del fischio di inizio, il mio sguardo si soffermò sul piano rialzato e laterale rispetto al campo di gioco, da dove alcuni detenuti seguivano la partita dietro le sbarre: erano ragazzi in punizione a cui non era stato concesso di assistere da bordo campo. Vedo ancora le loro mani che spuntavano dalle sbarre.
La partita cominciò, ma evidentemente era molto diversa da tutte le altre. Una grande sensazione di ingiustizia mi attanagliava: perché noi sì e loro no? Che storie avranno avuto? Quali dolori, quali desideri, quali speranze? E più passava il tempo, più su tutte queste domande ne prevaleva una: cosa fare per dare un aiuto concreto a questi ragazzi? Difficile rispondere, allora come oggi.
Di una cosa però, allora come oggi, sono certo: per la prima volta non ho gioito, pur avendo vinto. Come vorrei, oggi, non aver vinto! Come vorrei che aveste vinto voi e che, tornando nelle vostre celle, aveste almeno un pochino festeggiato e sentito una fiducia in più per andare avanti e, chissà, per iniziare tutto da capo.
Dopo quel pomeriggio, tornammo al Beccaria altre volte, per altre partite, ma non ti ho visto più, caro bimbo. Non saprò mai che ne è stato di te negli anni a venire; ma sono strasicuro che, se dovessi rincontrarti, ti riconoscerei e ricorderei anche il tuo nome.
Spero con tutto il cuore che oggi, vecchierello un pochino meno di me, tu possa guardare fuori dalla finestra come me.
Ti abbraccio, bimbo, con affetto grande.
Federico