CONNIVENTI E CORREI: LI ABBIAMO PROTETTI E IN PARTE UCCISI

Di ANNA PAOLA LACATENA
Sociologa presso il Dipartimento Dipendenze Patologiche ASL TA e coordinatrice del Gruppo “Questioni di genere e Legalità” per la Società Italiana delle Tossicodipendenze (SITD).

 

Un adolescente, una famiglia, un fatto di cronaca nera sul finire dell’estate. Il primo è ora ristretto presso il Carcere minorile Beccaria di Torino, la (sua) famiglia non c’è più, il giornalismo da crossbody continuerà a sguazzarci ancora un pò, l’estate prosegue.
Si accumulano confusamente domande su un nuovo, ma terribilmente già visto.
Dal 13 novembre 1975 a Vercelli al 4 agosto 1989 a Parma, dal 17 aprile 1991 a Montecchia di Crosara (Verona) al 21 febbraio 2001 a Novi Ligure e così, tristemente, sino a Paderno Dugnano, qualche giorno fa.
Come si può? Come si fa? Cosa smette di funzionare? Come si arriva alla totale assenza di empatia e pietà nei confronti di un altro essere umano, per di più genitore e fratello?
Pensarci e ripensarci, senza che qualcosa di razionale dentro, di morale, di umani freni quel proponimento, come può essere possibile? Un colpo dietro l’altro, eliminando ogni possibile coscientizzazione che non sia solo interrogarsi sui freddi tecnicismi di un pluriomicidio, cosa smette di funzionare, si disattiva, si spegne?
Per il cinismo prêt-à-porter sarebbe, almeno parzialmente, un sollievo sapere che a colpire è stata la mano di un immigrato o quella di un malato psichiatrico, di un dipendente patologico, di un criminale e di altri rappresentanti di categorie dalla consueta e condivisa stigmatizzazione.
E invece lo sgomento e l’angoscia di constatare che si tratta di una cittadina come tante, di un ragazzo come tanti, di un nucleo familiare come molti altri.
Le vacanze, la scuola, lo sport, gli amici, la famiglia. Quella stessa famiglia che nella mente dei più è riparo, conforto, sicurezza, è ora percepita come minaccia, insidia, soggezione, diffidenza, limitazione.
In Italia, secondo il primo rapporto Omicidi in Famiglia (2019), stilato dall’ EURES Ricerche Economiche e Sociali, il 43 % degli omicidi viene commesso tra le mura domestiche, percentuale che al Nord diventa uno su due. Il primato negativo è della Lombardia.
In generale gli omicidi sono in diminuzione. Una tendenza consolidata, in Italia e nei Paesi con caratteristiche sociali, economiche e culturali simili. Si riducono i delitti maturati nei contesti della criminalità organizzata, continua a crescere il numero di omicidi in famiglia.
Secondo gli ultimi dati del Ministero degli Interni, nei primi otto mesi del 2024, sono stati compiuti in Italia 186 omicidi e di questi 88 sono avvenuti in ambito familiare (circa uno su due).
Non si tratta di un raptus maturato nel corso di una lite – “era tutto il giorno che stavo covando questo pensiero”, La Repubblica del 3 settembre 2024 riporta le parole pronunciate nel corso dell’interrogatorio del diciasettenne -, non è facilmente comprensibile un movente secondo il quale, uccidendo la propria famiglia, si possa vivere “in modo libero, in solitario”.
Si affastellano le considerazioni dei vicini e conoscenti, sollecitati dall’irritante stoltezza di alcune domande pronunciate sotto l’occhio vigile e addolorato di conduttori televisivi, specializzati in drammi quotidiani: «Era una famiglia normale…», «Mai avremmo potuto pensato potesse accadere una cosa del genere…», «nulla faceva credere…», «sembravano così felici…».
Non c’è una risposta, men che meno la risposta. Come per ogni questione complessa sarebbero necessarie analisi più complesse, a cominciare proprio dalla famiglia.
Né migliore né peggiore di ciò che è stata in passato, dunque, ma semplicemente diversa perché diverso è il contesto.
Non è ben certo se i tanti cambiamenti consumatisi nel tempo all’interno dell’istituzione più amata, desiderata e, non di rado, controversa, siano sintomi di disgregazione con produzione di gravi conseguenze sugli adulti del futuro o se, al contrario, il dissolversi delle forme più tradizionali, genererà – restiamo in attesa – ambienti più gratificanti con maggiori possibilità di realizzazione personale.
Certo è che la famiglia sia un’entità sempre più flessibile ma probabilmente anche più astratta, pur continuando, in tutta la sua frammentarietà, a conservare un ruolo prevalente come luogo dell’intimità tra adulti, della riproduzione e della cura dei figli.
Non è la densità delle maglie della trama a creare la relazione, però.  È la scomparsa di quest’ultima a dover essere annoverata tra le cause della morte del mondo personale, declinato dall’eccesso dell’immaginario del consumo spinto e dell’affettività inquieta e a tempo. Non è una sponda sicura quella dei comportamenti convenzionali e standardizzati, così come pericolosa e illusoria è la gratificazione del narcisismo almeno. Certa, reale e costantemente alimentata è la paura dell’Altro e dell’essere con e per l’Altro, come reale prova della propria esistenza.
Senza l’Altro, l’Io non esiste e diventa inimmaginabile pensare la propria vita. Nell’assenza di sperimentazione di sé, si struttura un basso grado di autostima, seguito da sentimenti di vergogna e di rimorso.
Se per il bambino parliamo di attaccamento «sicuro», dove l’aggettivo «sicuro» qualifica la relazione con specifiche figure (madre, genitori), per l’adulto «sicuro» fa riferimento ad uno stato mentale che nega l’attaccamento come possesso e lo qualifica come relazione. “Sicuro” non è dipendente, così come “libero” non è indipendente.
Liberarsi della figura dei genitori è un meccanismo interiore, una tappa necessaria, profondamente simbolica. È il passaggio all’età adulta che solo una psicopatologia, o un disadattamento socio-culturale, può leggere come soppressione fisica. Per assurdo, quest’ultima renderà impraticabile ogni reale possibilità di affrancamento dalla figura genitoriale.
Se non riesco a liberarmi di te nella dimensione interiore e profonda, allora lo faccio fisicamente, oggettivamente, con la determinazione di chi si pone dinnanzi al dilemma “o io o te”.
Non è l’esposizione ad internet, il frequentare i social, il bisogno di visibilità, è piuttosto una società che ha fatto dell’età adulta una soglia priva di appeal, una dimensione di difficile accesso dove la relazione – e, dunque, la famiglia – è narrazione di relazione e contatto e non responsabilità e presenza reale.
Intorpidimento depressivo, mancanza di strumenti, incapacità di reggere la frustrazione, strategie di coping disadattive, spettacolarizzazione del privato tutti elementi – ma non i soli – che contribuiscono al manifestarsi di esplosioni di violenza, febbrile ricerca di emozioni forti, rabbia.
Adultizziamo i bambini, cedendo al farsesco e infantilizziamo gli adolescenti, “proteggendoli” dall’Altro e dalle regole. Nel desiderio di lastricare il loro cammino di petali di rose perché nessun tipo di sofferenza lambisca le loro sponde, li induciamo a non sentire, a non partecipare, a non provare emozioni.
Non è resistente chi non sperimenta mai la realtà ma chi la attraversa fino in fondo anche e soprattutto grazie al suo bagaglio fatto di parole, sentimenti, percezioni, sensi, simboli, ecc.
Non entrano i bambini negli ospedali, non li portano da un parente malato, non partecipano ai funerali… andrà tutto beneè il mantra trito e ritrito, precedente alla pandemia da Covid-19.
È un bluff.
Non andrà tutto bene.
La vita non sempre è generosa e questo, nonostante le possibili apparenze, per tutti.
Spesso, anche contro la nostra volontà dovremo salutare qualcuno che per sua decisione o per legge naturale deciderà o sarà costretto ad andare via.
La mancata simbolizzazione di una mancanza rischia di banalizzarla, di rimuoverla, di offrire l’opportunità di dissociarsene con freddezza. Non si comprende il dolore se non lo si conosce, non gli si attribuisce un nome e un sentire. Se quello stesso dolore non è mai stato visto ma solo continuamente allontanato, negato, vituperato, allora continuerà ad agire in silenzio e a detrimento della persona che di inconsapevolezza continuerà ad alimentarlo.
Al bambino viene chiesto di decidere per tutti, all’adolescenza di non decidere quasi nulla.
Al primo gli si da il cellulare per restare sempre in “contatto”, al secondo lo si sottrae, angosciati all’idea che potrebbe diventarne – in uno aspecialistico slancio clinico – dipendente patologico.
Gli adolescenti cercano e necessitano di punti di riferimento coerenti e rispettabili – autorevolezza cercasi in molti settori – di nessi e attinenze culturali chiari e in sintonia con la direzione reale della crescita che raramente è ondivaga o procede a ritroso. Il mondo degli adulti dovrebbe dare segnali più decisi di partecipazione responsabile e stimabile, muovendo verso il riconoscimento e la risonanza tra agenzie educative (scuola, famiglia, ecc.).
Abbiamo posticciamente cercato di proteggere gli adolescenti e, invece, almeno in parte, li abbiamo uccisi.