Scelti per voi (Libri per tutti)
Rubrica a cura di CLAUDIA ALEMANI
Laura Lippman
La ragazza del ballo
Bollati Boringhieri editore, Torino 2023, pp. 270, € 18,00
Un passato da cancellare e un futuro che forse ha ancora qualcosa in serbo. Con questo spirito Amber Glass torna a Baltimora, sua città natale, da cui era fuggita vent’anni prima, dopo che un episodio agghiacciante aveva segnato indelebilmente i suoi sedici anni, bollandola come l’adolescente accusata di aver ucciso il suo bambino, partorito prematuramente e morto per soffocamento in una camera dell’albergo che ospitava il ballo di fine anno scolastico. Il suo ragazzo Joe, che l’aveva accompagnata al ballo, non era presente al momento dei fatti ed era uscito pulito dalla tragica vicenda. Amber, invece, aveva trascorso due anni in un istituto correttivo per minorenni, seppellendo per sempre quella ragazzina timida, introversa, spaesata e confusa, tanto brava a scuola, ma altrettanto sprovveduta sulle questioni pratiche della vita, tanto ingenua da non aver capito di essere incinta e da essersi convinta che Joe avrebbe finito con l’innamorarsi di lei.
Uscita dall’istituto, si era ricostruita una vita trasferendosi prima in Florida, poi a New Orleans, dove aveva iniziato a lavorare, con discreto successo, come gallerista e talent-scout di artisti visionari ex-detenuti.
Tornata quindi a Baltimora, per entrare in possesso della cospicua eredità del patrigno, Amber non può fare a meno di chiedersi come sarebbe stata la sua vita qui se non fosse deragliata in quel modo brutale. Decide quindi di darsi una seconda possibilità, di rimanere in città e di aprire una galleria in centro. Ora è una donna matura, indipendente, sicura di sé, resa astuta e diffidente dall’esperienza vissuta. Nonostante la sua ferma determinazione a tenersi lontana da Joe, non riesce a frenare l’impulso di mettersi sulle sue tracce attraverso i social e scopre che è diventato un ricco e brillante uomo d’affari nel campo immobiliare ed è felicemente sposato con Meredith, una chirurga plastica affermata, donna bella, intelligente, molto rigorosa.
In un susseguirsi di salti temporali che spaziano dal maggio 1997 (data del ballo) agli anni 2020/21 (quelli della pandemia, che, pur restando sullo sfondo, riveste un ruolo non del tutto marginale), l’autrice ci accompagna nelle vite passate e presenti delle protagoniste e del protagonista, indagandone i pensieri, le emozioni, le relazioni, le contraddizioni, lasciando però sempre un margine di ambiguità che disorienta.
Joe, malgrado l’apparenza, è un uomo debole, privo di personalità, ossessivamente legato alla moglie da un rapporto di interdipendenza e incapace di esserle fedele. Ha un’amante, Jordan, donna molto affascinante, egoista e possessiva. La loro relazione, all’inizio molto appassionata e coinvolgente, sta ora diventando troppo ingombrante e Joe vorrebbe troncare, senza però riuscirci sino in fondo. Meredith sembra perfetta, moglie innamorata, gentile e premurosa, professionista impegnata, molto attenta alla salute avendo superato, in passato, una grave malattia che le ha lasciato alcune fragilità.
Quando, inevitabilmente, ma non proprio per caso, Amber e Joe si incontrano, è fatale che vengano attratti uno dall’altra e, sospinti dai ricordi, dai sensi di colpa, da un inconfessato desiderio di riscatto, iniziano una relazione, segreta ed esclusiva, che li porterà ad una svolta senza possibilità di ritorno.
Potrebbe sembrare un romanzo d’amore, ma in realtà si tratta di un noir dall’atmosfera cupa che trasuda negatività. A parte alcuni passaggi, forse un po’ prolissi, l’autrice infonde alle pagine una tensione costante, subdola e sottile, che serpeggia tra le righe e non ci lascia tranquilli. La sensazione è che qualcosa non torni, qualcosa di non detto, sfuggente, equivoco, inquietante, una pulce nell’orecchio che ci tormenta sino all’incalzare degli ultimi capitoli ed al guizzo di giallo finale, in cui la verità viene alla luce rivelando il lato oscuro di tutta la vicenda.
Una storia crudele in cui nessuno è innocente. E anche se alla fine Amber, finalmente libera dal passato, sembra riprendersi in mano la vita ed avviarsi verso un nuovo inizio, viene il dubbio che sia l’ennesima bugia costruita ad arte, per convincere se stessa che una redenzione è ancora possibile!
Carla Franciosi
Daniele Novara
Non sarò la tua copia. Liberarsi dei pesi dell’infanzia per costruire la vita che desideriamo
BUR Rizzoli, Milano, 2024, p.224, € 16,00
Anche questo, come gli altri libri di Novara che ho letto, è per me fonte di apprendimento, cioè di riflessione su me stessa e di cambiamento. E, come ogni volta in cui in un testo dell’autorevole pedagogista trovo spunti di crescita personale, mi viene il desiderio di suggerirne ad altri la lettura.
Non sarò la tua copia si può concretamente utilizzare sia per conoscere sia per conoscersi: si comprende un interessante punto di vista pedagogico e si comprende la nostra storia dal punto di vista dell’educazione ricevuta.
I percorsi suggeriti possono essere anche faticosi nell’indicazione di strade per metterci in discussione, ma gli esiti non possono che essere positivi, perché si costituiscono come una tappa significativa del nostro percorso di crescita personale. Un percorso che non ha mai fine nella vita di ciascuno. Questo libro è di fatto un testo sull’educazione degli adulti e non c’è un’età limite per potersi “liberare” da qualcosa che, necessariamente, ci portiamo appresso dagli inizi della nostra vita, cioè quello che Novara definisce il «copione educativo». «Il copione non è un modello educativo, ma una consegna, una sorta di prescrizione che ti grava addosso e ti accompagna… Lo si può definire un lascito permanente». Un lascito che non va negato, ma riconosciuto e superato nelle parti che ci impediscono di essere noi stessi. Non abbiamo responsabilità sul come siamo stati educati, ma abbiamo quella di rivedere, capire e andare oltre «il modo in cui ci hanno voluto costruire» compiendo scelte personali.
Di aiuto al lettore è la proposta di più momenti di esercizio personale per la riflessione sul proprio percorso di vita e la propria trasformazione in rapporto all’educazione ricevuta: presenta aspetti di un copione educativo mettendone in parallelo caratteristiche e prescrizioni conseguenti; invita a provare a dare un nome al proprio copione educativo; mette in relazione nuclei di imprinting con possibili applicazioni; suggerisce di provare a scrivere una lettera ai propri genitori, che definisce «catartica».
Vengono poi schematizzati in una tabella i possibili modi di rielaborare l’educazione genitoriale: una «rielaborazione passiva», per cui non si vede perché cambiare quello che ci è sembrato andar bene; una «rielaborazione speculare», per cui si cerca di agire in modo contrapposto alle prescrizioni ricevute; una «rielaborazione consapevole», per cui si sceglie di «utilizzare al meglio l’educazione ricevuta attuando cambiamenti dove necessario».
E sono questi dei possibili percorsi che affronta chi si occupa di educazione: la riflessione sul proprio copione educativo è percorso augurabile per i genitori, ma anche per altre figure educative, come gli insegnanti.
La scuola, oltre alla famiglia, è luogo formativo importante, nel quale, secondo Novara, dovrebbe essere ben più presente la riflessione pedagogica. Gli insegnanti, così come i genitori, non dovrebbero semplicemente riproporre la strada dei loro docenti, ma «cercare aggiornamenti e informazioni, mettersi in discussione» per attuare un consapevole percorso di cambiamento.
Il messaggio essenziale del libro può essere riassunto in questa frase dell’autore: «Crescere sempre, imparare tutta la vita, educarsi anche da grandi costituiscono un modo per riscattare i copioni educativi, adattandoli al loro nuovo ruolo di genitori e educatori».
Interessante è infine trovare nell’appendice al testo diversi esempi di come l’educazione dei bambini cambi nel tempo, abbandonando via via atteggiamenti prevaricativi per sostituirli con metodi idonei alla visione dei bambini come «esploratori». «Proprio l’abbandono di queste ignobili prevaricazioni verso i bambini e le bambine, incautamente definite metodi educativi, fa pensare che l’educazione dei figli sia il parametro più rigoroso che segnala l’evoluzione civile di una società».
Margherita Mainini
Sergio Tramma
Il lavoro educativo. Prassi, prospettive e criticità
Carocci Editore, Studi Superiori, Roma 2024, pp. 171, € 19
Perché scrivere e riflettere sul lavoro educativo nella contemporaneità? Una possibile (e semplice) risposta a tale quesito potrebbe essere che si tratta un’attività necessaria, al fine di continuare a proporre delle riflessioni sul pensiero e sulle prassi connesse a quest’ambito professionale. Fin qui, si potrebbe ritenere di non incontrare particolari ostacoli. Tuttavia, a un occhio attento, le asserzioni formulate sin dalla domanda contengono alcuni elementi affatto scontati. Ed è questa ricerca – sostenuta da uno sguardo critico, non contemplativo ma trasformativo – che anima l’ultimo testo di Sergio Tramma. Un volume non manualistico e neppure esortativo, come ricorda l’autore nell’introduzione, perché si ritiene l’educare come qualcosa di non lineare, sfaccettato e contraddittorio, che necessita dunque di un corpusriflessivo complesso e composito.
Una prima questione, rispetto a quanto scritto in apertura, consta nella necessità, mai acquisita definitivamente, di continuare a collocare qualsiasi processo di formazione all’interno della realtà sociale in cui prende forma. Si tratta, come ricorda l’autore, di osservare il lavoro e i processi educativi nel tempo e nel luogo in cui prendono forma, sortendo da una dimensione micro per osservare – per quanto scomodo possa essere – quello che Antonio Gramsci ebbe a definire in una delle sue lettere il «mondo grande e terribile». Questo ampliamento di vedute, inevitabilmente, porta a confrontarsi primariamente (benché non esclusivamente) con i compiti attuali dell’educazione: con i contenuti, più che con le metodologie; con le finalità, più che con le tecniche didattiche. Nel quadro contemporaneo è il telos, infatti, a distinguere le culture educative più o meno marcatamente neoliberiste da quelle democratiche e progressiste. Posizionarsi in quest’ultima categoria, infatti, significa dover fare i conti con l’annoso tema delle disuguaglianze – in costante aumento dall’inizio della restaurazione neoliberale degli ultimi decenni del secolo scorso – tentando di comprendere i fattori che contribuiscono a definire le biografie e le forme di discriminazione in esse presenti (tra cui, in stretta connessione con il lavoro educativo, lo smantellamento e la privatizzazione del Welfare State). Le discriminazioni e le disuguaglianze, in questo senso, sollecitano la dimensione politica dell’educazione, affrontata nel testo senza nascondimenti né voli pindarici, sulle possibilità dell’educare come principale leva per cambiare il mondo. La riflessione spazia così sulla complessa dialettica tra la riproduzione sociale e l’emancipazione, tra la socializzazione e la messa in discussione dell’esistente.
Un secondo elemento, ancora oggi non scontato, è rintracciabile nella dichiarazione di una connessione tra il pensiero e le prassi educative e un ambito professionale. Il lavoro educativo, oggi, si trova confrontato con una crisi relativa alla presenza e disponibilità di educatori e educatrici, con spinte contraddittorie legate al riconoscimento professionale da un lato e al ripiego su personale non formato dall’altro. Continuare a tenere aperta la riflessione sulla complessa definizione del lavoro educativo e sul suo rapporto con il senso comune, allora, significa interrogarsi criticamente sulle sue origini (sulla storia sociale dell’educazione, per citare Santoni Rugiu), sulle sue prassi e sulle sue prospettive. Ed è il pensiero critico poc’anzi richiamato, forse, a rappresentare un ultimo quanto centrale elemento non pacifico rispetto al lavoro educativo e a chi lo svolge: sui saperi da cui attingere, sulla postura conoscitiva e riflessiva, sulle culture attraversate. Continuare a coltivarlo, fuori dalla nomea di soft skill entro cui spesso viene svilito, rappresenta l’innesco di quella tensione – richiamata nella conclusione del testo – che permette all’educazione di pensare tanto ai grandi orizzonti, quanto all’infinitamente piccolo del quotidiano.
Simone Romeo
Mariangela Giusti, Alessia Roselli
Non avere paura del buio
(con le letture di Giancarla Goracci)
Junior-Bambini, Bergamo 2024, pp 136, € 25,00
Oramai anche i libri “parlano”, e non è un modo di dire… parlano proprio con la voce! In questo caso con la voce di un’attrice professionista romana. Non avere paura del buio è un libro insolito, bello e innovativo. Contiene 16 filastrocche di Mariangela Giusti (per molti anni docente dell’Università di Milano-Bicocca), le bellissime tavole illustrate dell’illustratrice Alessia Roselli e una serie di schede operative con proposte formative, educative e didattiche.
Il libro è finalizzato a proporre una didattica inclusiva. Le schede, infatti, sono progettate per facilitare il dialogo nei contesti formativi e educativi di tutti gli ordini di scuola. Tante sono le proposte, che potranno essere usate nelle situazioni più diverse, anche per facilitare il dialogo con i genitori con retroterra migratorio. Una curiosità interessante è la presenza di un QRcode per ciascuna filastrocca: inquadrandolo, se ne ascolta l’interpretazione dell’attrice Giancarla Goracci. È un libro pensato per chi opera nella scuola e nei contesti educativi non formali (insegnanti, educatori, ma anche genitori, nonni…) usando il linguaggio della poesia ritmata.
Le filastrocche del libro veicolano alcuni valori: la correttezza, il buon uso del tempo, la ricerca del dialogo, la gentilezza, l’autocontrollo, la generosità, la tenacia nello studio, il rispetto verso la natura, l’amore tra genitori e figli, la creatività, la non violenza, il rispetto per il ruolo della donna, l’attenzione a quanto accade nel mondo intorno a noi. Sono valori e comportamenti di cui è bene parlare fin dall’età prescolare e fino alle scuole superiori, e oltre. I testi e le grandi illustrazioni trasmettono alcuni messaggi positivi su tali valori e comportamenti.
Le filastrocche di Non avere paura del buio raccontano la vita di tutti i giorni, fatta di momenti difficili e allegri. Parlano di compleanni; arrabbiature; fatica; momenti in cui si vorrebbe far la pace (e non si sa come fare); scampagnate in famiglia o con gli amici; affetto verso i figli e i genitori; pomeriggi solitari nei quali, quando siamo ragazzi, si prova a costruire il mondo.
Leggere questi testi (e ascoltarne la lettura attraverso i 16 QRcode) può aiutare a capire quel che accade in famiglia o a scuola. I ragazzi e le ragazze più grandi potranno leggerle in autonomia; i piccoli e i bambini si appassioneranno alle illustrazioni e potranno seguire le storie in rima insieme a genitori, insegnanti, educatori e nonni.
Non è il “solito” libro di filastrocche, ma una pubblicazione solida e bellissima da leggere, da guardare e da sfogliare, molto utile per le attività didattiche che gli insegnanti potranno avviare sin dalla scuola primaria.
Ecco i titoli e le tematiche di alcune filastrocche: I regali di Natale (noi e gli Altri, fenomeni migratori attuali, situazioni di guerra); Non lasciare la plastica in giro (inquinamento da plastica di mari e fiumi); Messaggi e parole (violenza domestica e necessità della ricerca del dialogo); Lavorare in giardino (Conciliazione dei tempi di lavoro e famiglia); Non avere paura del buio (paura del buio, difficoltà a dormire, paura delle interrogazioni).
Agnese Fedeli
Nonninsieme
Essere nonni e nonne oggi. Pensarci in gruppo
Echos Edizioni, Giaveno (TO) 2024, p. 83, € 15,00
«Nonninsieme è un gruppo spontaneo di venti nonni e nonne che si incontrano perché desiderano condividere esperienze di nonnità, riflettere sul loro ruolo e imparare dal confronto». Così si presenta il gruppo, nato a Torino nel 2016, che oggi dichiara di raccogliere una ventina di persone e, dal 2020 complice il lockdown, si è attrezzato e continua a consentire collegamenti esterni, permettendo così anche a coloro che non possono partecipare in presenza, condivisione ed elaborazione comune.
Del resto già la scelta di non indicare in copertina autori o curatori è indicativa di un intento: quello di offrire il frutto di riflessioni maturate nel confronto di gruppo che, proprio per lavorare come gruppo, si è dato «regole di funzionamento».
E se nei primi anni di vita del gruppo è stata fondamentale la cura «esercitata dalle due persone che facevano parte del gruppetto originario», nel tempo si sono divise le responsabilità: una persona si occupa di fare la sintesi di ciò che viene trattato negli incontri (e così si permette anche a coloro che erano assenti di «non perdere il filo del discorso»); un’altra «prepara i video degli incontri pubblici»; un’altra cura la comunicazione; un’altra ancora garantisce «il funzionamento della tecnologia». Altre persone si occupano «delle attività culturali e delle relazioni sempre più numerose con altre realtà».
Il gruppo si incontra una volta ogni quindici giorni: «raccontiamo dei nostri nipoti e della relazione con loro, […] delle nostre esperienze, delle nostre difficoltà, […] delle strategie che usiamo per affrontare i problemi». Ma non si tratta soltanto di un racconto o di uno sfogo, per quanto liberatorio. Si tratta di affinare – grazie al confronto – strumenti che consentano «una metacognizione sulle nostre relazioni», una capacità dunque di riflettere su quanto si vive che possa produrre consapevolezza e avviare al cambiamento. Insomma, una modalità pedagogica per imparare a imparare sulla propria nonnità, sulle proprie debolezze, sui propri punti di forza, per sentirsi, ed essere, davvero risorsa per le famiglie e la società. Il dialogo diventa allora «forza che può sostenere il cambiamento della società favorendo la crescita culturale e umana dei singoli: una buona politica sociale».
Sull’importanza di avere cura di quello che si potrebbe chiamare metodo dialogico si sofferma nella prefazione anche Mauro Doglio, formatore e counselor vicino al gruppo, indicando regole precise perché possa darsi una vera conversazione.
Forse all’interno di quelle regole di funzionamento, cui si accennava più sopra, si potrebbe ascrivere anche la scelta di privilegiare il gruppo spontaneo, senza costruire associazione, nella convinzione che ciò permetta maggiore parità tra le diverse componenti. Da sottolineare anche un’altra attenzione, che va nel senso di garantire libertà di esprimere i piaceri, ma anche le fatiche e i disagi della nonnità: «non ci siamo mai dati l’obiettivo di diventare amici e amiche, non è necessario fondare la buona comunicazione e l’aiuto reciproco sull’amicizia».
Nonninsieme ha proposto inoltre alcune iniziative pubbliche, che ha denominato “Salotti e Aperinonni”, invitando relatori e relatrici a discutere su svariati temi, cercando di «mantenere nelle occasioni pubbliche lo stesso clima caloroso e interattivo che connota gli incontri del gruppo». Il testo riporta in appendice le locandine e i temi degli eventi ed è corredato inoltre di una bibliografia sul tema della nonnità.
Un testo dunque che dà conto della storia di un’iniziativa, per così dire dal basso: capace di coinvolgere nella lettura grazie ad un linguaggio piano e misurato (e perciò attentamente studiato) così da essere davvero fruibile, ma soprattutto un testo con valenza pedagogica che sa offrire spunti a coloro che sono nonni e nonne affinché possano legittimarsi a trovare nuovi modi, più liberi e meno stereotipati, per vivere le relazioni familiari.
Claudia Alemani