Stupiti… cioè poeti (intervista a Marco Pelliccioli)

A cura di MARIA PIACENTE

Classe 1982, Marco Pelliccioli è uno scrittore e poeta che, pur alla sua giovane età, ha già all’attivo numerose pubblicazioni, con testi apparsi su riviste e antologie, tra cui Giovane poesia italiana (2020) tradotta in più lingue. Per il Teatro Fontana di Milano, cura la rassegna “La poesia e la fontana” e il “Corso di poesia italiana dal Novecento a oggi”. Dall’autunno 2024 è direttore organizzativo della Casa della Poesia di Milano.
Nel concerto del tempo (Mondadori, 2024) è il titolo della sua ultima raccolta poetica: in un tempo storico scandito da riferimenti a vicende di cronaca, si interseca un tempo personale, una quotidianità narrata da persone semplici, incontaminate come è incontaminato il mondo a cui appartengono, eppure formidabili nel “sentire” e “farci sentire” l’eco di certi avvenimenti. Della caduta del muro di Berlino; dell’11 settembre 2001; delle proteste delle donne iraniane a Milano per l’uccisione di Mahsa Amini; o del ritrovamento sulla spiaggia turca di Bodrum del corpicino di Alan Kurdi, bambino siriano di soli tre anni che perse la vita in un naufragio, nel tentativo di raggiungere la salvezza in Europa. In una parola, Marco Pelliccioli ci invita a riflettere su come il tempo possa diventare più nostro, più incidente sulla nostra anima. La nostra intervista a lui non può che cominciare da qui.


Marco, cos’è per te il tempo?
Il tempo che scorre tra le pagine del mio libro è sicuramente un tempo storico, un tempo dove alle vicende quotidiane di persone comuni si intrecciano gli avvenimenti della Storia. Ma è anche un tempo che affonda nella dimensione onirica, o che riguarda la percezione degli eventi. Un tempo, dunque, che può contrarsi o dilatarsi, accelerare o sospendere, aderendo alle diverse forme dell’esperienza. È quanto emerge già in apertura, con movimenti avanti e indietro nel tempo, e intersezioni tra esperienza individuale e collettiva. O nei capitoli dopo, come nel componimento Ritagli e variazioni, dove il tempo sembra dilatarsi o condensarsi per accogliere diversi interrogativi sullo sguardo.


Qualche giorno fa, parlando del tempo che fugge con un giovane fotografo, tuo coetaneo, abbiamo convenuto che forse, a-scientificamente, la terra sta girando più velocemente… Qual è allora la peculiarità del tempo che non passa?
La fotografia ha sempre avuto la capacità di catturare, in un istante, una peculiarità del tempo. Cogliere un punctum, fissare il dettaglio, o un gesto, come accade nella scultura. Come osserva André Bazin in Che cos’è il cinema?, dobbiamo al cinema il merito di aver liberato fotografia e scultura da questa condizione.
La poesia può attingere da entrambe le soluzioni. Condensare l’istante con componimenti brevi, subitanei, in cui avvertiamo il peso specifico di ogni singola parola, oppure distendersi in forme più aperte, narrative, ricorrendo alla prosa o al dialogo. In ogni caso, interrompe la normale percezione del tempo, lo sospende, pone degli interrogativi sulla nostra condizione proponendo dei punti di vista alternativi che consentono nuove forme di conoscenza.


Hai iniziato a scrivere poesie fin da piccolo: ti ricordi quel momento magico che ti ha condotto alla scrittura? C’è un poeta o una poetessa a cui ti sei ispirato?
Ricordo, con grande gioia, il giorno in cui la mia insegnante di lettere, a sedici anni, lesse «Al cor gentile rempaira sempre amore», o poco dopo, «Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia, quand’ella altrui saluta, / ch’ogne lingua devèn, tremando, muta, / e li occhi no l’ardiscon di guardare». E poi Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, Pascoli, prima di approdare alla memorabile stagione del Novecento italiano. Proveniamo da una tradizione a dir poco meravigliosa, incredibile. Chi si vuole occupare di letteratura e vi entra in contatto, sin dalla tenera età, non può non restarne affascinato e sedotto.


Come ti capita oggi di “dovere” scrivere una poesia? Riesci a pianificare, o ad organizzare i momenti in cui scriverai?
Come mi è capitato di dire, non ho un’idea programmatica di poesia. Certo, le letture sono importanti e qualcosa di latente precede sempre la composizione dei testi, e in ogni caso la accompagna. Ma poi, hanno luogo degli incontri, degli episodi, o delle apparizioni che liberano la penna e mi costringono a scrivere. Un dettato che nasce dalla strada, dall’esperienza, dall’affacciarsi sul mondo per diventarne traccia, voce, testimonianza.


Si dice che abbiamo sempre di più bisogno di bellezza e poesia: perché secondo te e abbiamo bisogno oggi più di ieri?
Non so se oggi ne abbiamo più bisogno di ieri. Quello che mi pare certo, però, è che l’arte e la poesia accompagnano l’uomo dalle sue origini. Nessuno può dire con precisione il motivo per cui questo accada o individuare, con precisione, il ruolo che la poesia possa avere oggi all’interno della società. Tuttavia, mi pare evidente che l’essere umano non possa farne a meno…


Ti è mai capitato di sentirti “in piazza” leggendo davanti a un pubblico le tue poesie? Che storia c’è tra te e le tue poesie?
Considero il momento della lettura, davanti a un pubblico, importante. Quando scrivo ho in mente un possibile interlocutore cui mi rivolgo e, in alcuni casi, questa forma deittica viene palesata in modo chiaro con delle interlocuzioni all’interno del testo. Il momento della lettura consente di verificare, almeno in parte, se le intenzioni coincidono con gli esiti, di avvertire se il testo riesce in ciò che mi ero immaginato. Ovviamente, può essere solo una lieve percezione ma per quanto minima a volte si rivela significativa. Anche rispetto a eventuali domande che possono sorgere dopo la lettura di un testo. Va da sé che le poesie possono essere lette nel completo silenzio con una voce interiore. Non sta a me dire quale sia la modalità di fruizione migliore però credo nella lettura orale, e mi interessa capire, per quanto possibile, cosa produce davanti a un pubblico che ascolta.

«So che la poesia è indispensabile, ma non saprei dire per cosa», diceva Jean Cocteau: tu cosa diresti…?
Credo, in parte, di avere già risposto. Ritengo sia indispensabile perché, come l’arte, accompagna l’uomo da secoli, manifestando, evidentemente, qualcosa che riguarda la natura stessa dell’essere umano. Persino in un momento storico dominato dalla scienza e dalla tecnologia, l’uomo avverte la necessità di ricorrere all’arte e alla letteratura per accedere a grandi quesiti come l’amore o la morte. Al tempo stesso, però, appare sempre più difficile dire quale ruolo, o funzione, possa avere la poesia nella società contemporanea, dove tutto sembra orientato all’immediatezza, alla competizione e al risultato. Eppure, la poesia continua a esistere, e quando il pubblico e il lettore comune vi entrano in contatto, qualcosa accade, un movimento che sembra connaturato alla fisionomia stessa dell’essere umano.


Che tempo è il nostro?
Viviamo in quella che Guy Debord definì La società dello spettacolo, dove molto, se non tutto, tende a confondersi con performances, esibizioni e una preoccupante sovrapposizione tra pubblico e privato. Al punto che persino i fatti più intimi, o personali, devono accedere a una dimensione pubblica per esistere… Un contesto simile, naturalmente, si riflette anche nel mondo della cultura e della poesia nel quale, a tratti, compaiono vicende che sarebbe meglio non vedere.
Non è una gara.
A volte, mi piace ricordare le ragioni prime per le quali ha avuto inizio il mio cammino in poesia. Ricordo con gioia le prime volte che mi perdevo nei vigneti vicino casa, quando scrivevo i primi versi e immaginavo che, un giorno, qualcuno potesse leggerli. Magari un maestro, un amico o, chissà, persino un editore. Cosa che mi sembrava impossibile…
Forse, a volte, bisognerebbe ritornare lì, in quei primi passi, col desiderio di aggiungere qualcosa di nostro a quanto più amiamo, con dedizione, amore per la cosa, stupore davanti al mondo, senza il quale qualsiasi cosa perde di senso.