A cura di Rebecca Conti

 

Nel 2024 l’Italia è risultato come il primo paese in Europa e il secondo nel mondo dopo il Giappone per numero di anziani. Si tratta di una situazione che continua ad interrogare gli interlocutori coinvolti non solo per la necessità di sviluppare un welfare sempre più adeguato all’attuale contesto, ma anche per il desiderio di valorizzare appieno le risorse educative che la popolazione anziana offre nelle rispettive comunità. A tale obiettivo CultureLink ha dedicato un incontro, sabato 5 ottobre 2024, dal titolo “Anziani: risorse educative di comunità”.

Nel dialogo con Marisa Musaio (Professoressa associata di Pedagogia Generale e Sociale Università Cattolica di Milano), Chiara Zappa (Community Manager Stripes) e Federico Gaudimundo (Direttore Consorzio CoopeRho), Patrizia Conforto (Responsabile Area Community 65+ di Stripes Coop) ha riportato una proiezione piuttosto allarmante derivante da Istat, Istituto Superiore di Sanità, Fondazione per la natalità e Istituto Nazionale di Statistica: entro il 2050 la proporzione di anziani tenderà a raddoppiare, passando al 22% della popolazione attuale. Si tratta di una ridistribuzione demografica senza precedenti: da qui al 2030, per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero di individui di età uguale o superiore a 65 anni supererà quello dei bambini al di sotto dei 5 anni. Il segmento di popolazione che aumenterà maggiormente nei Paesi industrializzati sarà quello degli ultraottantenni: questi ultimi nel 2050 saranno il quadruplo rispetto ad oggi. Nel 1951 ogni 100 giovani c’erano 31 anziani; al 1° gennaio 2024, ogni 100 giovani gli anziani sono diventati 200. Andando avanti con questa tendenza, nel 2050, ogni 100 giovani gli anziani saranno più di 300.

Come affrontare tali cambiamenti? Bisogna innanzitutto cambiare prospettiva: invece che limitarsi a considerare l’invecchiamento come un fattore negativo, occorre guardare all’anziano da un punto di vista formativo. Capire cioè come lo stiamo pensando: come indirizzato solo al fine vita, o come una persona che ha attraversato molte soglie esistenziali e guarda trasformativamente alle possibilità che ha ancora? Se consideriamo tali soglie solo come confine verso un muro, non potremo che limitare la persona anziana in una prospettiva meramente anagrafica, cioè perdente. Se invece ci mettiamo nella posizione di capire le soglie varcate da una persona anziana, questa diventa come a sua volta una soglia della nostra stessa vita, nel senso che ci mette in connessione con il passato, ci richiama alla memoria. Come infatti parliamo dell’anziano, come lo definiamo non solo a livello personale, ma anche culturale, sociale e scientifico? Molto spesso come di un individuo che è all’ultima spiaggia. Da questo punto di vista, che i pedagogisti si siano finora così poco occupati degli anziani risulta una grave mancanza, dalla quale è derivata la non correzione dei due maggiori stereotipi sulla persona anziana: etichettata a priori priva di interessi; oppure bisognosa di un quotidiano soccorso da tutti i punti di vista, innanzitutto fisico. Da questi stereotipi, per esempio, deriva il fatto che nei servizi dedicati agli anziani coloro che li assistono vengano chiamati animatori, non educatori. Non dovrebbe affatto essere così: la cura di cui hanno bisogno gli anziani non è appena un’assistenza socio-sanitaria, ma il riconoscimento e la valorizzazione della loro funzione sociale, che è squisitamente educativa. Le persone anziane, in definitiva, rappresentano una comunità educante che dà alle generazioni la possibilità di connettersi in base alle ragioni del fare, non al numero degli anni.

Tale possibilità noi la stiamo cogliendo? Non abbastanza purtroppo, anche se gli esempi da seguire ci sono. Basti pensate al rhodense “Soli mai”, un progetto di welfare di comunità nato nel 2020 – all’inizio della pandemia del Covid – nell’ambito di #OltreiPerimetri, una vera e propria infrastruttura sociale che facilita i legami tra le persone. Fin dai suoi esordi, il servizio “Soli mai” rispondeva non solo alle richieste di spesa a domicilio, o di una valutazione medica, ma anche al bisogno di vincere la solitudine, che i volontari capirono presto fosse il problema più serio in quel contesto di estremo isolamento pandemico. Decidendo di offrire il proprio tempo (anche quantitativamente piccolo), i volontari si sono resi disponibili a instaurare legami, non appena ad assolvere a richieste materiali. Cosa ne è conseguito? Da una parte, un’inversione di ruoli per cui gli attuali volontari di “Soli mai” si sentono curati dagli anziani loro affidati, al pari di quanto questi ultimi si sentano curati dai volontari. Dall’altra parte, “Soli mai” è entrato nel sistema integrato dell’offerta dei servizi pubblici rivolti agli anziani (SISDA) con alcune peculiarità: interventi di prossimità a domicilio; adeguata formazione dei volontari; attivazione di una piattaforma digitale dedicata al reclutamento e alla gestione dei volontari; coinvolgimento nella governance di altre organizzazioni, sia del terzo settore, che socio-sanitarie. In sostanza, per affrontare tutte le fragilità esistenziali e sociali, non solo quelle legate all’invecchiamento demografico, occorre passare «dalla cura di comunità alla comunità di cura», così l’ha suggestivamente descritta F. Gaudimundo. Occorre cioè imparare a guardare chiunque non appena come portatore di bisogni, ma altresì di risorse. Solo da uno sguardo così potremo educarci a relazioni di reciproca scoperta e cura: non limitandoci a una sorta di affiancamento sporadico alle generazioni anziane, ma desiderando una reale loro conoscenza.

Quanto tale desiderio è presente nella nostra società? Si tratta di una domanda che non riguarda solo l’approccio agli anziani. Pensiamo per esempio alle dinamiche aziendali: non è forse vero che tra i nuovi arrivati e i senior che stanno andando in pensione, spesso si riscontrano conflitti e, conseguentemente, un distacco relazionale e comunicativo?

Approcciarsi al cambiamento evolutivo come una risorsa di progettazione, anziché come ad una negatività da superare, è ciò che fa sempre la differenza. La persona più anziana di noi, infatti, prefigura davanti alla nostra mente quello che potremmo diventare anche noi e questo ci fa guardare da un’altra parte: perché ci auspichiamo di diventare in un altro modo, o anche solo di non ripetere gli stessi errori.

Se in tutte le relazioni con chi è diverso da noi – non solo per età anagrafica – noi imparassimo una dimensione di ascolto gentile, la nostra vita quotidiana ne sarebbe molto avvantaggiata.

Ecco allora da parte della professoressa Musaio evocare Christian Bobin (1951-2022) – poeta e scrittore francese, straordinario biografo di uomini e donne del passato – in una citazione che appare tutt’oggi come un faro di luce. In Prigioniero in culla, Bobin descrive così il padre che, nell’ultimo periodo della vita, si trovava in una struttura per malati di Alzheimer: «Se ne stava lì talmente solo che la cucina diventava immensa… Come hai fatto a trovarmi?». Questa domanda, che il padre malato rivolge al figlio, esprime il bisogno più grande della persona anziana: essere cercato e essere trovato per stare insieme a noi. Ma questo non è forse lo stesso bisogno di tutti?

Valorizzare l’esperienza e la partecipazione degli anziani, migliorando servizi e opportunità sociali, è oggetto di una discussione che necessiterebbe di numerosi esperti, tra operatori del settore, rappresentanti delle comunità locali e soprattutto pedagogisti.


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