A cura di Rebecca Conti

Come instaurare continui patti educativi tra gli adulti di ogni comunità? Come imparare e insegnare a coinvolgersi, ad implicarsi educativamente a vicenda? Come cioè realizzare comunità educanti? Spunto fondamentale per raggiungere tali obiettivi viene dal progetto Common Ground, selezionato dall’Impresa Sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. Scopo del progetto è rafforzare le relazioni tra i soggetti educanti di un territorio, innanzitutto quelli della scuola. Solo da una continua e sempre maggiore interazione tra gli interlocutori educativi si può sperare di migliorare il benessere dei ragazzi: i loro processi di apprendimento, così come le condizioni di difficoltà che si trovano ad affrontare. Per interagire, bisogna sentirsi insieme. E per sentirsi insieme, occorre voler essere insieme. Occorre cioè riconoscere il bisogno di sviluppare alleanze e reti educative territoriali che creino ponti solidi tra la scuola e il territorio, collegando così persone, didattica e luoghi. L’obiettivo è efficacemente sintetizzato nell’espressione di una “Scuola S-confinata”: una sorta di figurato openspace in cui studenti, famiglie, enti pubblici e privati dialoghino costantemente. In un contesto culturale che spesso confonde la rete digitale con le relazioni umane, facilitare queste ultime sembra in effetti una grande innovazione che risponde ad un altrettanto grande bisogno.

A tutto ciò CultureLink ha dedicato un incontro dal titolo “Common Ground. Base comune per coltivare comunità educanti”. Se ne è parlato sabato 5 ottobre 2024 in un dialogo tra la giornalista Sabina Pignataro e Daniela Lucangeli(Professoressa di Psicologia dello sviluppo all’Università di Padova ed esperta di psicologia dell’apprendimento); insieme a Paola Pessina (Presidente Fondazione Comunitaria Nord Milano), Pierluca Borali (Segretario Generale Fondazione Comunitaria Nord Milano) e Michela Brugali (Responsabile Area Sviluppo e Territorio Stripes Coop).

Come le comunità educanti possono riconoscersi, svilupparsi ed essere luogo di pensiero e di educazione per un territorio? Il progetto “Common Ground” ha tentato di rispondere a questo spunto di riflessione, immaginando l’area del Nord Milano come luogo in cui provare a rispondere ai bisogni delle periferie, che sono spesso le prime realtà a doversi interfacciare con i disagi dei più piccoli, oltre che con le necessità di integrazione e inclusione interculturale. Come? Invece che delegare la gestione di alcuni fenomeni alle singole realtà educanti, il progetto ha chiamato scuole, genitori e piccole realtà di aggregazione di paese a far parte di una fondazione comunitaria, capace di rispondere alle rispettive responsabilità educanti con l’attivazione di sinergie positive e di virtuosi scambi di pratiche. Se per educare un bambino serve un intero villaggio, adesso più che mai è necessario che i membri di questo villaggio riprendano consapevolezza del proprio ruolo educativo e, andando oltre la dimensione didattica, riconoscano di camminare sul medesimo suolo, su un comune terreno (common ground appunto). Questa presa di consapevolezza implica lo sforzo non irrilevante di un’instancabile attività di incontro con le persone: per la profonda convinzione che il luogo in cui ci si trova è in grado di sostenere le diverse necessità. Siamo cioè noi come “società educante” a poter fare la differenza.

Chi educa si occupa di futuro, cioè degli adulti di domani: quei bambini che nei venti di guerra che soffiano sulle loro teste stanno ancor più urlando la volontà di germogliare in pace, di essere bambini in un mondo che li veda e li rispetti. Nel 2023 il rapporto UNICEF sull’infanzia[1] ha attestato che i disagi psicologici di bambini e adolescenti sono in drammatica crescita. A tali sofferenze non si può non reagire: iniziando a riconoscerle e poi cercando di rispondervi attraverso la massima diffusione di legami generativi. Occorre quello che Daniela Lucangeli chiama un cambio di passo: una contaminazione di saperi, un dialogo continuo che parta da una lettura critica. Per esempio, in un mondo dove l’iperconnessione regna sovrana e i modelli di informazione e comunicazione si sono evoluti in maniera inimmaginabile, perché il modo in cui i nostri bambini vengono educati è rimasto immutato? È paradossale, ma succede così: attraverso un modello simile a una “mente frigorifero”, ci aspettiamo che i contenuti dell’insegnamento vengano appresi nella stessa forma e modalità in cui vengono erogati; e quando ciò non accade, o accade in maniera diversa da quel che ci aspettavamo, ne facciamo motivo di colpa o vergogna. Poco spazio viene dato all’elaborazione personale e all’espressione del sé: il maestro consegna al discente un’interezza di sapere, augurandosi che tale interezza non venga contaminata da emozioni, fragilità o debolezze. Ma come fa un bambino, tanto più se ha disturbi evolutivi, a non lasciarsi condizionare da ciò che sente, così come da ciò che gli richiede una fatica particolare? Anche noi adulti portiamo diverse cicatrici di questo stile educativo e ciò si vede nell’insicurezza che trasmettiamo a coloro di cui ci prendiamo cura. Quando infatti esiste un senso di inadeguatezza nell’io “bambino” e le figure educative lo hanno abituato a tacerlo, o nasconderlo, questo malessere non verrà cancellato, ma trasmesso attraverso vie nuove. Per esempio, capita di frequente che genitori stressati trasmettano il proprio stress negativo[2] ai figli e questi ultimi ne risentono sia fisicamente che psicologicamente. Soprattutto quando il processo evolutivo è in corso, i bambini non sono ancora in grado di riequilibrare autonomamente il vissuto stressogeno attraverso i naturali processi di omeostasi[3], e così rischiano di cadere in una situazione di scompenso emotivo e fisico. Tecnicismi a parte: se i metodi didattici non vengono personalizzati e se implicitamente si insegna a non esprimere le proprie emozioni, ciò che ne consegue sarà nocivo sia per gli adulti della nostra società, sia soprattutto per i più piccoli. Come impostare allora il lavoro educativo? Rendendolo scientifico: questa è l’intuizione di Daniela Lucangeli che, insieme ad altri ricercatori del settore, ha ideato Mind 4 Children, progetto nato dalla volontà di diffondere un vero e proprio movimento culturale che metta la scienza dell’infanzia a disposizione della comunità civile. Si tratta cioè di una “scienza servizievole” anche in campo educativo. Per esempio, soprattutto nella finestra evolutiva che va dai 3 ai 5 anni, gli studi sulla neuroplasticità infantile di funzione hanno dimostrato come i bambini possano fiorire grazie alla relazione positiva con gli adulti a cui sono stati affidati. A partire dal concetto di zona di sviluppo prossimale di Vigotskij [4], è stato cioè letteralmente calcolata non solo la differenza tra ciò che una persona può fare da sola o con il supporto di un adulto esperto; ma anche il potenziale di aiuto che ogni adulto ha nei confronti del bambino che educa. Cosa è emerso? La scuola, i genitori, gli adulti e in generale il contesto in cui si vive, hanno un potere generativo enorme sul futuro dei bambini: ogni insegnante può apportare il proprio contributo diventando “differenziale di sviluppo” e attivatore di funzioni evolutive. Anche la fase di sviluppo “eteronoma”, nella quale il bambino dipende essenzialmente dall’altro, è un periodo di crescita con immense potenzialità neuroplastiche, riguardanti cioè la capacità del sistema nervoso di adattare la propria struttura in risposta a una varietà di fattori e di stimoli interni o esterni, comprese le situazioni patogene acute. Ciò, che è solo uno degli esempi, fa comprendere meglio la responsabilità che tutti noi adulti abbiamo fin dalla prima infanzia delle nostre bambine e dei nostri bambini. Anche perché le modalità educative e le esperienze relazionali con l’adulto vissute nei primi anni di vita concorrono a plasmare le memorie perpetue autobiografiche di un bambino. Proprio a partire da queste esperienze, il futuro adolescente sarà in grado di riconoscere ed esprimere le proprie emozioni: ma se non è stato “abituato” da piccolo, sarà molto difficile farlo da grande. Non solo: se ha vissuto frustrazioni nel proprio percorso educativo, o se le sue figure di attaccamento hanno veicolato messaggi di sfiducia e di stress, un bambino potrebbe scivolare nella cosiddetta languishing, cioè in una condizione cronica di assenza di gioia.

Le notizie positive vengono, appunto, sempre dalla scienza. Alcuni neuroscienziati hanno studiato il modo in cui le strutture limbiche del cervello si riorganizzano di fronte ad un evento, mandando un segnale alle cortecce associative in modo che queste ultime riconoscano la gioia e la attivino. La meravigliosa scoperta sta proprio nel fatto che questa tendenza si può allenare: facendo soffermare quotidianamente il bambino su un momento di gioia, chiedendogli di individuare dei motivi per cui essere felice e gioire insieme all’adulto. Sono tutti esercizi che possono abituare il cervello a ricercare la gioia, allenando così il futuro adolescente ad approcciare il mondo attraverso una lente speciale sulla positività della vita. La gioia – emozione curandera, cioè guaritrice per eccellenza – non risolve, ma controbilancia le emozioni negative anche dell’età infantile, configurandosi come una risorsa sempre disponibile per il nostro sé.

Se riusciremo a comprendere la potenzialità di tutto ciò, avremo adulti con più risorse: allenati a posare l’attenzione sugli aspetti positivi della vita; abituati ad attivare strutture cerebrali, fisiche, psicologiche e spirituali il più possibile funzionali al proprio benessere. Avremo adulti che conosceranno meglio gli altri perché conosceranno meglio se stessi, saranno cioè più consapevoli di quello che sono: non soltanto il risultato del proprio passato, ma anche del proprio presente e di un futuro possibile. Dando voce ai luoghi più primitivi del nostro cervello, sedi dell’emotività, è possibile riconnetterci con tutti gli spazi del tempo, passando anche oltre agli insegnamenti che ci hanno fatto male. Questa consapevolezza su di noi ci salva dal reiterare schemi di attivazione sbagliata anche sugli altri e ci permette quanto sembra impossibile: tamponare, se non addirittura curare, memorie epigenetiche transgenerazionali; far rallentare o bloccare processi infiammatori fisici e di ruming mentale, cioè di un pensiero negativo continuativo; tutelare in definitiva la nostra salute e quella dei bambini a noi vicini.

Rallegriamoci non solo che qualcuno si sia dedicato a tutti questi temi, tanto da poterli spiegare in un’aula accademica (cosa che accade già da tempo); ma soprattutto che le ricerche scientifiche siano uscite dai laboratori e possano essere condivise e diffuse in tutta la comunità educante. Cosa possiamo fare noi? Custodire quanto la scienza insegna, metterlo in pratica, regalarlo ad ogni bambino che incontriamo e condividerlo con ogni figura educante con cui ci interfacciamo. Considerare gli insegnamenti della scienza come una terra comune, che tutti abbiamo sotto i piedi.

[1] UNICEF. The State of the World’s Children 2023: For Every Child, Vaccination. New York: UNICEF, 2023.

[2] Distress: stress “negativo”. Contrapposto all’“eustress”: stress positivo.

[3] Processo attraverso il quale un organismo mantiene l’equilibrio interno delle sue condizioni fisiologiche nonostante le variazioni dell’ambiente esterno.

[4] Vygotskij, L. S. (1978), Interaction between learning and development. In M. Cole, V. John-Steiner, S. Scribner, & E. Souberman (Eds.), Mind in society: The development of higher psychological processes (pp. 79-91). Harvard University Press.

È possibile un figurato openspace in cui studenti, famiglie, enti pubblici e privati dialoghino costantemente? In un contesto culturale che spesso confonde la rete digitale con le relazioni umane, facilitare queste ultime sembra la più grande innovazione (che risponde al più grande tra i bisogni).


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