A cura di Rebecca Conti

 

A tutte le età, ognuno di noi sente il bisogno di fiorire: di sentirsi realizzato, felice, di crescere nella conoscenza del mondo e nella consapevolezza di sé. Per soddisfare tale bisogno, è necessario essere consci non solo di come siamo fatti, ma anche di tutto quello che possiamo realizzare, o diventare. Tutto può succedere se qualcuno ci aiuta a scoprire le nostre peculiarità e, così, a liberarci da certi pregiudizi e a varcare anche le soglie che sembrano lontane. Tutto può succedere, in una parola, se qualcuno ci educa: ce lo ricordano innanzitutto coloro che vivono circostanze faticose, se non addirittura drammatiche. Nelle situazioni esistenziali difficili, infatti, quando le circostanze presenti sono avverse o quelle passate influiscono negativamente sull’oggi, si capisce di più il bisogno riassuntivo di tutte le necessità che si possono avere: è il bisogno di sperare. Di fiorire, di cambiare, di rinascere, di migliorare, di crescere. CultureLink ne ha parlato sabato 5 ottobre 2024 in un incontro dal titolo “In ogni seme un fiore c’è. Quando educare fa fiorire?”.

Nel dialogo con Maria Piacente (Direttrice Rivista Pedagogika), Roberto Bezzi (Responsabile dell’Area Educativa della Casa di Reclusione di Bollate) e Francesco Tagliabue (Produttore creativo per il cinema e la serialità tv) hanno condiviso il cuore della propria esperienza: fiorire e migliorare, tanto più all’interno di ambiti di vita difficili, è un processo che non possiamo attraversare da soli. Esistono circostanze e momenti nei quali, senza un aiuto, ci può sembrare di affogare; ed esistono contesti in cui questo aiuto, anche se presente, può non essere facilmente visibile. Il contesto detentivo è uno di questi luoghi: uno spazio fisico e concettuale dove le persone scontano le proprie pene, ma dove gli individui sono soprattutto chiamati a “scontrarsi con se stessi”. In un luogo del genere l’educazione è un percorso essenziale di guida, ma anche di crescita e di vita.

Educare all’interno di un carcere significa tentare azioni in un contesto molto sfidante, se non addirittura ostile, caratterizzato da un’evidente riduzione dell’autonomia della persona e degli spazi fisici e mentali di azione e immaginazione. Come può l’educazione, in tale ambito, aprire a nuove strade e nuovi modi di approcciarsi al mondo, ampliando le possibilità che la persona può immaginare per se stessa?

Questa tensione educativa, in un quadro così delicato, deve necessariamente scontrarsi con le fragilità e le debolezze delle persone, difficoltà che si dispiegano all’interno della rigidità tipiche del luogo detentivo. Proprio per le sue intrinseche contraddizioni, il rapporto tra educazione e carcere non può che essere una relazione estremamente complessa. Una complessità che, per essere abbracciata, necessità di un passo oltre le apparenze.

Come testimonia Roberto Bezzi, Responsabile dell’Area Educativa del carcere di Bollate, lo sforzo che accompagna ogni scelta educativa in carcere è quello di tentare di “smussare” le rigidità dei suoi “ospiti”. Questo lavoro di continua interazione avviene in un contesto normativo che presenta limiti prima di tutto fisici, ed è guidato dall’obiettivo di non aggiungere ulteriori limiti. Come sottolineava Lucia Castellano, prima direttrice del carcere di Bollate, l’azione educativa deve operare sulle difficoltà e fragilità che derivano dall’essere all’interno di un muro di cinta. Alcuni detenuti esprimono le proprie fatiche in modo palese e talvolta disperato, ma anche in questi casi è fondamentale non pensare mai all’individuo come “irrecuperabile”. Per far ciò, è essenziale voler lavorare non su quello che nel singolo non va bene, ma su quel che è “sano”, o almeno potenzialmente generativo, anche laddove questa possibilità fosse nascosta, difficile da scorgere. Come si può sostenere un simile sforzo educativo? Riflettendo innanzitutto sul concetto di “disabilità”: cosa significa essere pienamente abili? Non esiste forse in tutti noi una non per-fezione nel raggiungere totalmente gli standard che la società individua come “normali”? Chi è recluso è caratterizzato, in misura più o meno temporanea, da una vera e propria disabilità sociale, che porta a non realizzare gran parte della sfera di competenze relazionali con l’altro, come l’espressione funzionale delle proprie emozioni e l’agire in conformità alle norme sociali. L’unico modo di ipotizzare l’educazione in carcere sembra allora essere l’adozione di uno sguardo che non miri a compatire o giudicare, ma riesca a guardare oltre quelle situazioni del presente che paiono immutabili. Occorre uno sguardo educativo che sappia cogliere un talento immenso da scoprire e che, quindi, sia in grado di superare le rigidità di chi ha davanti con l’immaginazione delle sue potenzialità. Si tratta di un lavoro possibile solo se si combatte la stereotipizzazione a cui siamo inclini tutti, anche coloro che volontariamente fanno ingresso in carcere con le migliori intenzioni. Spesso e volentieri infatti, non ci accorgiamo di assumere uno sguardo che semplifica e mistifica una realtà ben più complessa di come tendiamo ad immaginarla. È difficile abbandonare i propri schemi e superare l’idea che le nostre azioni produrranno necessariamente effetti benefici, ma è possibile: andando oltre alla convinzione che lo star meglio di qualcuno, tanto più se è detenuto, dipenda dalle nostre azioni., Occorre piuttosto mettersi in una posizione di osservazione del comportamento di chi abbiamo davanti: disporsi all’ascolto aperto, per cogliere così anche quegli indicatori di possibili azioni spiacevoli, contro se stessi o gli altri.

Sulla scia dell’analisi clinica, l’osservazione del comportamento di chi abita il carcere si fonda su una profonda convinzione: ogni individuo è unico e ha un passato di emozioni che determina l’agire. Allo stesso tempo però, alcune dinamiche ricalcano tendenze comuni e catene causali già viste in altre storie di vita. Alcune persone, ad esempio, si trovano in carcere perché la loro storia familiare, così come le frequentazioni e le situazioni accadute prima, hanno “previsto” il passaggio della detenzione quasi come fosse un fatto obbligato da oltrepassare. Esistono però anche coloro che, fino a un attimo prima del reato, sembravano “uguali a noi”: da un momento all’altro hanno svolto azioni inaspettate ed impensabili, completamente scisse dalla vita vissuta fino a quel momento. Ecco, aver presente tutto ciò aiuta a prendere consapevolezza del fatto che la stessa entità del carcere funge anche da garante per una nostra necessità psicologica: lo spazio fisico detentivo crea cioè una divisione psicologica tra un mondo “per bene” ed uno “per male”. Tale divisione, consciamente o meno, tutti l’abbiamo interiorizzata. Sapere che “i colpevoli” sono rinchiusi all’interno di un muro di cinta, crea una divisione netta tra un “noi” e un “loro” che ci protegge psicologicamente dalla paura e dall’effettiva incertezza e imprevedibilità che caratterizza il genere umano. È anche per questo che lo stigma dell’essere un “ex carcerato” permane in maniera così incancellabile nella vita e nell’identità di un individuo: è come se una persona che abbia fatto ingresso “dentro”, non fosse più riconoscibile ed accettabile come un membro del mondo “fuori”. Eppure, come i fatti di cronaca nera continuamente ci ricordano, la linea di confine tra i due mondi è fragilissima e insospettabilmente labile.

Il mondo all’interno di un istituto penale rifugge da semplificazioni: frequentare tale mondo spinge chi vi lavora a cogliere la complessità dell’essere umano, la sua natura imprevedibile e la sua costitutiva imperfezione. E permette di rendersi conto di quanto ogni giorno sia occasione per i più disparati “imprevisti”, positivi o negativi che siano. Gli imprevisti positivi: i “fiori” sbocciati in un percorso di rieducazione e che possono farci restare a bocca aperta; o spunti di riflessione e di provocazione che vengono inaspettatamente accolti. Gli imprevisti negativi: la durezza e le difficoltà del carcere, che indirizzano la luce sugli angoli bui di chi lo abita. Sia in senso positivo che negativo, dunque, in carcere ogni giorno è un imprevisto.

In campo educativo non è mai facile provocare, cioè muovere la sensibilità degli altri: neanche quando si tenta di farlo con forme immediate di espressività artistica quali il cinema o della televisione. È quanto ha testimoniato il produttore cinematografico Francesco Tagliabue, ricordando gli ostacoli alla miniserie televisiva da lui prodotta su don Lorenzo Milani: questo personaggio, modello educativo per alcuni, era invece un simbolo di schieramento ideologico per altri e tale divisione di vedute aveva in effetti condizionato la realizzazione del prodotto. Comunque la si pensi, tutte le storie che parlano di educazione ci toccano, ci meravigliano e ci spingono a parlare di loro. Dalle esperienze di persone lontane nella cultura e nello spazio, a chi possiede storie particolari e fuori dal comune: tutto è occasione di educazione e di crescita. E ovunque, tanto più all’interno del contesto così angusto di un carcere, si sente il bisogno di una contaminazione tra “dentro” e “fuori”: non solo chi è “dentro”, ma anche chi è “fuori” sente cioè il bisogno di provare su di sé un senso di empatia e di immedesimazione, di accorciare quella distanza che sembra infinta tra chi è da una parte e dall’altra di un muro di cinta. Proprio a tale scopo, all’interno del carcere di Bollate è nata l’iniziativa del cineforum promossa da volontari e appassionati, tra cui Francesco Tagliabue. Guardare insieme ai detenuti alcuni film e commentarli con loro ha generato spazi di confronto, di dialogo e di condivisione esperienziale che hanno giovato a entrambe le parti e hanno un poco smussato il confine di separazione. L’effetto più positivo di un’attività come questa è il superamento di quella logica carceraria fondata solo sul debito. In particolare – come evoca Elvio Fassone[1] nel bellissimo titolo del suo libro: Fine pena: ora – il rapporto tra il detenuto e la società è spesso basato su un debito di tempo. In un certo senso è come se il detenuto fosse chiamato a scontare la colpa attraverso il periodo di tempo speso in carcere: le lancette che scorrono sono l’unica sua moneta di scambio. Le figure educative si propongono di superare questa semplificativa dinamica di baratto per offrire davvero quella possibilità di rieducazione di cui la detenzione dovrebbe essere foriera: innanzitutto riflettendo sulle dinamiche che hanno portato al contatto con il male e provando a dialogare anche con le emozioni negative. Queste ultime risuonano inevitabilmente e nel silenzio, tanto più quello nel carcere, fanno più rumore. Ecco perché lo spazio detentivo è forse il luogo per eccellenza in cui si necessita di un altro: di un tu che accompagni nel processo di consapevolezza, di crescita e di dolore. Un tu che si assuma il ruolo di decostruire un’immagine negativa del sé per fornire stimoli utili ad un’immagine nuova e più positiva, anche se non perfetta.
Attraverso questo prestito di sguardo – responsabilizzante, ma disponibile – tra un io e un tu, è possibile ricominciare a vedere e a sperare; e, chissà, anche a fiorire.

 

[1] Elvio Fassone, Fine pena: ora, Sellerio Editore, Torino 2015.

Tutto può succedere se qualcuno ci aiuta a scoprire le nostre peculiarità, a liberarci da certi pregiudizi e così a varcare anche le soglie che sembrano lontane. Tutto può succedere, in una parola, se qualcuno ci educa. Fiorire, crescere, sperare: dovrebbero essere tutti sinonimi di educare.


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