Cecilia Sala e le “sberle della vita”

Di Paola Navotti

21 giorni di isolamento nel carcere iraniano di Evin sono tanti: non per il paragone con chi ci ha passato molto più tempo; quanto per il trauma che rappresenta ogni singolo giorno vissuto in tale condizione. La giornalista Cecilia Sala ha vissuto questo e dunque nessuno si sarebbe meravigliato – anzi – se avesse deciso di prendersi un lungo tempo di riposo. Lei, invece, ha deciso di ricominciare subito a lavorare: il giorno dopo la liberazione, registrando una toccante intervista audio a Mario Calabresi; 2 giorni dopo, firmando un reportage per il quotidiano “Il Foglio”; poi rilasciando un’intervista televisiva a Fabio Fazio; 15 giorni dopo, volando in Ucraina a intervistare il presidente Zelensky e, così, riavviando “Stories”, il suo seguitissimo podcast.

La velocità con cui ha ripreso il suo lavoro ci ha fatto molto riflettere: non appena su quella determinazione tipica di chi è appassionato a quel che fa; bensì sulla tenacia a concentrarsi su quanto rende buona e feconda la vita, piuttosto che sul male e sull’angoscia che possono averla segnata. Questo soprattutto ci sembra aver testimoniato Cecilia Sala: la positività dell’esistenza vale infinitamente più di qualsiasi negatività. Anche delle più dolorose.

Ecco allora che il “colpo di reni” con cui lei ha voluto rialzarsi, potrebbe rappresentare un’occasione di paragone per tutti coloro che si sentono così attorcigliati dalle “sberle della vita”, da rimanerne prigionieri anche quando sono passate. Pensiamo innanzitutto a quei giovani per i quali certi shock risultano insuperabili e non riescono ad andare oltre lo sgomento in cui si trovano: se Cecilia Sala ce l’ha fatta, tutte e tutti possiamo riemergere dal vortice in cui capita di percepirsi. Non diventando supereroi, o impassibili, bensì semplicemente certi di ciò che vale di più, e di chi ci sostiene in tale certezza. Educare a questo è ciò che più serve nella vita, persino più di leggere e far di conto.

Ma come lo si può insegnare, come lo si può comunicare? Studiare i manuali – psicologici, filosofici o anche pedagogici – non basta: non basta cioè nessuna teoria. Servono dei testimoni, delle persone disponibili a raccontare come hanno superato gli shock (che, più o meno grandi, sono presenti in ogni esistenza), come sono diventati capaci di esprimerli sotto forma di linguaggio e come, quindi, hanno continuato a coltivare i propri progetti di vita. Da parte nostra, serve però la disponibilità a metterci in discussione.

Non sembra un caso, da questo punto di vista, che Cecilia Sala continui a prediligere le interviste e ne abbia fatto il tratto distintivo del proprio mestiere: è relazionandoci con gli altri e narrando ciò che viviamo, in definitiva, che conosciamo di più e impariamo a non arrenderci. Questa narrazione, che racchiude il nocciolo dello stile giornalistico di Cecilia Sala, ci sembra quasi un appello che lei, finalmente libera, sta innanzitutto rivolgendo alle nuove generazioni.