Siamo davvero fuori tempo massimo…?
Di Irene Grossi
Dottoressa in Psicologia per il benessere: empowerment, riabilitazione e tecnologie positive. Con un forte interesse per la psicologia positiva, la psico-somatica e lo yoga, attualmente si dedica alla formazione e allo sviluppo di percorsi che promuovano consapevolezza, benessere e senso di appartenenza nei contesti lavorativi.
Nasco, gioco, studio, lavoro e vado in pensione. Fa venire i brividi vero? Due secondi scarsi e una boccata d’aria per pronunciare una vita. Anzi, la maggior parte delle vite di questa parte fortunata dell’emisfero.
Ecco descritta la famosa vita sequenziale ereditata e ormai concettualizzata dalle generazioni del diciannovesimo secolo, una vita in cui per essere “al passo” devi fare certe cose al momento giusto e nel modo giusto, in cui se si resta indietro rispetto alla linea canonica si viene considerati pazzi, bambinoni o sconclusionati; una vita fatta di “Sei troppo giovane per quel lavoro”, oppure “Ormai sei troppo vecchio per cambiare strada”. Ma da dove arriva questa concezione, e chi l’ha deciso?
Quando, nell’Ottocento, furono introdotte l’istruzione universale e le pensioni di anzianità, la vita iniziò a seguire una sequenza ben definita: da bambini si giocava e si cresceva, poi arrivava la scuola, forse l’università, e infine il lavoro. Prima di rendersene conto, ci si ritrovava in pensione a guardarsi indietro, ripensando a quella traiettoria prestabilita, con la speranza che figli e nipoti potessero replicarla senza intoppi. Da allora, il tempo a nostra disposizione è stato compartimentato in tappe rigide, come se esistesse un copione universale da seguire senza deviazioni. Il modello sequenziale della vita è stata un’enorme invenzione sociale, un costrutto nato per organizzare la società in compartimenti stagni, assegnando ruoli precisi a ogni età.
Riprendendo le riflessioni dello scrittore Mauro F. Guillén nel suo libro “Società e lavoro dopo la fine delle generazioni”, ci chiediamo insieme a lui: «e se pensassimo alla vita in modo diverso? Non c’è nulla di naturale che prestabilisca cosa dovremmo fare a una certa età. Anzi, il modello sequenziale della vita è un costrutto politico e sociale fondato sulle concezioni patriarcali e burocratiche che assegnano le persone a gruppi e ruoli diversi in base all’età» (pag. 28).
La prima volta che ho letto queste parole ho sentito un enorme sollievo nel petto, come se questa verità così apparentemente banale, fosse la cosa più lontana dalla mia visione della vita a 25 anni. Eppure, come la mia generazione, sono figlia del “tutto è possibile” e “avete la fortuna di fare quello che volete, mica come i vostri nonni”; ma allora, perché siamo ancora così paralizzati davanti al futuro? Perché siamo ancora intrappolati nel flusso incessante della vita sequenziale del gioco-apprendo-lavoro-riposo?
L’adolescenza è quel passaggio instabile tra l’infanzia e l’età adulta, un periodo carico di crisi d’identità, emozioni ingestibili, domande esistenziali, scelte sbagliate e contraddizioni. Viene spesso vista come una fase di transizione da superare il più in fretta possibile nell’attesa che, una volta adulti, tutto trovi il suo ordine: un lavoro stabile, la fine delle bambinate, la carriera, una famiglia.
Ma mi chiedo: e se l’essenza della vita fosse proprio lì, in quell’intermezzo caotico intrappolati tra l’Es e l’Ego – per citare Freud – senza risposte, ma con un bisogno disperato di sperimentare, rischiando di sbattere la faccia?
Al contrario di questo turbinio incerto di strade da percorrere, il modello sequenziale della vita offre il vantaggio della prevedibilità, classificando le persone in modo semplice e diretto in gruppi di popolazione definiti dall’età. Questo schema garantisce certamente maggiore tranquillità e stabilità: sia per i giovani che crescono all’interno di un percorso lineare, sia per le famiglie che li vedono evolversi, sia per i nonni che si aspettano lo stesso dai propri nipoti. Ma allora, perché sentiamo il bisogno di concettualizzare la nostra esistenza attraverso fasi canoniche, con la conseguente angoscia di non essere nel momento giusto a fare la cosa giusta? Perché basta un pensiero fuori dal comune andamento della vita per essere giudicati? E perché consideriamo “matti” coloro che a 50 anni decidono di iscriversi all’università, o di partire per un viaggio in Europa con lo zaino in spalla?
L’evoluzione della società ci sta costringendo a ripensare il nostro modo di vivere. Il mondo del lavoro non è più quello dei nostri nonni, le professioni cambiano, le competenze si trasformano. Allora perché ostinarsi a considerare la vita come un unico percorso lineare, in cui ci viene chiesto a 15 anni, quando scegliamo la scuola superiore, di decidere cosa vogliamo diventare? Come se a quell’età fosse davvero possibile saperlo e come se fosse davvero la scuola superiore a determinare chi saremo. Il problema in questione non è solo psicologico, ma anche strutturale: viviamo in una società che chiede velocità, adattabilità e cambiamenti continui, ma allo stesso tempo ci impone di seguire un percorso rigido, unidirezionale e definitivo. Questo modello non solo è anacronistico, ma è anche dannoso, perché impedisce ai giovani di sperimentare, di correggere il tiro e di trovare davvero ciò che li realizza.
Una diretta conseguenza di questa visione rigida della vita è l’ansia che colpisce tanto i giovani quanto gli adulti, entrambi costretti a rispettare tappe prestabilite senza mai “essere in ritardo” sulla tabella di marcia. I giovani adulti di oggi sperimentano livelli senza precedenti di Future Anxiety, un’angoscia alimentata non solo dall’incertezza economica e sociale, ma soprattutto dal conflitto tra due modelli opposti: da un lato, un mondo che impone velocità, flessibilità e cambiamenti continui; dall’altro, un sistema ancora ancorato all’idea che le decisioni di vita debbano essere univoche, definitive e, ovviamente, quelle giuste.
Questa pressione si traduce in un senso di urgenza costante: la paura di sbagliare strada, di restare indietro, di compromettere il proprio futuro con una scelta avventata. I giovani si trovano a dover prendere decisioni epocali quando ancora stanno cercando di capire chi sono, oscillando tra impulsi di ribellione e blocchi paralizzanti. E se è vero che, dal punto di vista cognitivo, gli adolescenti sono in grado di compiere scelte importanti, il loro contesto emotivo e sociale spesso li porta a navigare nell’incertezza, schiacciati tra aspettative irrealistiche e la paura di fallire.
Invece di vincolare le persone a decisioni immutabili, sarebbe più utile ripensare il concetto di percorso di vita, trasformandolo in un ciclo di apprendimento continuo. Immaginiamo un sistema in cui sia normale tornare a scuola o cambiare carriera più volte nell’arco dell’esistenza, riducendo così lo stress legato all’idea di “giocarsi tutto” in un’unica scelta a 18 o 25 anni. Immaginiamoci di vivere molteplici vite nell’arco dei nostri anni, senza il bisogno di definirci in base alla nostra unica professione. Forse è arrivato il momento di abbandonare l’idea che esista un’unica traiettoria valida per tutte e tutti e accettare che crescere non significa necessariamente avanzare in linea retta. La vera evoluzione dopotutto sta nella capacità di reinventarsi, di esplorare nuove strade senza il timore di essere “fuori tempo massimo”.