Pedagogia del teatro: scuola di umanità

Di Giulia Gioi
Educatrice, pedagogista e docente di sostegno presso l’IIS Codogno, sede E.Merli di Lodi.


Quando si lavora in una scuola professionale, specialmente all’interno di un indirizzo regionale come quello dedicato agli operatori delle produzioni alimentari, si ha quotidianamente a che fare con una realtà educativa complessa, dove la didattica tradizionale, intesa come trasmissione lineare di saperi, fatica ad attecchire. I ragazzi che ogni mattina entrano in classe portano con sé mani abituate al fare, corpi che apprendono agendo, gesti rapidi, istintivi, efficaci ma anche una certa riluttanza verso il pensiero astratto, verso il ragionamento critico e soprattutto verso la cooperazione profonda. Questo quadro non è di per sé un limite: è piuttosto una chiamata educativa. È una domanda che ci interroga su cosa significhi davvero apprendere in un mondo che cambia. In questo contesto, io come insegnante di sostegno e il mio collega di Italiano, abbiamo osservato che i nostri studenti sanno fare, sì, ma non sempre sanno perché fanno ciò che fanno. Sono operativi ma non riflessivi, reattivi ma non metacognitivi, lavorano bene da soli, ma si perdono nel confronto con l’altro. L’educazione civica, nella sua forma frontale, si deposita su di loro senza radicarsi davvero. E allora ci siamo chiesti: come possiamo aiutarli a pensare con le loro mani, a collaborare senza sentirsi costretti, a dare senso a ciò che vivono, invece di eseguire in automatico? È da questa domanda e dal nostro dialogo tra discipline e sguardi, che è nata l’idea di un percorso didattico trasversale fondato sul teatro, sulla narrazione simbolica del mito, sull’apprendimento attraverso il gruppo. Il nostro non è stato un semplice “laboratorio teatrale”, ma piuttosto un’esperienza pedagogica complessa, nata dal desiderio di avvicinare gli studenti al pensiero critico e al lavoro di squadra attraverso strumenti che parlassero alla loro natura concreta, sensibile, incarnata. Il mito, con la sua forza archetipica e rappresentativa, ci è sembrato il canale ideale per stimolare il pensiero. Il teatro, con la sua corporeità, la sua coralità, la sua capacità di mettere in scena emozioni e conflitti, ci è parso il luogo perfetto dove imparare a essere gruppo. Non volevamo spiegare il pensiero: volevamo provocarlo. Non volevamo parlare della collaborazione: volevamo metterla in azione. Dopo aver spiegato il mito, abbiamo cominciato con l’analisi di tre miti: Apollo e Dafne, Dedalo e Icaro e il Mito della Caverna di Platone. Ognuno di questi portava in sé una tensione educativa: il desiderio e il rifiuto, la fuga e la costruzione, la libertà e la prigione, il sogno e il limite. Abbiamo scelto miti non solo “affini” ai programmi, ma soprattutto capaci di accendere domande universali, nelle quali i nostri studenti potessero riconoscersi anche senza bisogno di avere strumenti didattici raffinati. Li abbiamo introdotti con una lezione frontale partecipata, cercando di costruire un primo contatto simbolico. Poi siamo passati all’organizzazione dei gruppi, ma prima abbiamo parlato di cosa significa “fare team”. Abbiamo spiegato che team è acronimo di Together Everyone Achieves More e non è solo una parola inglese: rimanda al concetto di cooperazione, al valore dell’interdipendenza, alla differenza tra gruppo e insieme di individui. Da qui siamo passati alla pratica, al fare. La classe è stata divisa in tre piccoli gruppi, ciascuno dei quali ha preso in mano i testi dei miti: insieme, gli studenti li hanno riletti, rielaborati e trasformati in sceneggiature. Hanno assegnato ruoli, cercato materiali, improvvisato scenografie, provato, discusso, litigato, ricominciato. Hanno imparato, in modo del tutto naturale, che per realizzare un’azione collettiva è necessario ascoltarsi, cedere, guidare, attendere, condividere. Il teatro si è fatto così luogo terzo: non più scuola, non ancora lavoro, ma spazio di incontro tra corpo e pensiero. I miti, drammatizzati davanti alla classe, hanno assunto forme sorprendenti, a volte goffe, a volte poetiche. Ma ciò che più ci ha colpito come insegnanti, non è stato lo spettacolo in sé, bensì il dopo. Al termine di ogni rappresentazione, i ragazzi hanno voluto (con nostra sorpresa) raccontare cosa avevano vissuto. Hanno spiegato il senso del mito, hanno raccontato come si erano sentiti nei panni dei personaggi, hanno discusso delle scelte fatte. Si è aperta così una fase spontanea di metacognizione, in cui la scena diventava specchio: un’esperienza che richiama le parole di Dewey, quando parla della scuola come luogo in cui si vive la vita, ma in forma mediata, simbolica, protetta. È stato in quel momento che abbiamo capito che stavamo toccando un terreno profondo: non solo stavano imparando a fare gruppo, ma stavano imparando a pensare il gruppo. Questo processo ci ha mostrato, ancora una volta, quanto sia urgente ripensare la didattica nei contesti professionali, troppo spesso vissuti come secondari, marginali e funzionali solo all’orientamento lavorativo. In realtà, è proprio in questi luoghi che la scuola ha una responsabilità fondamentale: offrire senso, parola, possibilità a chi spesso non se le riconosce. La didattica laboratoriale può così divenire una strategia efficace, oltre che una forma di giustizia educativa. È ciò che permette anche a chi ha difficoltà cognitive, relazionali, linguistiche, di accedere al sapere attraverso vie diverse. È una pedagogia che non esclude, ma include, perché parte dal corpo, dal fare, dall’esperienza e solo dopo arriva al concetto. L’approccio che abbiamo adottato si ispira alla tradizione dell’attivismo pedagogico, ma va oltre le etichette. È un approccio che riconosce il valore delle life skills, dell’empatia, del problem solving, del senso critico, della creatività. È un’educazione che mette al centro la persona intera e non solo lo studente. È un modo di fare scuola che si avvicina alla vita, aiutando i ragazzi a entrarvi in modo consapevole, riflessivo, critico. In un’epoca in cui i saperi sono ovunque, nella liquidità di una società disseminata tra media digitali, video, social media, la scuola non può più limitarsi a trasmettere nozioni. Deve diventare luogo di orientamento, spazio di senso, palestra di umanità. E questo è particolarmente vero per chi, come i nostri studenti, impara facendo, ma ha anche bisogno di essere accompagnato a pensare ciò che fa, perché lo fa, con chi lo fa. In questo, il teatro è stato un alleato fecondo: ha dato forma al caos, voce all’implicito, struttura alla relazione. Ha reso visibile ciò che nella scuola spesso resta invisibile: la trasformazione silenziosa del pensiero che prende corpo. Quello che resta di quest’esperienza non è tanto la riuscita dello spettacolo finale, ma la consapevolezza, emersa negli sguardi e nelle parole degli studenti, che apprendere non è solo memorizzare, ma mettere in relazione, esprimere, connettere, immaginare. Abbiamo visto emergere una classe nuova, non perché cambiata del tutto, ma perché capace di vedersi diversamente, con noi docenti insieme a loro. Insegnare non è mai stato così difficile, ma forse, proprio per questo, non è mai stato così necessario imparare di nuovo a farlo. Insieme.

 

 

 BIBLIOGRAFIA
Bauman Z., Vita liquida, Bari, Editori Laterza, 2006.
Dewey J., Cappa F. (a cura di), Arte, educazione e creatività, Milano, Feltrinelli Editore, 2023.
Marmocchi P., Dall’Aglio C., Zannini M., Educare le life skills. Come promuovere le abilità psico-sociali e affettive secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Trento, Edizioni Erikson, 2004.