Un laboratorio didattico del pensiero a Brescia

Dall’ottobre ’98 ha preso avvio un laboratorio di didattica del pensiero frutto della collaborazione tra la Il Università degli Studi di Milano e il Provveditorato agli Studi di Brescia. Il corso ha come oggetto il trattamento del disagio cognitivo e relazionale nella scuola media superiore attraverso le metodologie autobiografiche; è articolato su due anni e coinvolge trenta insegnanti di licei e scuole professionali di Brescia e provincia.

Il primo anno ha visto gli insegnanti impegnati nell’apprendimento della didattica del pensiero e dei fondamenti delle metodologie autobiografiche nell’educazione della mente nonché nella riflessione sul ruolo dei limiti della scuola nell’affrontare la condizione giovanile di disagio. Il secondo anno prevede la progettazione e sperimentazione di attività didattiche finalizzate al potenziamento della consapevolezza cognitiva e quindi all’elaborazione di strumenti didattici più vicini ai bisogni degli studenti, anche grazie al laboratori in orari extra scolastici.

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Un’indagine ricognitiva

Il percorso formativo nasce dal bisogno di conoscere più a fondo il disagio, latente e manifesto, che si osserva in modo sempre più massiccio e preoccupante, non solo tra i banchi di scuola ma anche dietro le cattedre. Il vissuto di disagio è sperimentato, infatti, anche dagli stessi insegnanti che osservano, con grande lucidità, le difficoltà della scuola a proporsi come luogo significativo di crescita culturale e personale.
Al fine di avere una prima panoramica sulla condizione giovanile, è stata approntata una auto-intervista proposta agli alunni non prima che gli stessi insegnanti si sottoponessero alla medesima riflessione; esiste infatti un’etica dell’educatore autobiografo che prevede che ogni tappa del percorso formativo autobiografico sia prima sperimentata personalmente.
Questo consente, oltre ad una più approfondita conoscenza delle metodologie, di divergere per una categoria – quella degli insegnanti – che sperimenta raramente il ritorno nei panni del discente. Il corso infatti non è concepito come un aggiornamento, dove il flusso dell’informazione è unidirezionale, ma come un vero e proprio percorso formativo che vede gli insegnanti attivamente coinvolti in prima persona e chiede loro di mettersi in discussione.
Dopo questa tappa preventiva, le autointerviste sono state sottoposte a 616 alunni, maschi e femmine, di tutte le scuole, dalle classi prime alle quarte. L’autointervista, che attiva un’indagine ricognitiva qualitativa sul vissuto di disagio, è strutturata in gruppi di domande – stimolo che indagano il rapporto con il proprio pensiero e la consapevolezza dello stesso, sia nella propria esperienza generale, sia in rapporto all’ambito scolastico. Più in particolare l’intervista consente di:

  • far emergere i diversi stili cognitivi personali, messi in atto da ogni alunno;
  • esplicitare risorse cognitive non riconosciute;
  • indagare il ruolo della scuola e degli insegnanti nella storia di formazione dei ragazzi;
  • far emergere la dimensione affettiva del conoscere;
  • costituire un primo momento di riflessione sulle proprie modalità di pensiero, con contenuti, quindi, già formativi.

I risultati della ricerca

Un primo gruppo di domande richiedeva una descrizione del proprio pensiero; per lo più i ragazzi si avvalgono di modalità evocative usando immagini metaforiche molto ricche ed elaborate:

“Simile ad un albero, il vento può scuotere le fronde e i rami, ma ci sono le radici profonde che mi tengono saldo e poi il vento passa. Poi arriva l’acqua e magari trattiene qualcosa e poi ci sono le radici che vanno in profondità, sempre più giù, sempre più giù”.

“Un uccello che vola libero tra le nuvole perché cambia di volta in volta come le correnti del vento che una volta va a nord e un’altra a sud”. Modalità che sembrano piuttosto lontane dal modelli cognitivi proposti a scuola. Gli insegnanti stessi segnalano come essa si caratterizzi tradizionalmente per la sua tendenza ad enfatizzare la dimensione logico – razionale a discapito di quella affettivo – relazionale. Tale frattura contribuisce ad allargare ed approfondire il divario esperienza-scuola e ad acuire il malessere dell’essere alunno. Anche la dimensione fantastica viene ricondotta al proprio modo di pensare, descritto come “fantasioso”, “sognatore”, “fuori dagli schemi”, “un viaggio immaginario nel subconscio”. Viene da chiedersi come un siffatto pensiero possa trovare spazio per esprimersi in una scuola che invece tende a far rientrare tutto in schemi rigidi e precostituiti, in un ambiente definito dagli stessi insegnanti come stantio.
Un’altra rosa di questioni proponeva di descrivere come e in quali situazioni i ragazzi ritengono che il loro pensiero lavori bene. Il buon funzionamento del pensiero non è disgiunto, a detta degli alunni, dall’ottenimento di risultati concreti e, in particolare, dai buoni risultati scolastici; un pensiero che lavora bene coincide, dunque il raggiungimento di “bei voti”. A questi è strettamente legata anche l’autostima, al punto che eventuali insuccessi scolastici investono l’intera persona e vengono concepiti come fallimento generale. La buona riuscita scolastica è vissuta, invece, come mezzo per ottenere credibilità e accettazione da parte degli insegnanti e degli adulti in genere. Anche il livello relazionale, insieme ai risultati, compare infatti, come elemento determinante nel giudicare il pensiero, che è definito efficace “Quando gli altri mi danno ragione e mi dicono che sono intelligente” e ancora: “Quando la gente mi ascolta”. Ottenere il consenso altrui ed essere Visibile, soprattutto agli occhi degli adulti, sembra costituire un importante
conferma delle proprie capacità. Questo costituisce un’indicazione importante per gli insegnanti che – aiutati dalle metodologie apprese durante il corso – potranno stimolare la narrazione autobiografica, restituendo ad ogni alunno il senso della propria identità, nonché il diritto di essere riconosciuto come individuo con la propria unicità. Il bisogno di differenziarsi è, infatti, evidente in molte risposte in cui il pensiero viene definito come “assolutamente unico”, “diverso da chiunque”. in contrasto, ci sembra, con la tendenza a concepire, invece. la classe come entità indifferenziata.
Il racconto si rivela, allora, potente strumento di cambiamento: prestare attenzione all’altro da una parte e sentirsi ascoltato dall’altra, consente di attivare una comunicazione più significativa e quindi un clima relazionale meno freddo, con conseguente ricaduta sul rendimento scolastico. In questo senso l’autointervista stessa costituisce una prima forma di attenzione al singolo, che gli offre lo spazio per raccontarsi.
La lontananza avvertita dal ragazzi nel confronti degli insegnanti trova ulteriore conferma nelle risposte alla domanda: ‘M sembra che il tuo modo di pensare assomigli a quello di qualcuno che conosci, oppure che non conosci ma che ammiri?”, dalla quale emerge che le figure di riferimento più importanti sono i famigliari e gli amici, mentre non compaiono gli insegnanti. Infine, tra il gruppo di domande relative al rapporto pensiero/ scuola, una è particolarmente significativa: “La scuola potrebbe fare qualcosa per insegnarti .O pensare meglio? No. Perché? /Si. Che cosa?”.
Per lo più le risposte mettono in luce la sfiducia nei confronti della scuola; la maggior parte delle risposte è, infatti, negativa: Come illustra la mappatura, tale sfiducia viene ricondotta all’incapacità della scuola di incidere sulle proprie potenzialità cognitive: secondo i più, il pensiero non è educabile, né modificabile. Per molti il pensiero sembra essere sinonimo di mentalità e in questo senso insegnare a pensare meglio, viene avvertito come un’imposizione esterna sulle proprie opinioni e convinzioni, sentite come molto lontane da quelle incarnate da gli insegnanti. Insomma: la vita – là, fuori – e non la scuola insegna a pensare meglio. Tra le risposte affermative: ritorna il tema relazionale, già presente nel resto dell’intervista, insieme ad altre tematiche cruciali pure ricorrenti: un più stretto dialogo alunni/insegnanti viene indicato come facilitante: “Si dovrebbe ascoltare di più gli studenti e consigliarli, invece che proseguire sempre con paraocchi della propria materia”. Anche la necessità di colmare la distanza tra scuola e mondo della vita, appare come bisogno fortemente sentito insieme alla possibilità di esplorare le proprie potenzialità anche attraverso attività creative.
I dati fin qui emersi mettono in luce alcuni aspetti del disagio che possono essere affrontati attraverso lo sviluppo di atteggiamenti didattici adeguati a far emergere e potenziare le risorse cognitive dei giovani, nonché a migliorare la qualità della vita a scuola.
Le autointerviste contengono importanti suggestioni che non possono essere lasciate cadere, dal momento che appaiono più come richieste d’ascolto che come forme di chiusura dei ragazzi nel confronti della scuola.
L’ascolto è il presupposto di ogni relazione e l’insegnante non può giocare il suo essere in relazione arroccandosi nel rigido ruolo istituzionale, con l’ingenua pretesa di essere trasmettitore neutro di sapere; non può eludere la fame di attenzione che contraddistingue l’adolescente, relegando e riducendo l’ascolto delle sue parole solo al momento giudicante dell’interrogazione. Deve, al contrario, non solo rendere possibile ma anche incoraggiare la narrazione di sé, aiutandolo ad esplicitare e comunicare i suoi bisogni, così da attivare una co-costruzione del percorso formativo che sia veramente condiviso. Solo così si restituirà al discente il ruolo di protagonista della propria formazione e si stimolerà il senso di responsabilità nei confronti della propria crescita.