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RITORNO A BIVONA

di Duccio Demetrio

Salvare qualcosa del tempo

in cui non saremo mai più

Annie Ernaux

Noi non passeggeremo mai più su nessuna riva abbracciati.

Vieni, passeggiamo almeno in questa poesia

Izet Sarajlic

L’ esergo tratto dal perturbante libro autobiografico “Gli anni” della scrittrice francese, mi aiuta ad introdurre le mie righe. Mentre la citazione del poeta di Sarajevo, mi consentirà di concluderle.

L’ uno e l’ altra si ispirano all’ amico scomparso, all’ autore di Giardino sicano cui le dedico. Sono una sintesi della sua presenza umana e di poeta, tra le più persuasive e folgoranti che più di recente mi sia stato dato leggere. Ma riassumono il sentire profondo, l’ inquietudine sottile, trattenuta o tangibile, anche di tutti coloro che si siano dedicati e si consacrino all’ arte povera della scrittura di sé. Con quelle umiltà, pudicizie, onestà, lungimiranze che rappresentano l’ anima nobile di questo singolare, antichissimo, sovente clandestino genere letterario. Con buona pace di chi si ostini a ritenerlo, con sprezzo, un rifugio intimistico soltanto consolatorio. Salvatore Guida ha saputo mostrarcene tutta la dignità, l’ eleganza e la finezza. Scrivere attingendo alla propria vita la materia del proprio narrare è quell’ atto reverente verso chi ci ha conosciuti e verso chi credeva di conoscerci. Tale si rivela quando nella moltitudine degli stili, dai più ricercati a quelli più scarni e plebei, esso riesca a mostrarci in modalità senza pretese, sommesse, spesso sapienziali, tutta l’ ingiuria e lo scandalo intollerabile, per chi scompare e per chi resta, del nostro dover “uscire” dal tempo. La scrittura ci consente di farlo sempre a testa alta e mai ad occhi socchiusi.

Scrivere un’ autobiografia, quale ne sia l’ impegno profuso, quali le parti che hanno in essa trovato maggior rilievo, è un atto di coraggio, un accenno persistente al congedo già vicino o affidato alla roulette dei giorni imprevedibili; è un dono che ci facciamo e facciamo agli altri, nell’ apprensione però di importunarli per questa nostra ulteriore spoglia cartacea da seppellire o bruciare. Ogni libro scritto in prima persona, ogni diario, ogni epistolario aspirerebbe ad avere almeno un lettore: ed è sincero chi apertamente, come ha voluto essere a Salvatore, dichiari la sua intenzione senza ipocrisie. Quando, lasciandoci le parole scelte con cura per raccontare ai nipoti come si svolse la sua mitica infanzia sicana, ben oltre ogni edonistico compiacimento, ha saputo esprimere tutto il senso, il mandato, il testamento morale e poetico che egli volle affidare a queste sue pagine. Leggendole non una ma più volte poi però ti accorgi senza sforzo che, in sordina o esplicitamente, l’ ulteriore destinatario è chiunque raggiunti gli anni della maturità si trovi nell’ imbarazzo di seguirne l’ esempio. Ed ancora non si sia reso conto che scrivere un’ autobiografia, sia pure di una parte della propria vicenda, è fare una scelta impegnativa e senz’ altro in controtendenza. Salvatore ne era senza dubbio consapevole, tale vocazione apparteneva al suo stile di vita, privato e pubblico. Quante volte l’ ho sentito prendere posizione contro il disprezzo attuale per la memoria, contro la mancanza di riconoscenza, contro l’ esaltazione dell’ effimero. Contro, scrive nell’ introduzione, “ l’angoscia della dispersione”, e per questo non c’ è da stupirsi quando già nelle prime riflessioni spiega a chi vorrà leggerle le motivazioni che l’ hanno indotto a scrivere:

Sto cercando di far sopravvivere, attraverso voi, attraverso il mio raccontarmi a voi, la mia storia, la mia vita, il mio esistere ed essere come sono perché, prima di me, altri ci sono stati che a me hanno lasciato parte di loro.

Sono trascorsi quasi quindici anni dalla prima pubblicazione di Giardino sicano. Mi chiedo se Salvatore l’ avrebbe lasciato così come lo consegnò allora allo stesso editore, qualora fosse stato lui a deciderne la ristampa e non chi lo ha amato e gli è ancora amico. Mi domando inoltre se, nel suo perfezionismo “creativo”, avrebbe avuto la tenacia di resistere alla tentazione di riprenderlo in mano. Di rivederne alcuni passaggi, di aggiungervi altri ricordi e considerazioni. Non fosse altro per includervi gli anni del suo non avere mai smesso di crescere ancora, come uomo e come nonno. Nel frattempo, i nipoti cui questo memoriale pedagogico, e non solo tale, era ed è destinato sono diventati più grandi; anzi tra loro c’è chi ha raggiunto l’età che, secondo l’ autore, li avrebbe posti nella condizione di comprendere queste pagine e che l’ indussero a sceglierli come primi lettori. Affidando pur sempre ai genitori la scelta della circostanza migliore nella quale consegnar loro Il giardino. Non ne fa mistero e lo spiega:

Ho deciso, quindi, di mettermi a scrivere e queste mie pagine le consegnerò ai vostri genitori: decideranno loro quando sarà il momento giusto per farvene partecipi.

Poi proseguendo aggiunge:

Io, per parte mia e per quanto possibile, non posso fare altro che cercare di far somigliare quel che scrivo a quello che — e al come — vado raccontando, a parole, quando lavoro, insegno, vivo la città e le persone che conosco.

Ignoro se, tra il 2003 e il 2015, comunque prima della sua scomparsa Salvatore abbia visto sciolto felicemente il dubbio che lo preoccupava rispetto a se stesso, e cioè:

Che possa interessarvi qualcosa di come io elaboro le mie frustrazioni, coltivo pensieri e ripensamenti, interrogo il mio ombelico.

Non so infatti, nel corso di questo lungo tempo, come sognava e ne ha scritto, li abbia mai raccolti attorno a sé con bonomia maieutica e socratica, se non per leggere loro queste pagine, ma almeno a raccontare a voce le sue memorie. Quasi si trattasse, la sua vita, non tanto di una fiaba seppur intelligente e non di maniera, bensì di un intreccio di storie vere sempre dotate di una spiegazione, di un insegnamento a “vivere”. Per riprendere il recente saggio di Edgar Morin. Dove questo non fosse mai da ritenersi univoco, piuttosto da affidare alla libera interpretazione dei lettori. Alla intrinseca problematicità di ogni concetto, di ogni esperienza, di ogni storia. Per farli ragionare sugli esiti dei suoi ricordi di tempi lontani evocati in una sorta, sempre, di “realismo magico”. Per suscitare negli ascoltatori di casa, avidi di leggendario, una percezione del mondo non solo “sicano”. In ogni caso con quella seduzione narrativa che li ponesse nella condizione di educarli e di introdurli all’ epica e alle poetiche dell’ esistenza.

Non ho voluto chiedere a Maria, né ai suoi figli, quale sia stata la sorte di queste pagine, dopo la prima apparizione del libro. Né lo farò al momento della nuova uscita. Mi piace immaginare che Salvatore abbia voluto rompere anzitempo quel patto con se stesso; che non abbia resistito – lui per primo – a rivelare loro questo segreto di famiglia , che abbia invogliato i figli, che so ?, nel giorno del compleanno dell’ uno o dell’ altra a trarre dal cassetto quel dono speciale. Che si sia messo a leggerlo, rompendo il patto dichiarato. A tal punto da suscitare oggi, negli ormai ragazzi e giovani nipoti, il desiderio quindi di rileggerlo con la stessa emozione che vissero quando il nonno in prima persona lo aprì, consegnandolo loro, con l’ autorevolezza e la solennità dovuta all’ evento.

Mi piace immaginare, si tratti di finzione o di realtà, che con la sua voce affumicata e tonante abbia, con assoluto disarmo, letto con una cadenza e un piglio arcaico venuta dalla terra e dal mare momenti come questi:

Amo anche, e forse di più, navigare nell’ampio mare della memoria, in quel liquido affollarsi di ricordi che mi hanno spinto a scrivervi di me. Perché scrivere, perché scrivere di sé? Ho dato altre risposte in altri momenti; oggi mi posso, e vi posso, rispondere che scrivere è anche confessarsi… Mi vado chiedendo anche se tutto questo scrivere, questo raccontarvi di me, dei miei parenti, della mia terra, non sia una sorta di espiazione. O se, piuttosto, in questa esposizione del sé, in questa che la Maraini chiama l’impudicizia autobiografica di chi scrive, non ci sia, ancora, il ragazzino migrante che vuole esibire il percorso che ha fatto, gli ostacoli che ha superato, le conquiste che si è sudato.

È probabile che io, come tanti, del resto, abbia, senza averne piena consapevolezza, qualche conto aperto su cui debbo ancora ragionare e sul quale vorrò ancora scrivere, ma sono paziente, della pazienza siciliana che dilata le emozioni all’infinito e stravolge la sensazione del tempo piegandola alla necessità.

E’ ben difficile del resto nascondere, questo penso, in un cassetto, nella scansia fuori portata della libreria, “qualcosa” che abbia già conosciuto la dignità di stampa. Gira per casa, se ne accenna e allude durante un pranzo in famiglia, attizza curiosità. La scelta dell’ autore, del protagonista, del narratore, del personaggio ( quanti ruoli svolgiamo contemporaneamente quando scriviamo la nostra autobiografia! ), nonché del lettore Salvatore Guida, mi è dunque oscura. Dinanzi a questa mia ignoranza, la mia curiosità, potrebbe apparire forse eccessiva e fuori luogo. Ed invece credo che la questione ( la riassumo: il libro è stato consegnato o no ai legittimi destinatari in questi anni? ), tanto più immedesimandomi nelle ragioni e nella filosofia complessiva del libro, non debba essere trascurata. Si tratta di un lascito simbolico che prevedeva l’ osservanza di un patto: il momento da ritenersi pedagogicamente migliore per lo svelamento. Avverrà finalmente con questa riedizione? La famiglia Guida riunita l’ ha letto negli ultimi giorni dell’ autore o in quelli dolorosi del commiato e degli addii? Ad ogni modo che il patto sia stato sciolto prima del tempo, che il “Giardino” sia stato aperto per la prima volto nei giorni dell’ addio, la sua forza vitale, l’ energia travolgente che sa sprigionare, l’ eco della voce risonante di Salvatore nel leggere le sue parole, non avranno potuto che aggiungere potenza a queste pagine e riconoscere loro la gratitudine che già si meritavano e che ancor più, ora, si sono guadagnata

E’ vitale, comunque, che “Giardino sicano” possa avere una seconda vita per chi già lo lesse e per chi ne venne tenuto all’ oscuro; che possa riapparire in libreria, circolare tra amici e colleghi che lo scrittore hanno amato, stimato, accompagnato nelle sue idee condividendone le molte passioni, le sfide, qualche follia intellettuale e di politica culturale. Conobbi Salvatore circa vent’ anni fa: a tutte le proposte di lavoro, di scrittura, di partecipazione a seminari e corsi, che mi fece nel corso degli anni non seppi mai dirgli di no. “L’ uomo dalla voce rauca”, il sanguigno signore siculo – casentinese – lombardo dalle cento sigarette fumate una dietro l’ altra anche a cavallo, l’ irrompere della sua presenza nei più disparati convegni, più intento a invitarti a seguirlo chissà dove in un prossimo progetto, ma con un orecchio attentissimo a quanto il relatore di turno dicesse nel frattempo, ne hanno fatto un mito cui era impossibile negare una richiesta o un appuntamento. Anche il più strambo, il più azzardato, forse qualche volta anche il meno accattivante.

La nostra amicizia, quei colloqui consueti ad Anghiari, tra i vicoli del borgo e ai pranzi dalla Nena; quelle sere nebbiose in qualche paese deserto appena fuori Milano a parlare a non più di tre o cinque persone al massimo di scrittura autobiografica, di educazione, di utopie, di un mio saggio recente apparso su Pedagogika, sono altrettante immagini che riaffiorano dal passato remoto e prossimo ( e purtroppo non venturo ), nel mentre ne scrivo. Nitide, salienti, comiche talvolta. Ridere di sé, di noi, con lui, di tutto e di niente, è sempre stato uno spasso che valeva il viaggio. Riusciva a portarmi ovunque, perché in ogni caso in quell’ incontro, quale ne fosse la natura e il numero dei presenti, sarebbe stato divertente e affettuoso ritrovarci.

Ora dunque il libro riappare ed è importante che gli sia stata riofferta questa occasione. Ho tentato di spiegarlo al lettore che Salvatore mai conobbe e a tutti noi che ancora ne percepiamo l’ irruente presenza fisica. Non solo perché non è più tra noi, né tanto meno per un rito dovuto, per altro non così frequente in simili circostanze. Ma in quanto, soprattutto, si tratta di un’ opera autobiografica ancora attualissima; anticipò una letteratura di genere ora alla moda e assai frequentata, uscendo quasi all’ unisono insieme al diario di Piero Bertolini dedicato alla nipotina Giorgia. Inoltre, non possiamo sottovalutare le sue considerazioni extra-personali in merito al compito dello scrivere di sé stessi, almeno soltanto per sé, e non solo per chi speriamo ci legga un giorno e ogni tanto torni a sfogliarci. Sono considerazioni illuminanti come queste, tra le altre ma meno dirette, che vanno meditate da chiunque intenda seguirne le orme, nonna o nonno, poco importa:

Scrivere è poter riprendere brandelli di vita sciupata o mal vissuta, poterci tornare sopra, studiarsi con occhio anche pesantemente autocritico e cercar di riposizionare sentimenti e ricordi in un modo tollerabile e, soprattutto, comunicabile.

Significa anche saper uscire dalla vertigine di sapersi al centro di uno strano gioco di relazioni dovuto all’età ed alle strane combinazioni che la vita, a sorpresa, riserva. Sapere che sei, insieme, figlio, marito, padre e nonno e chiedersi se tutti questi ruoli sei, davvero, in grado di reggerli.

Mi rammentano l’ ultima intervista rilasciata da Antonio Tabucchi a pochi mesi della sua morte: quando il giornalista gli chiese quale fosse per lui i motivi che l’ avevano indotto a scrivere. Ed egli rispose che scrivere è non avere paura dei paradossi, poiché si scrive ad esempio talvolta perché si ha paura di morire, ora quando si ha paura di vivere. Così come forse scriviamo perché si ha nostalgia dell’ infanzia e si cerca di trattenerla in quel prolungamento, pur sempre in un’ illusione di eternità, che la scrittura asseconda; ma anche perché vorremmo strapparla una volta per tutte dalla memoria. Credo che Salvatore, posto dinanzi alle due alternative, in entrambi i casi, avrebbe scelto sempre la prima risposta. Così come se avrebbe apprezzato l’esergo di Annie Ernaux, avrebbe avanzato qualche dubbio, brontolando e accendendosi un’ altra sigaretta, leggendo queste sue altre parole:

Si annienteranno d’ un tratto le migliaia di parole che sono servite a nominare le cose, i volti delle persone, le azioni e i sentimenti, che hanno dato un ordine al mondo, che ci hanno fatto palpitare…tutto si cancellerà in un secondo…

Insieme le avremmo risposto che la partita a scacchi con l’ oblio, la scrittura la vince sempre. Perché non ci getta fuori del tempo, ma fosse anche per un secondo, se quelle parole le avremo ad essa affidate, torneranno – lette da qualcuno o da nessuno – indietro in quel non tempo che è la letteratura.

Non è vero che cari agli dei siano soltanto coloro che morirono giovani. Anche chi ha voluto scrivere almeno una parola importante della propria vita, lo è. Anche una sola, se oracolare, ne può valere mille e più di mille. Non per sé soltanto, perché la scrittura, la più semplice, schiva, pur se ignorata, è pur sempre creatrice di un tempo diverso, riscattatosi da ogni durata. Soltanto così: “ Un giorno saremo nei ricordi dei figli in mezzo in mezzo a nipoti e a persone che non sono ancora nate” – o nei ricordi dei figli e dei nipoti che mai nasceranno – “ Come il desiderio sessuale, la memoria non si ferma mai. Appaia ai morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginari, il sogno alla storia .“1

1 A. Ernaux, Gli anni ( 2008),tr.it. L’ orma, Roma 2015,pp.266,13.

Marta Franchi*

In un mattino tiepido mi siederò in un prato

E tornerò giorno per giorno nel passato

E solcherò le rapide della mia fantasia,

dei giorni di poesia

Spenderò attentamente la mia sincerità

Parlerò di rivolta con caparbietà

Seguirò, traccerò un sentiero ovunque sia

Una strada forse buia, forse, ma mia

Supino lungo un argine ricorderò gli amici

E quanto fossimo distanti dai nemici

Per poi trovarci fragili ai trucchi dei bugiardi

Ma poi le cose cambiano e tutto lascia il segno

E impari l’arte del cinismo e del contegno

E credi di essere libero, diverso tra gli eguali

Che il mondo ha un’altra faccia da sotto i tuoi stivali

Spenderò attentamente la mia sincerità

Parlerò di rivolta con caparbietà

Seguirò, traccerò un sentiero ovunque sia

Una strada forse buia, forse, ma mia

P.A. Bertoli

1996-2015 è il Tempo e la Strada che abbiamo condiviso, solcato e tracciato a volte insieme a volte lontani ma vicini.

Ero alla mia prima esperienza professionale, appena terminati gli studi superiori e in corso quelli universitari e sulla mia strada, professionale e di vita, ho incontrato Salvatore Guida, un Pedagogista… un Uomo.

Un pedagogista, un Filosofo, un Intellettuale convinto che l’esperienza educativa in tutte le sue espressioni avesse bisogno di acquisire e “tracciare” una sua dignità scientifica come ambito di studi e di ricerca e che proprio la pedagogia, come scienza, potesse svolgere questo compito.

Mai ho avuto la sensazione che l’Uomo pedagogista lasciasse da parte, anche solo per un momento, l’essere filosofo e soprattutto un filosofo dell’educazione. Anzi sempre ha cercato di porre il problema educativo in molti ambiti: la scuola, l’extra-scuola, i servizi per i più piccoli, la consulenza, i servizi sociali, l’editoria, la formazione, la famiglia…

Il pensiero pedagogico accompagnava i ragionamenti e la strutturazione dei servizi, dentro una cornice, filosofico-educativa, che in molti casi assumeva connotazioni di tipo morale, ideologico affiancata dalla ricerca sul campo, da un approccio empirico che lo interrogava e interrogava chi lavorava con lui continuamente, perchè mai ci si è fermati pensando che quella situazione fosse stabile. Ma sempre il “viaggio” educativo ci ha chiamati a ripensarci, riguardarci e riorganizzarci… e ancora oggi è così.

Nel tempo si è costruito un patrimonio di esperienze, di pratiche educative condivise che ha visto molto pensiero nelle azioni realizzate dagli educatori che, insieme a Lui, lavoravano e lavorano in un’organizzazione professionale contraddistinta dalla cooperazione e dalla condivisione di un pensiero pedagogico-educativo laico e per tutti, la Coop. Sociale STRIPES Onlus1.

Nella cooperativa possiamo dire di aver costruito un vero e autentico patrimonio pedagogico e culturale che mantiene inalterata la sua vitalità, mostrandosi e ponendosi ancora come materia viva per la riflessione e la ricerca in ambito educativo.

La figura del pedagogista Salvatore Guida è passata attraverso l’esperienza in campi e ambiti diversi e assunzioni di responsabilità  educative in cui mettere in gioco tutta la sua “creatività” filosofico-pedagogica e di Uomo di Cultura.

Cultura che può ritenersi un retroterra di risorse intellettuali basate su un rigoroso impianto Filosofico a cui fare riferimento nella prassi delle esperienze educative che si è trovato ad affrontare e delle sfide con cui si è misurato. Questo stile ha permesso di rendere nel tempo la Cooperativa e le attività  svolte, una realtà di servizi di qualità e innovativi in ambito educativo.

Dove l’idea di cambiamento in educazione non si riferisce soltanto ad aspetti materiali, concreti e misurabili oggettivamente, ma anche alla visione del mondo, all’allargamento della propria capacità di dare senso a se stessi, al rapporto con gli altri, con le cose, a partire dalla stessa quotidianità.

Possiamo pensare a un dialogo continuo con se stessi e con gli altri ma anche con le altre scienze che accompagnano l’agire pedagogico. Spesso durante le giornate lavorative in Cooperativa, intense e ricche di scambi e domande sul “da farsi”, mi capitava di entrare in questa “dimensione dialogica continua” con Salvatore.

Ecco che in questi momenti ho compreso quanto la pedagogia non può essere un semplice discorso, generale, sull’educazione poiché questo approccio rimane lontano dalla ricaduta reale, dall’offrire spazi educativi autentici alle persone che li attraversano. Ecco che proprio in questa dimensione ciò che ha contraddistinto la “dimensione dialogica continua” con Salvatore è stato l’imparare la disposizione costante all’apertura e al dialogo, uno stile che davvero, caratterizza l’Uomo-Pedagogista Salvatore e l’approccio che la Cooperativa, da lui fondata, ha verso la progettazione e la realizzazione dei suoi servizi educativi.

L’impostazione è sempre quella di avvicinarsi all’ambito educativo abbattendo i muri che separano i vari campi disciplinari, almeno fino all’altezza che consente di guardarsi e di parlarsi vis-a-vis, di scavalcare quel muro e passare momentaneamente l’uno nel campo dell’altro, o di “misurarsi ad armi pari”. Il pedagogista, consapevole della complessità  dell’educazione e ritenendo tale complessità come un fattore strutturale, si abitua a leggere ciò che lo circonda da molteplici aspetti, punti di vista e non entra in “crisi di identità” per questo spazio, anzi sta al gioco di perdersi nei sentieri delle altre scienze per poi ri-trovare il proprio percorso.

Salvatore come Riccardo Massa è un pedagogista che non esitava a sostenere l’idea che “L’Educazione è una sporca faccenda, ed è inevitabile sporcarsi le mani”.

Nella progettazione delle attività e dei servizi offerti all’interno della cooperativa possiamo dire che quando si apre un dialogo o una riflessione critica su un determinato argomento, innanzitutto si parte da ciò che su di esso è stato prodotto, per poi per confermarlo o disconfermarlo sulla base di nuove acquisizioni.

Questo movimento di pensiero da cui poi si generano attività concrete è sempre stata una caratteristica di tutto ciò che Salvatore andava a realizzare e a trasferire nei servizi educativi ed extra-educativi. Lui sapeva fare cultura e “fare scuola” all’altezza delle sfide dei nostri tempi. Stile raro ai giorni nostri ma di cui tutti sentono il bisogno, soprattutto chi sta iniziando a conoscere e sperimentare il mondo dell’educazione.

Questa idea di conoscenza e di sperimentazione vede Salvatore partire anche dai più piccoli, dall’infanzia e dare spazio a una pedagogia dell’infanzia che nasce con l’offerta di spazi educativi (asili Nido) per i più piccoli che assumono, nell’impostazione Stripes, la forma di veri e propri laboratori d’esperienza e di crescita, caratterizzati da momenti di contaminazione tra saperi scientifici diversi ma complementari. Soprattutto ciò che da sempre mi ha affascinata era l’importanza del coordinamento pedagogico, del momento di metariflessione che a tutte le azioni realizzate veniva dedicato. Questo è stato e continua ad essere in Cooperativa l’impostazione con cui si affronta l’organizzazione di servizi educativi, continuando a confrontarsi con esperti e ricercatori di discipline affini alla pedagogia e non. L’approccio alla progettazione e all’attuazione dei servizi è quello interdisciplinare e interistituzionale e ciò è la ricchezza che Salvatore ha saputo raccogliere in tanti anni di pratiche educative e pedagogiche. Questo stile ha consolidato uno stile Stripes che ha portato la cooperativa ad avere una specificità d’azione educativa nei servizi per la prima infanzia e per le realtà dei bambini e giovani e delle loro famiglie. Una specificità che ha un

suo modello pedagogico che intende la pedagogia come scienza dell’educazione.

Nei momenti, lunghi, intensi con una scenografia ricca di fumo da sigaretta, ricordo una complessa disquisizione sul tema dell’intercultura al Nido. Tutto cominciò dalla domanda: perchè fare già percorsi di intercultura fin dal Nido.

Ecco che il momento di dialogo si è sviluppato attorno a questo stimolo. É nota l’affermazione della signora che rivolgendosi al giovane senegalese gli dice: “No caro, non sono io che sono razzista, sei tu che sei negro!”. Ecco se intendiamo costruire una società  accogliente, dobbiamo sapere di dover combattere, preliminarmente e per sempre, il “razzista che può essere in noi”, e dunque non limitarci a sorridere a questa battuta, ma impegnarci in una autoriflessività  che, rapportandosi a quella altrui, smascheri i nostri alibi più nascosti. Con queste argomentazioni Salvatore mi convinse dell’importanza di proporre percorsi formativi alle educatrici e attività laboratoriali ai bambini di tipo interculturale. Perchè è fondamentale imparare a conoscere i propri modi di conoscere. Essere consapevoli che la propria lettura di sé e del mondo dipende dagli “occhiali” che si indossano, da un punto di vista cioè che è parziale e relativo e che solo dall’incontro-confronto con quello degli altri può correggere la sua visione parziale.

Gli anni di lavoro e attività  pedagogica che mi ha vista iniziare come educatrice e poi crescere, specializzarmi ed arrivare ad essere e sentirmi una Pedagogista, hanno avuto un Maestro importante, un Uomo che sempre ha interagito con me e con tutte le persone che a vario titolo incontrava sulle sua strada con un atteggiamento di profonda cooperazione, collaborazione.

Un atteggiamento che ha fatto sì che ci si potesse confrontare e sostenere reciprocamente accomunati dall’ispirazione e dall’impegno ad ampliare lo spettro del possibile per i soggetti educativi. Poi, rafforzarsi nella capacità di non lasciarsi sedurre dai giochi di potere e dalle chiamate al conformismo, tanto diffusi e incalzanti, in qualunque espressione si manifestassero e su qualunque piano promettessero gratificazioni al nostro narcisismo professionale e personale. Solo a questo punto si può avere la possibilità di risultare credibili, di fronte a noi stessi ancor prima che di fronte ai nostri soggetti educativi, nell’intraprendere una linea di resistenza orientata in direzione di impegno: pedagogico, sociopolitico ed etico.

La Resistenza, come afferma A.Roy2, non può essere di facciata, richiede la tensione alla coerenza e la continuità dell’impegno nella quotidianità e non solo nelle occasioni speciali e di parata. Educare bambini e giovani all’esercizio critico, ad esempio, vuol dire offrire loro una molteplicità di “paia di

occhiali” al posto dell’unico paio dominante e condiviso, vuol dire sostenerli nel percorso di straniamento e solitudine che può comportare l’essere “fuori dal gregge”.

In un’età della vita in cui l’aggregarsi ad altri dà sicurezza, vuol dire offrire loro la possibilità di un apprendimento del conflitto che permetta il confronto, resistente e pacifico, con punti di vista divergenti. E dunque quello tra la direzione che perseguiamo e il segmento di strada che faticosamente siamo in grado di percorrere, nel nostro agire quotidiano devono rivelarsi, ai nostri interlocutori, tracce, segni, indizi della resistenza che stiamo portando avanti: nello svolgimento del nostro lavoro, nello “stile” del nostro comunicare, nella nostra capacità di ascoltare e di confrontarci e, soprattutto, di appassionarci a progetti, iniziative che abbiano come obiettivo la ricerca dell’innovazione e lo sviluppo della solidarietà.

Questo stile pedagogico R-Esistente implica e ha implicato sempre il tempo da dedicare alla riflessione, allo studio, all’elaborazione di nuovi repertori di conoscenza e di esperienza: dissociandosi dalla chiacchiera vuota di contenuti e dalla corsa a un fare che è generalizzato, sempre identico, monotono copione.

É così che la resistenza può intercettare bisogni in ombra, ma forti, di educazione, da parte dei soggetti e della collettività, e individuare percorsi e contenuti che riescano a guadagnare più spazio, più voce, più realizzazione. La costanza nell’impegno della quotidianità e il coraggio dell’utopia sono gli ingredienti che hanno nutrito e nutrono lo stile pedagogico che Salvatore ha tracciato, che ha reso possibile prefigurare un nuovo modello di servizi educativi-pedagogici tesi a individuare, progettare e condividere inedite e inattuali direzioni di significato.

Giorno per giorno, “ciascuno” – scrive P. Bertolini – “nei luoghi in cui trova e nelle funzioni che esercita, deve sempre di nuovo chiedersi quale possa essere la sua responsabilità politica, che è contemporaneamente responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Pensare politicamente e agire politicamente significa riscoprire il senso della politica, la responsabilità dell’educazione, la necessità che queste due esperienze dell’uomo sappiano rapportarsi l’una all’altra; e significa la possibilità di scoprire o riscoprire la gioiosa fiducia di pensare e di agire sensatamente3.

Su queste istanze, su questo approccio la voce, l’impegno, il segno di Salvatore Guida continueranno ad essere un punto di riferimento, di riflessione, di assunzione di responsabilità, di partecipata e stimolante operatività culturale, pedagogica, educativa, civile.

1www.stripes.it

2 R. Mantegazza, Pedagogia della resistenza. Tracce utopiche per educare a resistere, Enna, Città Aperta, 2003

3 P. Bertolini, Educazione e politica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003

Anna Rezzara

Conobbi Salvatore Guida negli anni ‘90, all’Istituto di Pedagogia dell’Università Statale. Una mattina entrando nello studio di Riccardo Massa li trovai a colloquio e Riccardo, con la sua voce forte fattasi solenne come a sottolineare un incontro importante, me lo presentò così: “Anna, voglio presentarti Salvatore Guida, pensa, lui è un pedagogista e ha una famiglia tutta pedagogica, lui fa davvero pedagogia, lui e i suoi credono davvero che si possa pensare e fare pedagogia!”.

Ho iniziato subito, conoscendo Salvatore, a capire che cosa volesse dirmi Riccardo Massa, l’ho compreso bene in tutti gli anni in cui, ognuno dalla sua postazione, abbiamo condiviso discorsi, pensieri e progetti pedagogici, e sento oggi, ricordandolo, che la presentazione di Riccardo Massa fu una sintesi efficace e in qualche modo profetica di chi è stato ed è Salvatore e di che cosa ha costruito. Perché non solo lui e i suoi familiari sono una presenza e una voce essenziale nel discorso pedagogico e nel lavoro educativo, ma questa famiglia si è allargata ad essere una famiglia professionale – la Cooperativa Stripes, la rivista Pedagogika – che continua, sul percorso aperto da lui, a praticare ed affermare con coerenza la possibilità di non disgiungere mai lavoro e imprese educative, riflessione pedagogica e impegno sociale.

Ho compreso anche, negli anni, che cosa volesse dire per Salvatore essere pedagogista e i motivi che facevano pensare a Riccardo Massa che lui era una figura eccellente, rara e preziosa nel nostro mondo. Salvatore era un pedagogista e “faceva davvero pedagogia” perché convinto davvero che l’educazione è una cosa da fare e da pensare; è pratica concreta e rigore teorico; è faccenda che richiede cultura e sapienza, capacità di agire e di intraprendere, creatività; è prassi che deve mettere in campo idee, pensiero, e passione; è impresa tutt’altro che facile e che non si può improvvisare: “varrebbe la pensa di non smettere mai di interrogarsi su come possa essere migliorato il lavoro dell’educare” scriveva recentemente, nel suo impegno a “evidenziare e nutrire le responsabilità educative degli adulti”. Tutte le sue imprese, i suoi progetti, tutti i suoi discorsi incarnavano questa convinzione e facevano perno sulla fiducia nell’educazione e sulla necessità dell’educazione.

Penso spesso, ora, che Salvatore è tra le persone da cui ho imparato qualcosa ogni volta che l’ho incontrato, ogni volta che abbiamo lavorato insieme, ogni volta che abbiamo chiacchierato. Senza che mai si erigesse a maestro, senza che mai il suo sapere e le sue convinzioni non si aprissero alla disponibilità e al gusto del confronto, della condivisione, del dubbio.

C’è un felice incontro di caratteri, spesso distinti e opposti in altri, che mi ha sempre colpito in lui: rigore e radicalità insieme ad apertura al confronto e interrogazione sistematica; solide e lucide convinzioni pronte a confrontarsi e a contaminarsi col nuovo e il diverso; grande capacità di azione e di intraprendere e raffinata elaborazione teorica, una teoria che sapeva essere molto concreta e una pratica sempre illuminata dalla teoria. Nell’incontro con Salvatore ho trovato sempre una apertura, una curiosità, una disponibilità alla collaborazione e a nuove imprese, totali, generose, entusiaste: si collocava sempre e subito nelle nuove ipotesi, le faceva sue e sapientemente cominciava a costruire scenari, a prevedere mosse, a individuare possibilità e criticità. A pensare e lavorare al progetto: perché nella sua pedagogia, fondata sul nesso necessario tra esperienza e riflessione sull’esperienza che si fa teoria, il progetto è lo snodo cruciale. Una voglia instancabile di progettare, di leggere e interpretare i bisogni educativi per farvi corrispondere non una semplice risposta ma un progetto illuminato da un’idea, da una visione. Idee che muovono pratiche educative, esperienze e pratiche che costruiscono consapevolezza pedagogica. Con un’attenzione sempre vigile a che il lavoro educativo non indulga a derive tecnicistiche, da un lato, né a inflessioni genericamente umanitarie, dall’altro.

Ho pensato, ogni volta che sapevo di suoi nuovi progetti e iniziative, che queste imprese esprimevano e sperimentavano un’idea pedagogica, che traducevano un’esigenza e spesso un’urgenza educativa, che davano corpo a una questione pedagogica aperta e calda. Gli dicevo spesso che la sua cooperativa mi appariva come luogo di realizzazione e sperimentazione di idee e progetti centrali nel mio lavoro pedagogico: è stato così per l’educazione della prima infanzia, per la consulenza pedagogica, per la formazione degli educatori, per il lavoro con le famiglie.

Nel suo leggere e interpretare la realtà, i contesti, le relazioni, mi sembra di poter individuare delle attenzioni costanti: un approccio sempre multidisciplinare; il rifiuto di ogni luogo comune, stereotipo, come di idee e teorie sterili e autoreferenziali che pretendano di fare sintesi e ordine del reale; la tensione a vedere, osservare i soggetti reali, i destinatari del lavoro educativo, a comprendere autenticamente senza sovrapporre immagini e filtri. Così, pensando ai servizi per l’infanzia, ci ricordava l’esigenza di guardare e ascoltare “il bambino reale, i bambini veri e diversi, e non quelli detti, costruiti, immaginati, ricordati, reinventati, adultizzati di cui molti a sproposito parlano”, per restituire ai bambini il diritto di esistere, di essere bambini, e di avere degli adulti educatori.

Per tutto quello che Salvatore Guida è stato, ha aperto e mostrato, ha costruito; per tutto quello che ci ha insegnato; per il percorso condiviso con lui, fatto di incontri sempre pieni, ricchi, felici, densi, vivi; per dirgli che siamo qui a continuare, sulle sue tracce, mi piace ritrovare le sue parole che ci invitano a “dare corpo alle idee e ai sogni pedagogici di chi a questo mestiere ci crede e non ha paura di giocare a tutto campo”.

Mariangela Giusti

Ho conosciuto Salvatore Guida solo negli ultimi anni grazie a un’iniziativa che ho ideato e avviato e che egli ha molto apprezzato, centrata sulla Convenzione Internazionale sui Diritti dell’infanzia, sull’educazione per tutti, sulla didattica inclusiva. Si tratta del Festival Il Diritto di Essere Bambini, la cui prima edizione si svolse nel 2009 presso il Museo Triennale di Milano. Il contatto e la conoscenza avvenne attraverso la dottoressa Marta Franchi, responsabile dell’Area Minori, settore Migranti e Disabili di Stripes, che aveva informato Salvatore del fatto che la Cattedra di Pedagogia interculturale dell’Università di Milano Bicocca, di cui sono responsabile, stava organizzando un’occasione d’incontro centrata sugli articoli della Convenzione, rivolta a bambini, ragazzi, genitori, insegnanti. Nei giorni seguenti fu lo stesso Salvatore a telefonarmi, facendomi presente la volontà di Stripes di essere partner dell’iniziativa. Per quella prima edizione Salvatore, con Stripes, mise a disposizione una piccola somma di denaro che consentì di stampare presso una copisteria un libriccino (realmente di piccole dimensioni: 12×12) con gli articoli della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia in versione semplificata, leggibile in autonomia da parte di bambini e ragazzi, e tradotti in tre lingue (arabo, giapponese, cinese). Il libriccino (Giocare, Capire, Imparare nei Laboratori dei Diritti, Milano, Copisteria Digicopy, 2009, pp.44, s.p) fu stampato in 1500 copie e fu distribuito gratuitamente, durante le quattro giornate del Festival, a bambini, ragazzi, genitori, insegnanti, educatori partecipanti. Quel libriccino segnò l’avvio della collaborazione fra Salvatore Guida/Stripes e la Cattedra di Pedagogia interculturale in relazione al Festival1. In effetti, i diritti dell’infanzia, la didattica inclusiva, l’educazione per tutti erano davvero tematiche che rientravano a pieno titolo nella sua maniera d’intendere la pedagogia, l’educazione e

la formazione: le vedeva come operazioni complesse e creative che devono muoversi partendo da un interesse genuino da parte di chi ne è responsabile. In più occasioni ho ascoltato Salvatore nei suoi interventi pubblici e varie volte ho colto nelle sue parole il riferimento al fatto che l’educazione e la formazione esigono il coinvolgimento con la dimensione sociale dell’esistenza degli esseri umani (adulti e bambini). Tante iniziative (mi riferisco a quelle che conosco, che certo non sono tutte) alle quali Salvatore ha dato avvio nel suo ruolo di Presidente e Direttore scientifico di Stripes sembrano rappresentare tante diverse maniere per manifestare concretamente una sua idea che ritorna e che sempre si rafforza, cioè che la singolarità delle persone si realizza meglio nella pluralità. Ritengo che proprio per questo motivo Salvatore abbia mostrato interesse verso il Festival Il Diritto di Essere Bambini, perché rappresentava un ulteriore modo per dare rappresentazione e concretezza alla dimensione sociale di un evento pedagogico.

In seguito alla collaborazione per la prima edizione del Festival, nel 2009, sono stata coinvolta come formatrice o come esperta in alcune iniziative avviate da Salvatore e da Stripes: ogni volta che partecipavo a un seminario di formazione o a un convegno oppure a un incontro di aggiornamento per insegnanti mi rendevo conto che si trattava di occasioni molto spesso all’avanguardia, per certi versi perfino anticipatrici, in quanto erano organizzate e si svolgevano in territori periferici, nei quali è più consueto che si radicalizzi una pedagogia routinaria piuttosto che una pedagogia innovativa e attenta ai bisogni sempre nuovi degli utenti, piccoli e grandi.

In alcune di quelle occasioni capitava che fosse presente lo stesso Salvatore Guida, talvolta col ruolo di coordinatore, talvolta come relatore2. In questi casi mi appariva evidente la sua attenzione autentica ai bisogni formativi dei partecipanti e delle partecipanti ai gruppi di apprendimento. Un tratto che apprezzavo molto era il senso di responsabilità che mostrava di avere nei loro confronti: l’ho visto più volte restare attivo anche durante la pausa; approfittava del tempo per continuare a parlare con le insegnanti più scettiche o più dubbiose o perfino più palesemente esitanti verso le idee trasmesse durante la sessione di lavoro precedente. Restava a parlare con loro, ascoltava i dubbi, le perplessità e (magari fra una sigaretta e l’altra) aggiungeva ulteriori spunti, riprendeva argomenti trattati e cercava di calarli nel contesto specifico di quel paese o di quella piccola città; spiegava, precisava, eliminava dubbi. Al contrario di lui, in quegli stessi momenti di pausa, avevo necessità di soffermarmi, di evitare di parlare ancora, di riprendere un po’ di energia per affrontare la seconda parte del pomeriggio di lavoro e così mi capitava di osservarlo: sembrava che l’intento di Salvatore fosse che i messaggi, le indicazioni etiche e metodologiche trasmesse attraverso le relazioni o le comunicazioni, non dovessero cadere nel vuoto, ma anzi, al contrario, dovessero quanto prima radicarsi in coloro che erano stati presenti e avevano ascoltato, per non rischiare di disperdersi (come talvolta accade nel mondo della scuola). Nella costruzione progressiva e nella messa in pratica di una riflessione a più voci sull’educazione i suoi interventi erano sempre molto ascoltati e riportavano alla dimensione sociale dell’educazione stessa come passaggio necessario e come obiettivo per la buona convivenza.

La sua personale esperienza di vita (che aveva sperimentato la migrazione dal Sud al Nord Italia) e poi l’esperienza d’insegnamento e di formazione facevano sì che nei suoi interventi vi fossero spesso dei rimandi alla questione della coesistenza nel medesimo gruppo sociale di tanti individui appartenenti a microgruppi diversi, che possono mantenere tracce della propria identità, nella prospettiva di un’apertura al gruppo più ampio attraverso il riconoscimento e il rispetto delle convenzioni, delle normative, delle leggi condivise. Ribadiva la necessità di una pedagogia che riesca a operare (o che perfino riesca a battersi) per riconoscere a tutti la parità dei diritti civili e sociali3. Tutto questo a partire dalla conoscenza, dal rispetto e dall’accettazione dei valori fondanti della Costituzione.

Tutte le volte che mi è capitato di parlare con Salvatore Guida o di ascoltarlo parlare in pubblico, mi è sempre apparso come una persona che non smetteva di porsi degli interrogativi sul valore sociale e sulle possibilità della pedagogia, senza mai sottovalutare il fatto che il compito di chi insegna e di chi educa è un compito critico e difficile. Gli insegnanti e gli educatori come prima cosa devono imparare a dare senso a ciò che accade in classe, tenendo conto che, come ha affermato il pedagogista Paulo Freire in uno scritto del 1995, non è obsoleto parlare ancora di oppressi: esistono oppressi nelle società rurali, nelle metropoli multietniche, nelle città di media grandezza4. La condizione di oppressione è un dato di fatto, scriveva Freire, non si può far finta che non esista e non si può prescindere da essa. Gli educatori hanno molte responsabilità: hanno il compito di lavorare con gruppi di persone (minori e adulti) formati anche da chi appartiene alle minoranze e dunque hanno il dovere di studiare e cercare di capire le condizioni sociali, economiche e culturali che portano alle disuguaglianze.

Un approccio pedagogico riflessivo molto simile a quello espresso da Freire è quello che ci ha lasciato Salvatore Guida: è un approccio che egli ha trasmesso a tanti suoi educatori e a tante sue educatrici e che si rivelerà sempre più essenziale nei gruppi di apprendimento dei prossimi anni, nei quali il compito sarà certo complesso e ogni volta spiazzante. La lezione di Salvatore Guida tornerà a mente nel lavoro quotidiano di molti per i quali in questi anni è stato Maestro: la dimensione sociale della pedagogia è garanzia primaria per la tutela dei diritti di tutti.

1 Lo stesso tipo di partnership fu ripetuto per la seconda edizione del Festival (nel 2011, sempre al Museo Triennale di Milano). La partnership si ampliò per l’edizione 2012 del Festival (ancora in Triennale) nella quale, oltre alla stampa del libriccino, Salvatore stesso in prima persona propose di curare una performance teatrale molto bella insieme agli artisti Francesca Paganini e Maurizio Pini del Gruppo Magaluna; propose inoltre un laboratorio centrato sulla tematica dell’identità (I bambini nella commedia dell’arte, condotto da educatori esperti di Stripes). La collaborazione è proseguita per l’edizione 2013 del Festival, svolta presso l’Istituto Beata Vergine Ausiliatrice (IBVA) di Milano, nella quale diversi laboratori furono condotti, su proposta di Salvatore, da educatori esperti di Stripes. Ci tengo molto a essere precisa in questo breve resoconto in quanto, proprio grazie all’intuizione profetica e alla volontà di Salvatore Guida, il format del Festival Il Diritto di Essere Bambini è stato presentato come risposta a un bando promosso da Cascina Triulza, il settore riservato al sociale di EXPO, l’Esposizione Universale di Milano. Salvatore, insieme ai suoi collaboratori, ha curato tutta la parte relativa alle complesse procedure burocratiche e amministrative necessarie per partecipare al bando. E’ bene ricordare che fra 197 progetti presentati ne sono stati scelti e accolti 98, fra cui il Festival. Dunque, grazie a STRIPES, e in particolare a grazie a Salvatore, la quinta edizione del Festival si è svolta, purtroppo a pochi mesi dalla sua scomparsa, nel settembre 2015 in EXPO, presso il Padiglione Società Civile Cascina Triulza. E’ stata un’edizione molto bella, dedicata esplicitamente a Salvatore Guida. Sono certa che ne sarebbe stato molto fiero. Colgo l’occasione di questo scritto per ringraziare di nuovo Salvatore Guida, come ebbi modo di fare più volte a voce per telefono, per lo spirito d’iniziativa e per la capacità di intravedere le potenzialità del Festival all’interno del Padiglione Società Civile di EXPO. Ringrazio Maria Piacente e Dafne Guida per aver portato a termine l’impresa avviata in EXPO da Salvatore. Grazie anche a Marta Franchi per aver mantenuto vivi i contatti fra Stripes e la Cattedra.

2 Dal 2009 al 2015 sono stata coinvolta da Stripes in circa sette/otto seminari, convegni, occasioni di formazione, aggiornamento che si sono svolte in paesi e città del tutto sconosciute per me che non sono lombarda, dunque hanno rappresentato anche delle opportunità privilegiate per conoscere il territorio lombardo. Ricordo per esempio il convegno di Legnano (su Educazione e viaggio, presso la Sala Ratti), due incontri molto belli a Desio, un pomeriggio di aggiornamento con insegnanti a Cerro Maggiore, un seminario a Rho (a Villa Burba), alcuni incontri di formazione per insegnanti di vari ordini e gradi a Como, Cassano, San Vittore Olona. Due volte è venuto Salvatore stesso a prendermi alla stazione con la sua macchina (mi pare fosse una jeep di colore scuro, forse blu). Di queste occasioni conservo due ricordi molto netti, relativi alla sua personalità: la velocità e la sicurezza nella guida e la gentilezza. Si preoccupava infatti d’incaricare sempre qualcuno (di solito educatori di Stripes o colleghi relatori) di riaccompagnarmi alla stazione al termine del pomeriggio di lavoro.

3 Queste idee le troviamo espresse anche in: S. Guida, Pedagogia dei diritti e laboratori: l’esperienza di Stripes, in: AA.VV., Forme Azioni Suoni per il diritto all’educazione, Milano, Guerini, 2015, pp. 133-135.

4 Sono idée espresse in un dialogo fra P. Freire e D. Macedo pubblicato nel 1995 sulla «Harward Educational Review» (due anni prima della morte di Freire). Cfr. P. Freire, D. Macedo, Cultura, lingua, razza. Un dialogo (a cura di D. Zoletto), Udine, Forum, 2008.

Emanuela Mancino

Ho rimandato a lungo la scrittura di queste righe. Un po’ per incredulità, un po’ per sconforto e soprattutto per prolungare la possibilità che le parole continuassero ad essere dialogo che diviene e non si compie.

Per poter continuare a dire e ad ascoltare le parole con Salvatore Guida forse la strada è quella di porsi nella felice condizione della conversazione, dello stare insieme mentre la voce dà corpo ai pensieri. Mi metto allora in dialogo con quei ricordi condivisi che già avevano incontrato voce tra noi e la sensazione è quella di sentire, nettamente, il fluire e l’andamento del fraseggio di Salvatore, quasi contenesse un tono basso, un tappeto sonoro della riflessività, basso e costante, ed acuti fatti di pungoli e provocazioni, accompagnati da sguardi non meno sonori delle parole.

Di solito, dicono, la voce è una delle parti che svaniscono più in fretta di una persona.

Con lui non sta accadendo e non accade.

Mi rendo conto che la sua voce ed il suo parlare erano tutt’uno con i pensieri che ho di lui, con l’idea della sua prassi pedagogica ed esistenziale, con il suo punteggiare di sé il mondo intorno.

C’è una sorta di coerenza percettiva che abita il pensiero di Salvatore e che pervade il ricordo di lui.

Pensare la sua voce attualizza il suo essere nel mondo, il suo stare tra le cose e le persone. Derrida descrive la voce come prossima all’anima, in quanto ne istituisce la coscienza.

La trascrizione della voce in scrittura impone una spaziatura, una distanza tra il pensiero e l’atto di dire.

La voce di Salvatore è pensiero vivo, ancora parlante. La sua scrittura è la traccia di un pensiero che desidera avvicinarsi sempre di più all’altro, creando una relazione dialogica che è tale solo se si inserisce nei termini di una dimensione che a Salvatore è sempre stata molto cara: la comprensione.

La comprensione assume un ruolo colmo di sfaccettature: costituisce il grande enigma che sfida la curiosità interrogativa dell’uomo nel percorso della sua storia, si spinge verso i paradossi di sé e degli altri.

Comprendere è stato, di volta in volta, per Salvatore, affacciarsi sul senso umano, sulle relazioni, sulle esperienze di scambio io-tu, sul vivere dialogico. Il dialogo come parte fondante della comprensione, come categoria esistenziale per eccellenza, ha mosso progetti filosofici, educativi, esistenziali.

L’attitudine dell’incontro con l’altro che più di quindici anni fa ci fece conoscere fu alla base di un progetto di due anni, di costruzione dialogica, autobiografica, narrativa delle identità migranti di un gruppo che il giovedì sera si trovava a San Giuliano Milanese, per costruire e ricostruire itinerari esistenziali.

Tutti siamo ed eravamo migranti, tutti avevamo attraversato cambiamenti e sconfinamenti. Tutti avevamo vissuto un’attesa del varco e avevamo superato soglie.

Salvatore fu il primo ad esporsi, divertendosi a mostrare a chi si trovava in un paese straniero quanto ci fosse di inesplorato in ciascuno di noi e quanto nello scambio e nella relazione educativa si potessero portare ad espressione e quindi all’esistenza e all’esperienza quei tratti di storia non ancora visitati.

Conducevo un laboratorio impegnativo, allora… Ogni settimana cambiava scenario, ogni settimana le persone con cui si lavorava erano diverse. Qualcuno nel frattempo aveva trovato lavoro, qualcun altro arrivava di volta in volta. Nessuna forma di continuità era garantita. Nessuna forma di programmazione era possibile.

In più, tra i partecipanti c’era Salvatore!

Ancora oggi ripenso a quell’esperienza come a una delle più intense palestre di formazione per un formatore. Non solo di volta in volta vedevo saltare ogni tipo di ipotesi progettuale immaginata di settimana in settimana (e si trattava ogni volta di quattro ore di formazione da ripensare totalmente e velocemente), ma l’imprevisto richiedeva sempre improvvisazione, insieme a quella forma vera di stare in aula con gli altri e sentirne l’interazione, che fa di un educatore o di un maestro un essere responsabile e che i testi insegnano a chiamare autenticità, presenza, azione.

L’identità di ciascuno di noi, in quei giovedì in uno scantinato in cui scambiavamo e costruivamo mondi, continuava a mutare.

Ben presto, data anche la comune passione di Salvatore e mia per il mare, non ci fu difficile scorgere un elemento narrativo che percorreva e legava le storie di milanesi doc, di donne e uomini del sud dell’Italia, di nordafricani, di rumeni, di ex cittadini di quei paesi da cui si scappava e si continua a scappare… Quel luogo che non è un luogo, ma che è attraversamento, passaggio, su cui si percorrono rotte che non possono essere tracciate, che non si possono vedere, ma di cui rimane profonda memoria, quel mondo liquido di trasformazione e itineranza continuava ad affacciarsi ad ogni discorso, ad ogni percorso, ad ogni giovedì.

Persino una donna rumena che il mare non lo aveva mai visto, iniziò a sentirlo nella propria affabulazione, nel proprio incontrare l’altro attraverso approdi, arcipelaghi di speranza e golfi di protezione e custodia.

Mentre si procedeva nella conturbante metafora viva del mare, le parole entravano nelle storie individuali e collettive per restituire memoria, per costruire progetti.

Ricordo che la condivisa passione per l’etimo e la classicità costituì uno degli altri elementi di intesa con Salvatore. Scavammo nei lemmi di famiglia, nella lingua delle radici lontane.

Fu quasi senza credere alla follia dell’idea, che concepimmo il progetto di concludere il corso portando tutti i partecipanti lì dove le parole che fluttuano per raccontare avevano trovato il modo di contenere altre parole, per dare sale e sapore ad altre partenze. Con un pullmino e con il brivido di portare con noi persone che, senza un regolare permesso di soggiorno non avevano mai avuto l’ardire di muoversi dalla provincia milanese, tremavano di ebrezza e timore, andammo al mare!

L’idea era quella di costruire una breve storia filmata che contenesse le storie di tutti.

Ma più di ogni altra cosa, il progetto era quello di dare espressione a ciò che era stato evocato come desiderio, come bisogno. Trovare nello sguardo al mare quell’intensità che parlando di altro, poi, Salvatore definì il “farsi artefici della propria sorte e della propria rivalsa” (A Buon diritto, Pedagogika, 2012, XVI_3) era la meta principale e l’approdo non certo conclusivo di quei due anni scanditi dagli appuntamenti del giovedì sera.

Dopo quel corso, seguirono altre iniziative educative, percorsi di attraversamenti e possibilità, costruendo occasioni di dialogo tra bambini nati da disastri ambientali e sociali e famiglie e territori ospitanti e non meno smarriti nell’incontro con l’altro.

Nacque così l’amicizia con Salvatore, nacque e si fortificò così la stima per lui e per quel suo saper essere maestro senza farsi chiamare così.

Ma non era lievità, la sua, non era mitezza o ritrosia. Tutt’altro.

Per tornare alla sua voce o anzi, per far tornare la sua voce, il suo timbro non taceva, non si sottraeva, ma faceva, agiva. E con forza. Come facevano i poeti antichi, con le parole. Quando creavano mondi e possibilità per altri e per sé di abitarli.

Teorie e prassi forti, le sue, provocatorie e insieme delicate, caricate di un senso esistenziale profondo. E si tratta di un senso che Salvatore non dava alle sue azioni, ma che lui, agendo, esprimeva.

Ho pensato più volte che questa fosse la sua opzione radicale: l’espressione.

L’espressione propria e degli altri ha costituito non solo una strategia educativa, ma un vero e proprio tema generativo della pratica e della riflessione di Salvatore Guida.

È in questo terreno che si sono inserite le sue analisi e le sue progettazioni, per cogliere possibilità e limiti dell’educazione, per dar vita ad un pensiero pedagogico che porti l’educatore ad ingaggiarsi socialmente e politicamente, a percepire le possibilità dell’azione sociale e culturale nell’impegno della trasformazione e del cambiamento.

Una voce che provoca, quella di Salvatore, che chiama davanti, che chiama all’appello. Che rende presente e spinge oltre.

Ma la sua voce è anche sottofondo di scavo, è impegno nella propria antichità di uomo, per percorrere la propria consapevolezza.

Una volta, parlando della sua storia familiare, si ricordò di un nome, di un modo di dire siciliano, ma comune a molti dialetti di quella vasta e carsica Magna Grecia che fa emergere di tanto in tanto poeti della relazione umana. Si ricordò come si indicava il bisnonno o la bisnonna, chiamandolo con la voce all’indietro tutta ellenica: catananno.

Quel catà che è oltre, in su, contro o in conformità, con lo scopo o durante… quel catà che è tempo più attento, che rievoca chi non c’è più e ridà voce a chi sa prendersi l’impegno di dire parole, ho sempre pensato che fosse la cifra della sua paideia, del suo creare famiglia del proprio impegno sociale, del suo andare all’indietro per andare avanti, del suo contenere opposti per poter contenere un mare grande di ricordi e famiglie che lui, tutte, legava a sé.

Quel catà è movimento e spinta, voce che incita e si sofferma, che ripercorre le radici di un luogo che nella scrittura si è fatto metafora di memoria e che ho avuto l’onore di presentare quando il suo affresco di Bivona si offrì alla lettura, quel catà è la vivacità del dialogo inesausto, che ritrovo in una frase di un filosofo che su incontro e relazione ha costruito un sistema di pensiero e che con un’ironia onomastica ribattezza un carattere di Salvatore.

La responsabilità di ogni azione educativa, la forza della comprensione e la tutela dell’espressione come possibilità progettuale di sé e degli altri, hanno dato vita ad una relazione educativa che Martin Buber definiva, nei suoi Discorsi sull’educazione, necessariamente dialogica.

L’autenticità del dialogo risiede nel riconoscere l’esperienza di reciprocità, permettendo alla voce dell’altro di continuare ad essere differente. Una differenza che porta con sé una sublime malinconia, da tutelare e vivere con coraggio.

Mi si conceda qui allora il maiuscolo, per arrivare alla citazione di Buber che ha guidato queste parole. Mi si conceda il maiuscolo, far sorridere un amico: “Solo la forza che comprende è Guida”.

Francesco Cappa

Stimavo molto Salvatore Guida. Lo conoscevo poco, le nostre strade si sono spesso incrociate ma non c’è stata l’occasione di una frequentazione assidua, continua. Lo conoscevo come si può conoscere un monte d’isola, specie come quelli che si osservano prima dal mare, prima di approssimarsi e scegliere di prendere terra. La sua generosità, che ho avuto la fortuna di conoscere, mi è sempre parsa una forma rovesciata della sua profonda riservatezza.

Ne stimavo la coerenza professionale, la passione per un modo di pensare e praticare la pedagogia che ha condiviso con me, con Riccardo Massa, che ci ha presentati per la prima volta. La capacità di immaginare scenari e di realizzare progetti che ha caratterizzato tutta la vita, non solo professionale, di Salvatore Guida ha mostrato a molti di noi un modo di agire che non perde il contatto con la convinzione che ogni atto pedagogico è sempre eminentemente politico: convinzione che in lui si manifestava nei termini di una necessità etica, proveniente da un impegno presente fin dalla gioventù.

Gli effetti della sua vita e della sua professione rispecchiano oggi pienamente questi tratti. Tali effetti testimoniano di una tenacia, di una forza che la sua presenza fisica rendeva emblematica, di una lungimiranza a volte che spesso ha zittito scettici e benpensanti: il suo modo di prendere spazio nel dibattito scientifico e nello spazio pubblico è stato il frutto di un lavoro costante con gli accademici, i professionisti, le istituzioni, i politici, gli operatori, gli “utenti” che prima di tutto erano sempre visti come soggetti della polis.

Queste poche considerazioni in me s’intrecciano con ricordi più personali e con discorsi che ancora avrei voglia di condividere con lui, con realtà che avrei voglia di costruire insieme a lui, con prospettive di significato che voglio approfondire con chi continua a lavorare e pensare a partire dalla sua traccia o meglio, credo lui avrebbe preferito un’immagine più ctonia, a partire dal suo solco.

L’assenza di Salvatore Guida e i segni della sua presenza hanno provocato in me alcune riflessioni sul significato dell’eredità e dell’ereditare che credo sia uno dei compiti che il lavoro pedagogico dovrebbe affrontare con autenticità e rigore, per non consentire al tempo che viene di trovarci più soli.

Le cose non rimangono mai uguali, le cose non rimangono mai intatte. Tutto scorre, fluisce, muta, finisce.

La vita lo insegna: eppur si muore.

Lo sguardo clinico sulla vita, sul vivente, ancora prima di ogni visione nosografica, indica che ogni vita è segnata da una continua morte: se non si comprende questo rapporto strutturale, tra la vita e le morti che la punteggiano, difficilmente si potrà comprendere il senso e il significato della vita stessa. E non solo della vita dei corpi, ma anche quella dell’essere umano, delle cose stesse. La morte segna un passaggio, anche un passaggio di “cose”, materiali e immateriali, organiche e inorganiche, riconoscibili e non riconosciute. In questo passaggio, che in realtà segna quasi ogni momento della vita di ognuno, si incontra la questione dell’eredità e l’esperienza dell’ereditare.

I protagonisti dell’eredità devono essere disposti a veder mutare quello che passa.

Questa restituzione coincide con il momento in cui chi riceve riconsidera il valore di ciò che riceve, ma ancor di più riconsidera il valore della trasmissione stessa. Ciò che di sostanziale passa, quando c’è un’eredità, quando siamo in presenza di una trasmissione di conoscenze, di competenze, anche in senso economico, non è soltanto ciò che l’altro ci invita a custodire, ci insegna o costringe a fare, ma soprattutto qualcosa che è dell’ordine simbolico, che è la posta segreta dell’eredità, cioè ci passa un certo sentimento dell’esistenza, di quello che deve sopravvivere nella trasmissione.

Questo tratto, che potremmo chiamare “restituzione”, come ha suggerito di recente Francesco Stoppa, è invisibile e indicibile per chi passa il testimone. Forse per questo sopravvive. È in questo “di più” che viene trasmesso ed ereditato insieme alle “cose”, nello stesso momento in cui le “cose” ci raggiungono, che si svela un certo modo dell’essere formati a essere umani.

Si rivela qualcosa e qualcosa ci è rivelato da chi ci ha generato come genitore, da chi ci ha insegnato come maestro, da chi ci ha incontrato, anche professionalmente, come mèntore. Ognuno di noi, pedagogicamente, è continuamente generati: non si tratta, ovviamente, solo della generazione biologica, ma nasciamo, non solo professionalmente, più di una volta, grazie a qualcun’altro che si occupa di questa generazione, che prepara e attende questo passaggio.

Quello che si rivela nell’esperienza viva della trasmissione è un modo singolare di amare ciò che si fa e di amarci in quello che si fa. Per questo la relazione dell’apprendistato può essere così significativa, come modello formativo, perché riguarda il valore stesso della trasmissione. Perché dovremmo prendere questa eredità e trasmetterla a nostra volta, se non perché sentiamo la pulsazione di questo sentimento dell’esistenza, che riguarda qualcosa che non è coincidente con l’altro, che riguarda qualcos’altro e che potremmo chiamare oggetto d’amore (formativo)?

Da un punto di vista pedagogico credo che un modo di comprendere questa eredità dei saperi riguardi la possibilità di riannodare il mondo della vita e il mondo della formazione. Il mondo della vita e il mondo della formazione costruiscono un nodo essenziale della nostra esperienza e questo nodo va tematizzato da un punto di vista pedagogico, va elaborato in modo che faccia segno di qualcosa che è solo nostro, che riguarda il modo in cui noi abitiamo la relazione formativa. Quindi si tratterà di comprendere il nodo che indica quel “di più” che distingue, che rende accessibile e più contattabile il “chiasmo” – questo termine è stato introdotto da Angelo Franza nel discorso pedagogico – che mette in figura i modi in cui siamo stati formati e quelli che stanno alla base di come formiamo. Se non mettiamo in relazione queste due esperienze, difficilmente potremo capire come ci troviamo e ritoroviamo nell’evento dell’incontro che ogni situazione formativa genera. E, ancor meno, potremo comprendere cosa e come ereditiamo.

La comprensione di come si annodano queste due dimensioni, il mondo della vita e il mondo della formazione, diventa un punto irreversibile della propria learning biography se lo si vede nella sua autenticità, nella sua unicità, da cui ogni nostro gesto formativo, ogni nostro gesto di trasmissione, non potrà che ripartire, perché fa segno di qualcosa che è singolarmente nostro. Dice come il sapere si è singolarizzato e soggettivato in noi e attraverso di noi.

Come si può interpretare la questione dell’eredità, della trasmissione di conoscenze e competenze in una prospettiva pedagogica?

L’insegnamento può essere considerato, oggi più di vent’anni fa, il paradigma della testimonianza. Perché si testimonia attraverso di esso, non solo a scuola. Da una parte c’è il passaggio dei contenuti, ma anche del sentimento esistenziale che dà sostanza a questa trasmissione. C’è, però, qualcos’altro che riguarda squisitamente il pedagogico nella questione dell’eredità: è qualcosa che richiede una traduzione formativa.

Se ogni eredità parte da una fine, io parto da “La fine della pedagogia nella cultura contemporanea”. Così si intitolava un ciclo di incontri organizzato da Riccardo Massa, presso la Casa della Cultura di Milano quasi trent’anni fa, in cui si metteva a tema la squalifica di quel campo di sapere antichissimo, rappresentato dalla Pedagogia. Già allora Massa diceva che questo sapere era completamente svalutato da una molteplicità, da una congerie forsennata di discorsi sull’educazione, sulla formazione, sull’istruzione.

Quale eredità inaugura quello spazio in cui noi cerchiamo di ripensare questa fine della pedagogia? La fine, non la morte. Non si può che partire da questo, scriveva Massa nelle conclusioni del testo che raccoglieva gli esiti di quegli incontri pubblici: “occorre affrontare congiuntamente almeno tre questioni (quelle che sostanzialmente non hanno permesso alla pedagogia tradizionale di avere buon conto nella cultura): qual è il luogo, qual è il pubblico e quindi qual è il linguaggio di una nuova possibile pedagogia?”.

Quel testo finiva con questa domanda. Io cerco di ereditare questa domanda insieme a quella che Franza, dalla sua prospettiva, già anni prima aveva rivolto al sapere pedagogico interrogando il problema della conoscenza che struttura questo sapere “speciale” che, spesso poco considerato, va al cuore della fondazione delle scienze umane.

Ogni eredità è inaugurata da una fine, ma non si tratta solo di continuare, piuttosto di essere testimoni di una fine come sintomo di qualcosa. In questo modo, dal tentativo di trovare un nuovo linguaggio pedagogico, all’altezza dei tempi che viviamo, delle qualità specifiche della nostra esperienza condivisa, noi potremo demitizzare anche i falsi discorsi, dominanti e spesso corrivi, della pedagogia e della formazione odierna.

Bisogna attuare un tradimento, un tradimento anche dell’eredità in un certo senso. Non c’è eredità senza tradimento. Un tradimento come quello che viene operato in una buona traduzione.

C’è una forte analogia tra l’esperienza pratica del tradurre e l’esperienza formativa. Io credo che il compito pedagogico oggi debba riguardare una traduzione formativa, i modi in cui siamo capaci o incapaci di tradurre l’esperienza.

Si tratta di rinunciare al sogno di una traduzione perfetta, in cui il sapere non viene toccato, in cui si fa il sogno di tradurre perfettamente il messaggio iniziale in un’altra lingua. Quante volte nella letteratura, nei testi, il ritornello è: “Parliamo lingue diverse”, come si dicono spesso reciprocamente genitori e figli. Allora si tratta di prendersi la responsabilità di questa traduzione, di dare corpo a questa traduzione, e quindi di assumersi la sua infedeltà. Nella traduzione emerge il problema della fedeltà e del tradimento. Ogni traduzione è già una ritraduzione. Nel passaggio dall’orale allo scritto, diceva già Platone, la questione è che lo scritto non dà la versione di ciò che si pensa, ma semplicemente fornisce una forma di stabilizzazione del pensiero.

La traduzione è vicina all’ordine della testimonianza perché per tradurre bisogna avere fiducia in qualcosa, fiducia nel testo di partenza, fiducia nel lettore futuro, che in qualche modo deve abbeverarsi a questa traduzione. Diceva Walter Benjamin che senza traduzione non c’è sopravvivenza. Se i testi sacri non fossero stati tradotti e quindi desacralizzati non sarebbe sopravvissuto quasi nulla della nostra cultura. E allora la traduzione formativa è una figura dell’incontro. È la figura dell’incontro con lo straniero, con l’altro che non capisce la mia lingua, con chi deve imparare quello che io so. Ogni traduzione non può che generare un sapere aperto, perché ogni traduzione costruisce una variazione, ricerca il significato, non parte da un significato già istituito. È in questo senso che l’analogia tra traduzione e formazione diventa significativa, perché la traduzione è una mediazione etico-pratica. Chi forma è un mediatore e l’eredità non può che passare attraverso questa mediazione. La trasmissione è consentita da questo tradimento del testo iniziale, del sapere di partenza e di ciò che io credo di sapere.

Perché solo se io sono disposto, come avviene nella traduzione, a scoprire un “di più” mentre traduco qualcosa che non conoscevo anche della mia lingua di provenienza, se sono capace di tollerare l’estraneo che c’è nel mio sapere, quindi un modo differente di relazionarmi con ciò che credo di sapere, passa qualcosa. Lì si crea lo spazio per l’altro, lo spazio dell’ospite, scriveva Paul Ricœur.

La formazione come traduzione è efficace solo se il lavoro del lutto e il lavoro del ricordo non vengono separati. Cerchiamo di imparare forsennatamente nuove procedure, nuovi modi di comprendere l’esperienza, ma meno spesso teniamo conto di tutto quello che abbiamo alle spalle, di quello che ha significato in termini di valore umano di quel sapere che ci ha formati, accettandone anche le zone d’ombra, gli effetti di opacità che ha generato nel tessuto della nostra esperienza soggettivata.

Se si è disposti a vedere ciò che ancora non si è visto nel proprio sapere si è disposti a consentire la traduzione formativa. Ossia a mettere in luce la latenza di quello che sappiamo, cioè le risorse ancora inoperanti nel nostro modo di fare, che solo l’incontro con l’altro per cui devo tradurre mobilita. Poiché è solo il desiderio di tradurre che può rendere operante ciò che è latente o dorme dentro il nostro sapere e quindi può trasformarlo. Un tale desiderio può permetterci di accettarlo anche cambiato questo sapere e può permetterci di riconoscerci in quello che l’altro ci porta come suo oggetto d’amore, un oggetto inevitabilmente diverso dal nostro. Se si è disposti a tutto ciò, allora credo che il nostro compito sia assicurarci che gli effetti di queste traduzioni siano degli effetti visibili dentro le nostre vite, nelle nostre professioni. Così potranno prendere forma nuove figure, anche figure professionali, che non possono che passare e essere attraversati da questa etica della traduzione formativa.

E, forse, nelle condizioni create dalla traduzione formativa, come sosteneva Marcel Proust, la figura risultante, come in una nostra personalissima ricerca del tempo perduto, potrebbe essere il luogo in cui la redenzione dei frammenti della nostra vita, delle esperienze formative, delle immagini convergono nello svelamento di un senso individuale. Ma proprio nella trasmissibilità di questa figura, in tutto ciò che questa figura porta a noi come eredità, potremo connetterci a un destino e a un desiderio che riguarda la storia collettiva e non più solo la nostra.

(Per Salvatore Guida, con gratitudine)

Ambrogio Cozzi

Devo uscire nel verde che è colmo
Di ricordi, e mi seguono con lo sguardo.

Non si vedono, si fondono completamente
Al paesaggio, perfetti camaleonti.

Sono così vicini che li sento respirare
Benché il  canto degli uccelli dia stupore.

Tomas Transtromer

Un messaggio telefonico, secco, poche parole. Deceduto. A chiudere, a porre un punto di non ritorno. La diagnosi, lo smarrimento. Lo sguardo rivolto altrove per poter formulare parole il cui senso sembra sfuggire. Fidarsi, cura, guarigione, proiettarsi ancora nel tempo. Poi improvvisi silenzi, la gravità non ti sfugge, le parole non la possono dire. Eppure occorre cercarle, intervallate da silenzi che pesano, da sguardi che vagano. Quando lo sguardo si ferma un altro silenzio, quasi a raccogliere le forze. Flebili constatazioni più che proteste su alcune inefficienze, come se queste dessero segno di un impegno che non ha dato i frutti sperati. Incontri brevi, poche parole a consegnare uno stato. Impaccio, tentativo di ritagliare la malattia nel sapere, di darle un razionale e un conoscibile, ma i silenzi che intervallano il discorso smagliano la trama che il sapere cerca di costruire. Fanno buchi che non si possono riempire, paradossalmente è come se fossero già pieni di qualcosa che non trova la parola per essere detto.

Si rinvia a cure possibili, a nuove visite che potrebbero… A tu per tu ne cogli la quasi inutilità, nelle parole cerchi un razionale per quel che sta accadendo, per un tempo ancora scandito dalle cure, poi giri lo sguardo e fissi un punto che ti sembra sfuggire

Le paure che tornano di notte, e ti lasciano stremato la mattina. L’arrivo della luce ti fa tirare un sospiro di sollievo, quasi riuscisse a strapparti da incubi che il buio mobilita. Riusciamo a bere un caffè, durante il tragitto (l’ospedale è vecchio, i corridoi immensi e con poca luce, quasi un nuovo labirinto) poche parole che rincorrono il tempo, le ragioni e le scelte che l’hanno sottratto al mero girare delle lancette. Piccoli episodi, eventi che sembrano futili e che la memoria ha ritagliato e aggiustato, quasi a dare una possibile coerenza e linearità a qualcosa che è forse sfuggito. Il dettaglio, il piccolo dettaglio che ci consegni un’unicità, una particolarità da lasciare, che sentiamo nostra, che ci possa far dire “questo”.

Gesti brevi, affrettati in mezzo ad altra gente che affolla il bar dell’ospedale. Il rumore di fondo un po’ infastidisce un po’ permette di non pensare. Ti sembra di ritrovare il filo del discorso, ma forse non ti interessa.

Ultimi giorni. Sei sdraiato sul letto di casa, insegui un riposo, una tregua dai pensieri. Dici che avresti tante cose da fare, ma ti sembra di non averne voglia. Di più non riesci a dire. Poi un gesto abituale che perde finalità, si sgretola nel suo snodarsi nel tempo. Perdi la sequenza, come se qualcosa si fosse interrotto. Un piccolo aiuto, ti riprendi, riprendi l’azione, il gesto si chiude. Rimane come una sospensione su ciò che l’interruzione significa, sul come, il perché. Ti riprendi, l’attimo è passato non so se per te o solo per gli altri. Le parole riprendono ad inseguire il tempo, ma un tempo rovesciato, quello che è passato e ha segnato la presenza al mondo.

Anni che ci conosciamo. Anni fa. Una mattina di inizio primavera, ci incontriamo per un motivo di lavoro. C’è presente tuo padre che è venuto a trovarti. Ci presenti, ci stringiamo la mano, stiamo parlando del motivo per cui ci siamo incontrati ma ci riesce difficile.

Parole quasi smozzicate, difficile seguire il filo del discorso, si rischierebbe di escluderlo dal dialogo, di metterlo in disparte. Equilibrio impossibile da perseguire, ci si confonde. Il discorso si inceppa su elementi estranei che lo rendono tortuoso, un po’ imprevedibile. Le parole di tuo padre, poche, introducono un altro tempo, sembrano cercare un percorso che ci ha portato qui. Si intrecciano aspirazioni e ricordi che a queste si sovrappongono, quasi cercando di arrivare ad oggi. Le parole che cercano di intrecciare una storia, ma poi si avvitano, ritornano su se stesse alla ricerca di un filo che sfugge. Gesti minimi che verrebbero dare ordine al presente trovando nel passato il filo che tiene insieme la trama. Una trama che ritorna più volte nei momenti di difficoltà e solitudine, quando si misura la distanza tra l’origine e l’oggi e che la presenza di tuo padre rende quasi dolorosa.

Come dire? Occorre giustificare? Ma rendere conto di cosa, di una distanza che appare incolmabile per quanto voluta anche da lui? Eppure una distanza sofferta, le parole non riescono a colmarla, gli affetti la leniscono ma non la possono azzerare. Eppure questa distanza dall’origine era quella che lui ti aveva consegnato, una emancipazione rispetto alla partenza, un andare oltre. Rendersi conto del prezzo che comportava consegnava il tutto ad una dimensione tragica, a qualcosa che si era perso in un compito che lui ti aveva affidato e che nel mentre lo realizzavi ti allontanava da lui.

La politica, l’agire politico come tentativo di coniugare e tenere insieme l’oggi con l’origine. Colmare una distanza sentita come profonda, che l’orgoglio non poteva suturare. Ricordi d’infanzia, voci che si sono protratte nel tempo a segnare una scelta personale, a chiudere ferite che lasciano cicatrici.

Il maestro che ti fa salire sulle spalle del compagno più asino e ti fa girare nella classe. Il pianto che scoppia perché non sai come sfuggire ad una situazione che senti come ingiusta, umiliante per te e per l’altro. Un’istituzione che esprime in quel momento la violenza che la pervade.

Nasce anche qui la dimensione della politica? Dal desiderio di azzerare un episodio dal quale ti è stato impossibile fuggire, che non hai potuto evitare? Nasce da qui l’interesse per gli aspetti istituzionali dell’educare?

Forse il mio è un inseguimento vano, un cercare di rendere ragione in modo coerente di scelte e desideri che si confondono, di ritrovare una linearità, delle cause per rendere comprensibile quel che forse non lo è, soprattutto perché rivolto ad un’assenza.

D’altra parte che cosa rimane se non il tentativo di testimoniare una presenza, con tutti i rischi che un testimone corre, dalla parzialità al rischio della futilità. Eppure in quell’aspetto che può apparire futile si cerca di contrastare il lavoro del lutto. Di contrastare l’insensatezza della perdita, di cercare le parole per dire ciò che è stato e calarlo in ciò che ancora è. Cercare nel presente le tracce di un passato che permane. Permane come traccia che possa essere detta, raccontata, questo è…

La politica, come scelta di portare nella vita della polis qualcosa che eccede il quotidiano, ma che nel quotidiano ha le sue radici. Scontrarsi con l’evidenza che il mediare non è solo un’arte della politica di machiavellica memori, ma una necessità. Quella di fare i conti col fatto che l’alterità è irriducibile, che non possiamo ridurre l’altro a noi pena il cancellarlo. Da qui la mediazione come fare i conti con una presenza che sfugge alla presa, che ci chiama ad un ‘uscita da noi, a saper vedere. A saper vedere nella polis il luogo della convivenza possibile, l’esercizio del riconoscimento.

Il disincanto verso la politica, senza acrimonie. Un mondo che cambia in cui è difficile ritrovarsi, reperirsi, eppure cercare ancora le ragioni di un impegno, continuare ad inseguire una possibilità pubblica di parola, sapendo che solo la parola perimetra uno spazio di convivenza possibile.

Sera. Hai pubblicato un libro di ricordi. Mi hai invitato a presentarlo. Sottolineo il ruolo che nel testo svolgono le fotografie inserite come punto di cesura tra un prima e un dopo. Al termine iniziamo una discussione animata, dici che non sei d’accordo con la mia lettura, vorresti ribadire una lettura più fedele, più consona a quel che pensavi scrivendolo. Ti rispondo che un testo quando è scritto sfugge all’autore, che in questo sfuggire c’è più di quel che è scritto. Rimani perplesso ti sembra di aver detto troppo, ti allontani, ritorni “Bhè..”. Quasi intimorito dall’aver detto troppo, che lo scritto abbia ecceduto, sia andato oltre l’intenzione. Te ne ritrai ma ne sei anche affascinato.

Le parole a volte inconsapevolmente squarciano il velo del pudore, è necessario allora un altro velo, la verità può essere solo rivelata, detta in altri modi, è necessari ricostituire una trama che la significhi oltre lo svelamento. Nel nuovo velo c’è qualcosa di differente da quel che prima ci appariva o avevamo intravisto, qualcosa da cui ci ritraiamo pur riconoscendolo come intimamente nostro. Qualcosa a cui non possiamo rinunciare.

Sera. Riunione di redazione. Discussioni a volte animate. L’irruenza sembra far tutt’uno con l’urgenza di cogliere quel che accade, di trovare una traccia che possa guidarci possa essere scritta per essere detta. Ma l’irruenza copre anche il timore di una distanza dalla partenza, del rischio di dimenticare le origini, del perché lo si fa.

Al di là del piacere del fare ci insegue un luogo dal quale dire, cercare di dire quel che accade, prima ancora cercare di cogliere quel che accade. Una convivenza a volte faticosa perché gli sguardi sono plurimi. La redazione diviene un luogo a prima vista inconcludente, dove si rischia di perdersi, di divagare. Nel divagare si trova però un filo, forse diverso per ciascuno, al quale annodare lentamente la ricerca di collaboratori, di temi.

Allora forse l’irruenza maschera altro, non è solo dettata dall’urgenza, segna anche la solidarietà non detta, un pezzo di strada in comune in cui le parole potrebbero bucare un pudore che ci segna da tempo, un passo che è troppo difficoltoso fare. Il lavoro messo in comune serve a questo, a trovare una dimensione comune che permetta di andare oltre, di non fermarsi a rimandi immaginari.

Una delusione. Un episodio in sé banale che ti accascia. Sei stato attaccato per un evento irrilevante in pubblico, quel che più pesa è che questo attacco ti sia arrivato da quella parte politica in cui ti riconosci. Una ferita che ti fa soffrire, che riacutizza una distanza che ora percepisci con chiarezza ma che non per questo ti evita sofferenza. L’irruenza vorrebbe tornare, ma la senti come inutile a colmare lo stato di abbandono e la tristezza conseguente. Occorre però ritrovare le parole, riuscire a dirne qualcosa perché no vuoi rinnegar l’origine, vuoi ritrovare anche nell’oggi i desideri e le fantasie di quello ieri che ti ha accompagnato, che permangono vive come compagne d viaggio.

Fatica certo, ma riesce a farsi vivo un pertugio, una possibilità non messa in pubblico, ma ritrovata in conversazioni private.

Quel che resta è questo, frammenti di una presenza che prende corpo ancora sul fondo dell’assenza che rimane, che ci consegna non tanto una volontà caparbia ma una ricerca di convivenza possibile segnata da origini che non si vogliono dimenticare, non tanto per emanciparsene, quanto per provare nuove forme di convivenza, per provare a trasmettere una possibilità, un’indicazione.

Quando avevo recensito le poesie di Transtromer ti eri incuriosito. Ora posso chiudere con una sua poesia che segna le difficoltà dello scrivere e del dire.

*

Vinicio Peluffo

Per me Salvatore Guida è stato durante la mia adolescenza soprattutto il padre di Igor, un mio coetaneo, a cui spesso guardavo con ammirazione per la sicurezza che ha sempre dimostrato e per la capacità di fare gruppo, di far gravitare intorno a sé ragazze e ragazzi così particolari, anticonformisti, fuori dal coro generale; insomma interessanti.

Salvatore apparteneva al mondo degli adulti a cui, a quell’età, si guarda con un mix di sentimenti: ammirazione, contrapposizione, un sentimento malcelato di incomprensione, di distanza. Lo guardavo con questi occhi, incuriosito dalla sua fisicità, dalla capacità affabulatoria, convinto che avesse sempre qualcosa di interessante da raccontare, un suggerimento su qualcosa di particolare da sperimentare come esperienza di formazione.

Poi ho conosciuto Salvatore sul serio.

A 18 anni sono andato a bussare alla sezione del Partito Comunista Italiano di Rho; mi sono presentato con il furore di chi si sente, a quell’età, di fare le scelte importanti della propria vita, di chi ha rimuginato a lungo alimentato dai libri e dalle discussioni in classe al liceo su cosa accade nel mondo.

Ho bussato spinto dalla voglia di cambiare il mondo, di combattere le ingiustizie e di schierarsi da una parte, da quella che si ritiene l’unica giusta, l’unica possibile.

Mi hanno aperto e sono stato accolto in una comunità straordinaria fatta di donne e uomini di tutte le età, dalle mille professioni, di un’umanità straordinaria. Era ancora il Pci del radicamento territoriale e sociale robusto, con cinque sezioni, sia territoriali che la mitica sezione “interfabbriche”. Un partito che incuteva rispetto e un qualche timore reverenziale, con un gruppo dirigente diffuso fatto di persone di talento, di cultura, di amministratori, di delegati sindacali, di persone semplici che attraverso lo studio personale e la lettura quotidiana dell’Unità avevano un’opinione precisa delle cose che accadevano nel mondo e in italia.

Era un partito nel quale prendere la parola in un’assemblea comportava uno sforzo notevole, ti dovevi preparare minuziosamente l’intervento, ti sentivi addosso gli occhi di tutti, ti sentivi giudicato. Innanzitutto perché le persone ti ascoltavano davvero, perché volevano capire non solo cosa avevi da dire ma anche cosa avevi dentro da dare, come contributo, come passione politica.

Ed era un partito nel quale la lotta politica era una cosa impegnativa, proprio perché ci si prendeva sul serio; anche le opinioni diverse si confrontavano duramente, a volte con asprezza. Quando mi alzavo per intervenire sentivo gli occhi addosso, leggevo in molti sguardi “cosa avrà da dire questo ragazzino, davvero è convinto delle sue idee, è capace di portarle avanti fino in fondo, lo fa per vero senso di appartenenza al partito?”, mi sentivo lusingato da quella attenzione e, a dire il vero, mi tremavano un po’ le gambe. Non ho mai perso quel brivido prima di intervenire, quell’istante in cui ti viene da dire “vabbè intervengo un’altra volta, non ho niente di così importante da dire”

E quando intervenivo cercavo un volto più accondiscendente, uno sguardo complice, accogliente. E trovavo il volto di Salvatore, i suoi occhi piantati nei miei, attento a quello che dicevo, senza lusinghe, senza cenni di assenso col capo ma con una luce di calore, di conforto. Incrociare di tanto in tanto il suo sguardo durante l’intervento mi rassicurava, mi aiutava ad arrivare in fondo senza che si notasse troppo la mia agitazione, senza che il dubbio che ogni tanto mi assaliva su quanto stessi dicendo prevalesse sulla convinzione che mi animava fino ad un attimo prima di intervenire.

É nata così la nostra amicizia “politica”, dalla sua curiosità per questo giovane neo iscritto e per la mia ricerca di una figura che mi accompagnasse in quel mondo così nuovo, affascinante e a volte incomprensibile. É diventato naturale maturare insieme le scelte politiche fondamentali, come quando crolla il muro di Berlino in quel lontano 1989, e come quando poi sarà annunciata la “Svolta” da parte di Achille Occhetto alla Bolognina, il congresso del Pci nel quale bisogna decidere che strada prendere, se dare vita al Partito Democratico della Sinistra o rimanere un partito comunista.

I miei sentimenti erano contrastanti, pensavo: “sono appena entrato nel Pci, dopo un lungo percorso di riflessione, dopo liti infinite in casa alla vista della mia tessera, e adesso già me lo sciolgono?”, dall’altro però avvertivo che i dubbi che mi assalivano non erano solo dovuti all’agitazione di un pivellino di fronte ad una platea, ma alla sensazione in parte inconscia che in fondo ci fosse una contraddizione irrisolta, qualcosa che aspettava una risposta e una soluzione adeguata ad un mondo in profonda trasformazione.

In quelle settimane cercavo con più insistenza le conversazioni con Salvatore perché i miei dubbi trovavano cittadinanza nei suoi ragionamenti; in un clima in cui tutti avevano opinioni granitiche, sentivo fortissima la necessità di uno spazio dove il mio smarrimento trovasse ascolto e dove le domande che mi assalivano potessero articolarsi in risposte di chiarezza.

Così decidemmo insieme di affrontare quella discussione congressuale sostenendo la mozione Bassolino, una scelta marginale rispetto al dibattito nazionale e destinata ad una posizione di sicura minoranza, ma era la scelta che ci consentiva di dare respiro ai nostri dubbi, ai nostri ragionamenti.

E conducemmo gomito a gomito una battaglia congressuale insieme a pochi altri.

La nostra amicizia aveva fatto un passo in avanti, rafforzata in un cimento comune e nella sensazione – bella! – di sentirsi portatore di un punto di vista del tutto particolare, di doversi confrontare in pochi con le ragioni prevalenti dei molti.

Questa scelta non mi impedisce di diventare, sempre con la complicità di Salvatore e della sua capacita di convincimento, segretario di una delle sezioni del partito di Rho, la mitica Renato Canegrati (intitolata al partigiano ragazzino trucidato dai fascisti nelle vie di Rho), la più piccola, quella senza una sede, che vive del lavoro itinerante di rapporto con gli iscritti e gli abitanti del quartiere dove vivo.

Poi è successo qualcosa che ci ha ulteriormente avvicinato, proprio nel momento in cui mi sono gradualmente e fisicamente allontanato dalla comunità del partito di Rho (diventato nel frattempo Pds) a vent’anni mi chiedono di diventare segretario provinciale della Sinistra giovanile, organizzazione giovanile del Pds, e questo incarico è incompatibile con l’incarico nella sezione.

Convoco il congresso e informo gli iscritti di questa opportunità e che quindi devo lasciare l’incarico di segretario di sezione: apriti cielo, mansueti iscritti da quarant’anni che mi dicono che sono un irresponsabile, che non si lascia così la guida del partito, che si viene meno alla fiducia che mi è stata accordata, che sono un carrierista. Vengo colto di sorpresa: pensavo che fosse accolta bene la novità, che fosse il riconoscimento al lavoro che avevamo fatto assieme, traballo.

E cerco lo sguardo di Salvatore, che interviene.

Inizia riconoscendo il senso di smarrimento degli iscritti, della loro giusta preoccupazione, poi inizia a parlare di cos’è un partito, della sua funzione anche educativa, della formazione della sua classe dirigente e poi dice che l’incarico provinciale è il riconoscimento dei miei meriti e, soprattutto, del lavoro della sezione Canegrati che deve esserne lusingata.

A fine congresso mi prende da parte e mi rimprovera: “dovevi dircelo prima!” e capisco che c’è rimasto male; me ne dispiaccio anche perché è lui che ancora una volta mi ha tolto dai pasticci.

Negli anni successivi sono stato chiamato a far parte della segreteria nazionale della Sinistra giovanile per poi venirne eletto segretario nazionale; mi trasferisco a Roma per sette anni, tornando a Rho una volta al mese e andando nella sede del partito (nel frattempo diventato Democratici di sinistra) di Rho sempre più di rado.

Sono gli anni in cui i contatti con Salvatore diventano saltuari ma ogni volta che ci rivediamo in sezione è uno tsunami di critiche, di proposte sulla politica nazionale, su quello che sta facendo il partito.

Sono gli anni in cui quando intervengo nelle assemblee di Rho non sono più il ragazzino un po’ spennacchiato ma il dirigente nazionale da cui si pretende chiarezza sulla linea politica e responsabilità sulle scelte compiute; gli interventi di Salvatore diventano incalzanti, nessuno sconto, alle sue critiche non puoi rispondere chiedendo l’indulgenza dell’amicizia, devi confrontarti con le contraddizioni, argomentare, assumerti direttamente la responsabilità per le scelte che stai contribuendo a compiere.

Non puoi essere reticente, non puoi essere approssimativo: capisci che, giustamente, la platea più esigente è proprio questa, composta dalle persone che ti hanno visto e conosciuto dall’inizio, che ti hanno visto crescere, che riconoscono in una certa gestualità i sintomi del nervosismo, in una certa inflessione della voce un moto altrimenti impercettibile di insicurezza.

A questa platea non puoi mentire, a Salvatore non può bastare una spiegazione superficiale.

Quando pensavo di essermi assestato nel mio percorso di formazione politica capisco che quel processo è solo all’inizio, che ci si deve sempre mettere alla prova, scavando dentro se stessi alla ricerca delle motivazioni più profonde. Non ci si può nascondere dietro a motivazioni di comodo.

Ti accorgi che stai facendo un altro passo avanti di crescita, e ancora un volta Salvatore è lì sorridente, che a fine dell’assemblea ti da una pacca sulla spalla, come a dire che te la sei cavata anche questa volta e che adesso è il momento di andare tutti quanti insieme a bere qualcosa.

Poi all’inizio degli anni 2000 torno a Rho in pianta stabile, torno a vivere nella casa di famiglia e a fare l’amministratore con un rapporto con il partito locale che torna ad essere quotidiano; anche gli incontri con Salvatore tornano più assidui, con quella facilità per la quale non ti sembra di esserti visto assai di rado per diversi anni.

Nel 2008 vengo eletto parlamentare del Partito Democratico (rieletto nel 2013) e torno a fare il pendolare con Roma, ma non è più un trasferimento, non è più un allontanarsi dalla propria comunità, è svolgere il proprio ruolo istituzionale rappresentando il proprio territorio.

E arriva una bella giornata di primavera, durante la quale hai trovato il tempo per dedicare una mattina alla famiglia e stai pedalando veloce con tua moglie e le bimbe nei seggiolini; c’è una persona ai tavolini del bar di via Molino Prepositurale, mi chiama e urla “bravo, goditi le tue figlie, finalmente l’hai capita”.

Ti allarghi in un sorriso, rallenti la pedalata, fai per fermarti ma tua figlia ti dice: “più veloce papà” e tua moglie è davanti che continua a pedalare.

Allora non ti fermi, ricambi il saluto e continui a pedalare, ma l’abbraccio è come se ci sia stato, già solo nel primo incrocio di sguardi.

A volte mi torna in mente quell’ultima volta in cui ho visto Salvatore, e vorrei essermi fermato semplicemente per salutarlo meglio, o per dirgli che alla fine anch’io ho capito che la passione politica e l’impegno politico non possono essere totalizzanti, schiacciando lo spazio per gli affetti. O per dirgli che ho imparato ad assaporare ogni momento fino in fondo, perché la stessa azione politica dovrebbe sempre muovere i propri passi dalla ricerca di articolazione e armonia con se stessi e con gli altri.

Forse volevo dirgli tante altre cose ma probabilmente Salvatore queste cose le sapeva già, perché mi ha conosciuto lungo un arco di tempo pari a metà della mia vita, perché molte cose me le ha insegnate lui e, più semplicemente, perché mi voleva bene.

Ho la fortuna di poter coltivare il ricordo di Salvatore molto spesso.

Tutte le volte che accompagno la mia figlia più piccola al nido d’infanzia, tutte le volto che la affido alle educatrici formate nella bellissima esperienza della Cooperativa Stripes, lo rivivo nella tranquillità di mia figlia (così come è stato qualche anno prima anche per la mia figlia più grande) che entra da sola nella classe dell’asilo, nella serenità con la quale la trovo quando vado a prenderla a fine giornata.

Trovo in questi piccoli gesti, così grandi e importanti, il frutto del lavoro di tanti anni di Salvatore, portato avanti oggi da Dafne.

Grazie Salvatore