DAL LATINO AL VOLGARE, FINO A NOI

Di PAOLA NAVOTTI

Ma ci pensiamo mai all’origine della nostra lingua? Come si è passati dal latino al volgare, solo per recuperare il passaggio più recente? Mio figlio di prima media mi ha chiesto di raccontargli questa storia e, mentre parlavo a lui, ho riscoperto il valore di ciò che avevo a suo tempo imparato.

Nell’Impero Romano d’Occidente, non esisteva un’unica lingua, ma il latino classico (quello letterario dei grandi scrittori, come Cesare, Cicerone, Virgilio) e il latino volgare (quello parlato, appunto del volgo, cioè del popolo). Quest’ultimo era il più diffuso e non è difficile immaginare perchè: era accessibile a tutti, anche a chi non era colto; era aperto all’influenza di altre lingue; era infine conveniente impararlo perchè, quando i soldati romani conquistavano nuovi territori, conoscere la loro lingua permetteva di commerciare, trattare, etc etc. Con la diffusione della lingua e del diritto, Roma riuscì così a tenere unito un impero enorme!

Dalla diffusione del latino volgare sono nate le lingue romanze, così chiamate perché consistevano nel Romanice loqui, cioè nel parlare al modo dei romani. Italiano, inglese, francese, rumeno, provenzale, spagnolo, portoghese sono ancora lingue romanze. Mentre nelle regioni all’epoca meno romanizzate – cioè l’Inghilterra del sud, la Germania, l’Africa settentrionale e il Medio Oriente – oggi non si parlano le lingue romanze.

Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, i territori romanizzati furono conquistati da altri popoli che parlavano lingue diverse dal latino e chiamate lingue di superstrato (si tratta di quelle germaniche e dell’arabo). Si arriva a Carlo Magno, che promuove una riforma culturale volta a recuperare il latino classico e, quindi, a separare definitivamente il latino dei colti da quello degli illetterati. La prima fonte di ciò è la delibera del Concilio di Tours (813), nel quale si afferma che la liturgia e le scritture dovessero rimanere in latino classico, a differenza delle omelie, ammesse in volgare per poter essere capite dal popolo.

I primi scritti delle lingue romanze hanno quindi un carattere pratico. Basti pensare all’indovinello veronese, il documento in volgare più antico (intorno al 780), chiamato così perché ritrovato nel 1924 in un codice della Biblioteca Capitolare di Verona. L’autore è un chierico, che con una metafora descrive così uno scrittore: colui che spinge i buoi (dita), ara un prato (foglio), semina un nero seme (inchiostro). Basti pensare all’Iscrizione di Commodilla, tracciata a Roma nella cornice di un affresco, nella prima metà del IX secolo, e che dice così: Non dicere (non dire) Ille secrita (le cose segrete) A bboce (a voce: con il raddoppiamento della consonante tipico dell’Ita sud). Basti pensare infine al Placito di Capua: nella ricostruzione di una delle udienze tra il monastero di Montecassino e alcuni privati in merito a terreni contesi, l’abate di Montecassino esprime il proprio giuramento in volgare, non certo perché non sapesse il latino, ma per essere capito da tutti.

Essere capiti da tutti è, effetti, il motivo per cui si parla e si scrive.