COME SI IMPARA… NELLA VITA?

di MARCO ROSSI DORIA
Presidente dell’impresa sociale “Con i bambini”

L’educazione è profondamente interrogata da radicali mutamenti perché tutto il suo “paesaggio” è mutato rispetto ai decenni passati. Il nostro tessuto antropologico non conosce quasi più l’educazione comunitaria e il gioco spontaneo tra coetanei. Si sono molto indeboliti il principio d’autorità e il presidio dei limiti. Sono terribilmente aumentate le povertà dei bambini e dei ragazzi e i divari e le disuguaglianze tra territori, citta?, quartieri, scuole, persone. La rivoluzione digitale ha cambiato i modi di apprendere e tutte le discipline umane – sia teoriche che pratiche – sono caoticamente parte della rete, accessibili in mille forme, rapidamente in evoluzione e richiamano il funzionamento del cervello in relazione a organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche, logiche e digitali, relazione tra produzione costruita e fruita, ecc. La rete e anche i nostri luoghi abbracciano molte culture e lingue, il che pone la globalizzazione in assoluta prossimità. Infine, crisi climatica, guerra, pandemia mettono l’incertezza al centro di qualsiasi prospettiva.

Lo spaesamento è, dunque, grande. Eppure continuiamo ad esercitare ogni giorno e nei più diversi modi il “mestiere” di educare. O meglio i mestieri dell’educare, al plurale. Così, è ancor più importante, anche nelle nuove condizioni, porsi le domande fondamentali. Cos’è educare? Come si impara? Cosa serve imparare nella vita?


Cos’è educare?

I mestieri dell’educare sono, per un verso, attinenti a funzioni universali insite nella condizione umana: perché riguardano la consegna del sapere attraverso le generazioni; perché siamo o saremo tutti mamme e papà, o nonni/e, zii/e, fratelli/sorelle maggiori, o esperti che si rivolgono a novizi nelle più diverse arti e conoscenze. Infine, perché ognuno è anche educatore di se stesso, per tutta la vita.

Per altro verso, i mestieri dell’educare assumono ogni volta i caratteri loro propri, distinti uno dall’altro. Non sono la stessa cosa l’educatore di strada, il conduttore di un laboratorio creativo, il referente di adolescenti in un centro di aggregazione e il docente a scuola. Una maestra di scuola d’infanzia non fa le stesse cose di una maestra di scuola primaria, la quale fa un mestiere diverso dal professore di liceo; e ogni professore, a sua volta, si riferisce a materie e anche a metodi diversi. Il trainer sportivo e l’insegnante di strumento musicale non fanno le cose di un professore universitario. Insegnare in una bidonville di Rio o Calcutta è un mestiere diverso dal farlo nel liceo di Parigi o Milano, nella scuola media del quartiere Zen di Palermo, o in un nido dei Quartieri Spagnoli di Napoli. Insegnare meccanica o falegnameria nel centro di formazione professionale di Roma o Trento  non è come insegnare l’Italiano come seconda lingua nel corso serale di Torino.

Così, usare categorie generali quali “ruolo docente” o “funzione educante” è fuorviante perché tali categorie non possono raccontare un mestiere, le sue “opere”, la sua fatica, la sua meraviglia, le sue sfide. Al tempo stesso dobbiamo poter continuare a tener presente anche ciò che è comune e che riguarda proprio la parola educare, che etimologicamente deriva da e-duc?re, trarre fuori: un significato da riferire ad ogni persona nella sua unicità e alla relazione educativa e, dunque, ad un movimento di fuori-uscita a carattere dialogico.

Educare ha inoltre un senso che viene universalmente accettato dal diritto internazionale: promuovere le attitudini e le sensibilità, le facoltà intellettuali, le conoscenze del mondo e di come l’umanità le ha costruite nel tempo e le sta costruendo. A partire dalla Convenzione ONU dei diritti dell’infanzia del 1989, il significato promuovente dell’educare ha assunto la forza di un diritto universale che riguarda ogni bambino/a e ragazzo/a[1].

Pur riconoscendo gli ambiti specifici di ognuno, i mestieri dell’educare sono immersi nella complessità: richiedono, per loro natura, di dover pensare a come funziona il nostro cervello inteso in modo olistico e a come funziona la società. Richiedono, perciò – per ognuno – sia una competenza specifica, ricca, relativa al “quando, come, dove, con chi, intorno a cosa” si educa; sia una competenza generale di promozione, che riguarda l’inverare il diritto universale di ogni bambino/a e ragazzo/a di apprendere il sapere dell’umanità e realizzarsi come persona.

Come si apprende?

E’ oggi riconosciuto da molte discipline – pedagogia, psicologia, sociologia, antropologia, neuroscienze, ecc. – che, pur considerando la parte della genetica, è il contesto l’elemento cruciale nell’apprendimento umano. Ci sono pagine bellissime che giungono fin dall’antichità sul come la natura e l’esperienza si intrecciano nell’imparare. Ma il tema, in termini scientifici contemporanei, venne posto nel 1954 da Skinner con la sua learningtheory[2]: Skinner introdusse la questione del rinforzo del comportamento, e così la questione del contesto, in modo unidirezionale (stimolo-risposta), senza tenere conto di un campo più largo, con molte sollecitazioni, relazioni, attivazioni. Negli anni 70 Fodor iniziò a descrivere tale campo come intreccio tra natura e cultura. Ma, in realtà, fin dall’inizio del secolo era cresciuto un movimento pedagogico poliedrico che non solo rifiutava l’insegnamento trasmissivo fondato su stimolo-risposta-controllo; ma anche dimostrava quanto si apprende di più e meglio se la scuola sa allestire un continuo rimando tra fare e pensare proprio di ogni laboratorio, di ogni bottega d’arte; e se chi impara non viene più considerato come un mero destinatario di uno stimolo, ma come protagonista attivo di un processo di apprendimento. Il modello lineare viene superato perché cresce l’evidenza che i meccanismi cognitivi, in parte innati, si sviluppano nel contesto, il quale rappresenta un sistema di relazioni e di attività multidimensionali e multidirezionali. Intanto gli studi sullo sviluppo mentale dei bambini si arricchiscono e prendono in esame, da Piaget in avanti, in modo sempre più articolato, i nessi tra età, linguaggio, sviluppo mentale, sistemi di relazioni e di esperienze. Al contempo vengono progressivamente considerate le emozioni che accompagnano gli interventi educativi intenzionali a scuola, ma anche le esperienze di ogni tipo: “vissuti” positivi, o frustranti o dolorosi, etc. Si tratta di temi che, fin dall’inizio del secolo, si pongono in un territorio di cerniera tra psicologia e psicanalisi. Di grande rilevanza è stata la valorizzazione degli studi di Vygotskij sul rapporto tra linguaggio e apprendimento e sullo sviluppo prossimale che caratterizza l’imparare [3]. Il linguaggio – per meglio comprendere la complessità dei contesti educativi – ha avuto un ruolo decisivo. Nel linguaggio, infatti, sono depositate concezioni del mondo, modi di potersi dire e poi rappresentare la realtà, che hanno a che fare con l’io e, al contempo, con le culture antropologicamente intese: le convenzioni sociali, le abitudini, la storia, le scienze, la storia dell’arte, la letteratura, gli altri saperi. Bruner e la prospettiva culturale dell’educazione[4], così come gli studi di Gardner sull’apprendimento e le intelligenze multiple, hanno esteso il progresso delle scienze sui caratteri e sui modi dell’intelligenza in relazione a contesti complessi e attivizzanti[5]. L’evoluzione delle neuroscienze – in particolare la scoperta dei neuroni specchio[6] – ha affiancato questo riconoscimento dei contesti con le evidenze sul funzionamento biochimico del nostro cervello. In particolare, le neuroscienze hanno potuto confermare che le funzioni dialoganti – alle quali, dai tempi di Socrate, è stato attribuito un enorme valore educativo – sono una caratteristica della nostra specie e si attivano in età precocissima, a partire dall’allattamento e dallo sguardo tra madre e neonato[7].

Dunque, il passaggio del sapere non avviene in modo linearmente trasmissivo. Fa imparare poco e male la scuola o il contesto che non prevedano la pluralità di esperienze, di stimoli, un ambiente inter-attivo, insieme pratico e teorico. La scena educativa si sviluppa in modo complesso, a più livelli, per più strati.

Il primo strato riguarda l’azione educativa “in situazione”, lì dove si sta operando entro un tempo/spazio allestito per imparare nello specifico contesto: in classe a scuola, su un campo di calcio, in un coro, ecc.  Il contesto situato prende in esame: il movimento tra la relazione educativa; l’acquisizione di conoscenze e competenze; gli allestimenti e processi didattici ed educativi che favoriscano l’apprendimento e che comprendono – attenzione! – i ragazzi stessi che operano in via circolare e cooperativa e così fomentano a loro volta sapere e apprendimento.

Il secondo strato ha caratteri per così dire “distribuiti”. Racchiude la scuola, o il laboratorio creativo, o la palestra, o il centro professionale; ma tutt’intorno comprende  la famiglia, il caseggiato, il quartiere, il villaggio entro il quale operano una più larga comunità educante: a scuola, costituita da docenti, dirigenti, ecc; fuori scuola, da genitori, nonni, coach sportivi, capi scout, educatori dell’associazionismo, dei dopo-scuola, delle parrocchie, ecc. Questo “contesto distribuito” implica il misurarsi con forme di cooperazione e con le sfide della inter-professionalità tra ruoli e funzioni diverse entro un medesimo territorio: perciò chiama alla cura di alleanze educative e di comunità educanti.

Il terzo strato comprende tutto il “macro contesto distribuito” e cioé il sistema sociale e comunitario prossimo e poi i sistemi territoriali larghi: urbano, regionale, nazionale e oltre. Tale contesto chiama al confronto politico – in senso proprio, relativo alla nostra polis allargata – che il mestiere di educare comporta.

Anche se una parte purtroppo ampia della scuola continua a procedere in modo lineare, i mestieri dell’educare non possono più adottare modelli trasmissivi smentiti universalmente da pratica e evidenze scientifiche multi-disciplinari. Al contrario, la scuola deve farsi esperto interlocutore di contesti laboratoriali e di relazioni educative entro processi complessi, continuando ad apprendere a sua volta. Deve stare nella situazione specifica allestendo laboratori operativi e teorici insieme, dove sia garantito il protagonismo di chi impara. Deve anche poter partecipare a comunità educanti più larghe dello specifico nel quale opera; ed essere disposto a occuparsi della città intesa come educante, guardando anche oltre, al mondo.


Cosa serve nella vita?

Da tempo sono ritenute importanti nella vita non solo le competenze umanistiche, scientifiche, professionali, o legate ai processi cognitivi strettamente intesi, ma anche le competenze che riguardano il sapere stare bene con se stessi e nel mondo, con gli altri. I mestieri dell’educare devono sempre potersi riferire alle competenze per la vita – le life skills – acquisibili e spendibili da ogni persona. Sono competenze dette cross-cultural, ossia valide per tutti, ovunque nel mondo e che coinvolgono ogni momento e ambito dell’imparare. Tanto è vero che sono considerati importanti per la stessa salute. E’ stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità, tre decenni fa, a codificare le life skills con un decalogo condiviso globalmente e che di seguito si sintetizza. Decision making (capacita? di prendere decisioni); problem solving (capacita? di risolvere i problemi); pensiero creativo, che agisce in modo sinergico rispetto alle due competenze sopracitate, mettendo in grado di esplorare le alternative possibili e le conseguenze che derivano; pensiero critico, l’abilita? nell’analizzare le informazioni e le esperienze in maniera obiettiva. Comunicazione efficace, sapersi esprimere, sia sul piano verbale che non verbale, con modalità appropriate rispetto alla cultura e alle situazioni; capacita? di relazioni interpersonali, abilita? che aiuta a mettersi in relazione e a interagire con gli altri in maniera positiva, creando e mantenendo relazioni che possono favorire benessere mentale e sociale. Autoconsapevolezza, riconoscimento di se?, del proprio carattere, delle proprie forze e debolezze; empatia, capacita? di immaginare come possa essere la vita per un’altra persona anche in situazioni con le quali non si ha familiarità; gestione delle emozioni, che implica il riconoscimento delle emozioni in noi stessi e negli altri e la capacita? di rispondere alle medesime in maniera appropriata; gestione dello stress, riconoscere le fonti di stress e agire in modo da governarle al meglio.

Tutti i mestieri dell’educare devono tener conto della vita quotidiana di ogni persona e del come favorire, insieme, maggiore sviluppo personale e maggiore possibilità di cooperazione e coesione sociale.

[1] Convenzione dei diritti del bambino di New York – Risoluzione delle Nazioni Unite 44/25 del novembre 1989. Tale risoluzione è stata ratificata quale trattato internazionale che entra a far parte della Legge italiana, nel 1991 (Legge 176/1991); si veda anche UN: Full report of the Open Working Group of the General Assembly on Sustainable Development Goals is issued as document A/68/970, (ONU, 2015).
[2] Skinner, B.F. The science of Learning and the Art of Teaching, Harvard Educational Review, 1954.[3] Vygotskij, L.S. Mind in society. The Development of Higher Psychological Processes, Harvard, Harvard University Press, 1980; ed. italiana, Il processo cognitivo, Bollati Boringhieri, 1980. Vygotskij, L.S. Mysleniei rec. Psichologiceskieisslediovanija, 1934; Pensiero e linguaggio, Roma-Bari, Laterza, 1990.[4] Bruner, J. S. The culture of education, Harvard, Harvard University Press, 1997; ed. italiana La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Milano, Feltrinelli, 1997.[5] Gardner, H., Frames of Mind, the theory of multiple intelligences, 1983; ed. italiana in Educazione e sviluppo della mente. Intelligenze multiple e apprendimento, Edizioni Erickson, 2005.

[6] Si veda: Iacoboni, M. I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri, Bollati Boringhieri, 2008.

[7] Si veda: Kaye, K. The mental and social life of babies. How parents can create persons, University Chicago Press, 1984; ed. italiana La vita sociale e mentale del bambino, Il pensiero scientifico, 1989.