SIAMO TUTTI EDUCATORI (intervista a mamma Veronica)

A cura di PAOLA NAVOTTI

 

Nella sua esperienza di madre, adottiva e naturale, cosa significa che educare è un’avventura?
Che lavoro fai? L’educatore. Come sarebbe bello sentirsi rispondere così da chiunque. Che sospiro di sollievo sarebbe se, al di là della professione praticata, ognuno avesse coscienza della propria naturale responsabilità educativa. Il compito educativo non compete solo agli addetti ai lavori. Lo definirei un lavoro… nel lavoro di chiunque. Per gli addetti ai lavori, certamente, dovrebbe essere tematizzato come lo scopo supremo all’origine di tutta l’attività di istruzione vera e propria.

Io sono fermamente convinta che educare significhi introdurre alla realtà e insegnare a cogliere il nesso – il legame – tra tutto ciò che accade. E il legame tra le cose è il loro significato, il senso che manifestano. Solo se si è impegnati seriamente con la propria vita in tutti i suoi molteplici aspetti, tale avventura risulta possibile. È un’avventura perché è un cammino che sai dove comincia, ma non conosci dove ti condurrà.


Suo figlio adottivo ha bisogni educativi speciali che richiedono la collaborazione di varie figure di educatori: come si fa a tirare le fila… ad unificare le singole competenze in un passo alla volta?
Io sono madre adottiva di Luca [nome di fantasia] e madre naturale di altri due figli. L’esperienza di ogni giorno è completamente diversa per ognuno di loro e l’accento cade sempre un po’ più forte su Luca che, fin da piccolo, ha dimostrato di avere bisogni educativi speciali. Quando aveva 5 anni, la maestra della Scuola dell’Infanzia ci trasferì alcune osservazioni: ritardi nelle consegne richieste, confusione ricorrente e, in particolare, la necessità di avere sempre un adulto accanto per la conferma del lavoro che stava svolgendo. Pur essendo ancora molto piccolo e, dunque, in una fase di iniziale osservazione, il punto di vista di questa maestra ci ha fatto guardare a lui con un’attenzione che forse non avremmo avuto naturalmente. L’inizio delle elementari ha sottolineato altre difficoltà che, negli anni successivi, sono state poi catalogate nel grande universo dei DSA (Disturbi dell’Apprendimento).
Prima di arrivare ad avere chiare quali esattamente fossero le sue fatiche, abbiamo dovuto rivolgerci in un primo tempo ad un neuropsicomotricista dell’età infantile che, dopo un paio d’anni, ci ha indirizzato ad una neuropsichiatra infantile. Dopo diversi incontri con noi genitori – talvolta anche alla presenza di Luca – si è giunti alla decisione che fosse opportuna una figura di sostegno durante le ore scolastiche. Ma questo non è bastato perché, con l’introduzione delle discipline e il maggior impegno che il rispettivo studio richiede, anche nelle ore pomeridiane siamo dovuti ricorrere ad un aiuto la cui identificazione non è stata facile. Volevamo, infatti, che non fosse un aiuto generico, ma specifico, adatto alle caratteristiche di Luca, non di qualsiasi bambino: abbiamo identificato tutto ciò nel Metodo Feuerstein.
Ecco, da quel colloquio con la maestra dell’infanzia di Luca è partito un dialogo provvidenziale che ha coinvolto molti interlocutori: noi genitori; la maestra di classe prima e i professori poi; l’insegnante di sostegno; il dirigente scolastico; il neuropsicomotricista prima e il neuropsichiatra poi; lo specialista nel Metodo Feuerstein. Nello scegliere questi professionisti abbiamo dovuto verificare tanti fattori, tra cui non solo le singole competenze verticali, ma anche gli spostamenti in una città non facile come Milano, o la sostenibilità economica. Ma il fattore più importante è stato capire se la loro figura sarebbe stata di solo “specialista” (che comunque non è facile trovare), o di vero “educatore”, nei termini posti all’inizio di questa intervista.
Guardandomi indietro, oggi mi scopro riconoscente verso tutti gli interlocutori perché a proprio modo, dal proprio specifico punto di vista, ognuno ha voluto bene a Luca. Ognuno ha collaborato con il proprio pezzettino. Ognuno si è seriamente messo in relazione con lui.
Luca sta frequentando la prima media e l’avventura continua… Pur continuando un tavolo di lavoro molto complesso – meeting bimestrali da fissare non senza difficoltà e continui singoli aggiornamenti – il dialogo con le persone che gravitano intorno a lui si è fatto per certi versi più semplici: non siamo più neofiti, siamo meno spaventati e, in fin dei conti, abbiamo altri due figli a cui badare…

La scuola riesce ad interfacciarsi con queste figure?
La scuola è riuscita a fatica ad interfacciarsi con tutte le figure coinvolte, nel senso che non lo ha fatto in maniera autonoma. Il fil rouge è sempre stato condotto da noi genitori, che abbiamo avuto e abbiamo così a cuore il bene e il benessere di nostro figlio – non solo a scuola, ma anche nella società – da farci carico di una vera e propria macchina organizzativa che da anni, anche economicamente, ci sta mettendo alla prova.
Sono tuttavia grata alla scuola che ho scelto – per Luca e gli altri miei figli – perché, seppur con dei limiti, prima di ogni altra cosa pone sempre al centro il bambino e i suoi bisogni.

Al di là delle competenze specifiche, secondo lei quando un educatore è speciale?
Quando – per un figlio, o per un allievo – le orecchie sono drizzate e gli occhi sempre pronti ad intercettare qualcosa di buono. È una questione di sguardo. E di relazione. Senza l’instaurarsi di una relazione un educatore difficilmente può diventare speciale. Può al massimo rimanere un bravo specialista, ma sarà difficile attivare quel circolo virtuoso tipico di una relazione voluta, cercata e curata nel tempo.
È certamente un’avventura che non finisce mai, che sono grata di poter vivere e che non mi spaventa perché non sono sola: io e mio marito non siamo soli ad accompagnare i nostri tre figli nella scoperta della loro vocazione e di prenderci cura giorno per giorno della complessità del loro essere umano.

Guardando i suoi figli, come sintetizzerebbe il loro principale bisogno educativo?
Grazie all’esperienza avuta col nostro primogenito, lo sguardo che io e mio marito abbiamo imparato vale per tutti e tre. Cerchiamo, ogni giorno, di non fare caso solo alle loro performance, a quali e quanti risultati ottengono (a scuola, negli sport, o in altri ambiti), ma cerchiamo per ognuno di rispondere a questa domanda: ti sembra felice? Cosa lo ha reso felice? Cosa lo ha turbato? Proviamo ad andare a fondo delle richieste di ciascuno di loro tre, attenti a riconoscere le domande di aiuto travestite da capricci, o da goffi tentativi di autonomia.

Nella intensa quotidianità delle sue giornate, che cosa la sostiene nella fatica? Cosa più di tutto la rende contenta?
Sono una madre, una moglie e una lavoratrice: l’intensità della vita quotidiana, a volte opprimente, mi obbliga a chiedermi i motivi per cui intraprendo certi percorsi e scelgo certe attività. Il mio cuore trova pace quando ho riscontri che la strada, seppur complessa e faticosa, è giusta. Quando cioè vedo crescere i miei bimbi sereni e certi che la nostra proposta educativa – cristiana a tutto tondo – è bene per loro, cioè li custodisce vicini agli ideali in cui credo e a cui a mia volta sono stata educata: l’umiltà, la verità, l’amore per il prossimo, la generosità, la passione per l’uomo.
Trovo pace, infine, nella condivisione con la mia famiglia allargata (nonni compresi!) e con gli amici scelti per farci compagnia in questo cammino, una vera e propria rete di sostegno. In questa avventura che, per essere tale – cioè per essere affrontata e gustata – ha bisogno di una compagnia. È proprio vero che per crescere un bambino ci vuole un villaggio.