Aiace; io, tu e noi
L’aria è fresca, è chiara, eppure non si può dire che sia fredda. La luce, per adesso, irradia ancora l’immenso teatro greco e, piano piano, gradualmente finirà ad affievolirsi con il tramonto del sole, regalando allo spettacolo un vestito fatto di ombre.
A Siracusa, venerdì 10 maggio, come primo spettacolo che ha dato inizio alla 59° edizione della rassegna del teatro greco, è andato in scena Aiace di Sofocle, diretto da Luca Micheletti.
La tragedia dell’Aiace parla dell’eroe guerriero greco e del suo infausto destino che lo porta a commettere il suicidio per preservare il proprio onore. Dopo la morte di Achille, i capi Agamennone e Menelao consegnano le sue armi ad Odisseo, considerato il più virtuoso tra i guerrieri greci. A questo punto, Atena instilla in Aiace la famosa pazzia ed egli, accecato dalla rabbia, fa strage di una mandria di buoi, pensando fossero i guerrieri achei. Da qui inizia il suo supplizio: l’agonizzante gioco tra la vita e la custodia del proprio onore attraverso il suicidio. Alla fine della tragedia, Aiace decide di uccidersi, come gesto estremo che lo rende padrone del proprio infelice destino contro un’esistenza fatta di compromessi e di vergogna.
La conclusione della tragedia rappresenta la vera chiave della vicenda. Sarà il saggio Odisseo, suo nemico d’eccellenza, a persuadere e convincere Agamennone, pieno di risentimento, affinchè permetta all’eroe defunto una degna sepoltura. La sepoltura, nella cultura greca, rappresenta il diritto ultimo ed inalienabile, che nonostante le inimicizie della vita terrena, offre conforto e una vita prospera dopo la morte al defunto. Secondo diversi filologi e studiosi della letteratura greca, il tema della sepoltura riflette la contrapposizione tra legge e sentimento: come nell’Antigone, il sentimento tenero e umano della morale si scontra con una rigida legge dello stato.
Con la tragedia dell’Aiace scritta intorno al 445 a.C., cosa Sofocle può insegnare a noi, oggi?
La domanda risuona quasi banale, come fosse una retorica di cui conosciamo risposte già scritte. Eppure, il messaggio è così potente da spiazzare. La pietà che arriva dal nemico; l’appellarsi a quello che è giusto; la morale contro l’odio distruttivo: ecco cosa questo patrimonio culturale millenario ci chiede di non tralasciare, mai. L’umanità greca, caratterizzata da quello che nelle opere omeriche viene chiamato thymos – impulso interno, o emozione irrazionale di rabbia – promuove puntualmente un moderato bilanciamento con l’anima razionale e il sentire morale. Siamo figli di una letteratura che ci insegna sempre a riconoscere il limite, ad abbracciarlo, a temere la non-umanità e a tornare a se stessi quando non ci si riconosce più.
L’esperienza di essere davanti ad una vicenda universale, che si spiega davanti a degli spalti che hanno millenni, azzardo a dire sia un’emozione trascendente e quasi trasformativa.
Essere lì, e vedere e vedersi in una storia conosciuta messa in scena in modo nuovo, riporta ogni spettatore ad una narrazione ancestrale, quasi archetipica, in grado di connetterci con quello che sentiamo come giusto.
E in quel momento non esiste più un Io e un Tu: è un noi. Noi assorbiti dalla messa in mostra dell’anima, incessantemente finita.