Una storia… imprevista (editoriale)

Di MARIA PIACENTE

Come inizia una storia? In nuce si può dire che quasi tutto è lì, ben custodito fin dal primo pensiero, poi evidente nelle cose già fatte e sfumato in quelle ancora da fare.

Ma andiamo con ordine: il primo incontro con il Carcere di Bollate – modello italiano tra le case di reclusione – è stato con i bambini e le bambine del Biobab, asilo nido all’interno dell’istituto di pena e fin dal 2017 gestito dalla Cooperativa Sociale Stripes (acronimo di Studio, Ricerca, Intervento Pedagogia Extra-Scolastica). Negli spazi di Biobab – tra i quali un ampio giardino e un orto didattico – crescono insieme sia i figli di detenute, sia del personale del carcere, sia provenienti dal territorio. Si tratta di un luogo fuori dagli schemi, originato non solo da un intenso impegno sociale, ma soprattutto da quella curiosità, da quell’interesse per l’umano che sempre ispira nuove occasioni di vita in comune.

Così, a partire da questo inizio, la storia è cominciata e quando in seguito sono stata invitata in carcere a presentare un mio primo libro di poesie, l’ho subito ritenuta un’occasione speciale, provvidenziale. Soprattutto è stato un onore: leggendo a una quarantina di detenuti emozioni e sentimenti miei, ho visto arrivare sui loro volti, seppur con intensità diverse, i colori evocati dal mio vissuto. Alcuni avevano addirittura portato con sé i propri scritti, certe poesie composte in cella che poi abbiamo letto insieme. Quel primo pomeriggio passato insieme è stato memorabile: un incontro destinato ad essere ricordato come il primo punto ricamato su un lenzuolo che, in seguito, sarebbe stato oggetto di altri ricami.

Tempo dopo, fu organizzato nella biblioteca del carcere un seminario di scrittura creativa e così gli incontri si sono sempre più infittiti. Alla presenza di autori ed autrici di rilievo, parlando di letteratura, di saggistica, di poesia, di cinema e di fiction, siamo stati testimoni di un fatto memorabile: il “fuori” che entrava “dentro” era così desiderato, così intensamente partecipato, che gli incontri terminavano sempre con la stessa domanda da parte dei detenuti: quando tornate a trovarci?

Quando iniziava a far caldo, intorno ad aprile e maggio, le tendine colorate delle finestre spalancate della biblioteca svolazzavano col vento e le sedie e i tavoli venivano come allagati da tutta quella luce. Una luce che illuminava di più anche le sbarre di ferro alle finestre: allora gli sguardi si disperdevano di qua e li là e un sommovimento d’animo serpeggiava tra i banchi, le sedie vuote e le teste pesanti. Così qualcuno se ne stava rannicchiato nel suo. Forse pensando ad un lenzuolo ricamato come un sudario. I sommovimenti d’animo dei detenuti si rispecchiavano in noi come in un contesto “normale” che, invece, era tanto diverso e confinante!

La tela continuava ad essere tessuta e il laboratorio di scrittura si è concluso con un concorso di racconti brevi sul “dentro” e “fuori” del Carcere. Ma l’esperienza originatasi da questa storia non si è concluso: così, raccontandola al comitato scientifico e a quello di redazione della nostra rivista, abbiamo deciso di raccontarla anche a voi tutti. Perché questa esperienza speciale non solo non la vogliamo perdere, ma desideriamo che possa continuare: desideriamo continuare ad impegnarci e a metterci in gioco, per quanto sarà possibile, non per dare risposte (spesso, per altro, impossibili), ma per stare, per fare i conti col nostro “dentro” e “fuori”.

In questo numero monografico, tra gli innumerevoli contributi troverete i racconti di coloro che si sono impegnati come docenti nel laboratorio di scrittura e di sei detenuti che vi hanno partecipato. L’identità di questi ultimi – quattro uomini e due donne – è evidentemente tenuta anonima, ma ci dispiaceva contrassegnarla da sigle, o da nomi fittizi che freddamente accompagnassero quelle parole così intensamente scritte. Così, abbiamo pensato di assegnare ai “nostri” detenuti il nome di piante: per dare immediatamente l’immagine di qualcosa che cambia, che cresce e che lascia il proprio segno. Un segno imponente, come è quello impresso in noi che li abbiamo conosciuti personalmente. Come è imponente lo spaccato di vita del carcere: uno spaccato tormentato che dovrebbe interrogarci sempre di più e sempre oltre la distinzione tra il mondo cattivo (dentro) e il mondo buono (fuori). E dovrebbe infonderci sempre più coraggio di esserci: di essere disponibili a un rapporto dialogico in cui l’io nostro scopra sempre di più un tu.

La scoperta di un tu, di una mano a cui aggrapparsi e da cui farsi aiutare è, a nostro avviso, l’imprevisto più grande che possa capitare in carcere. Ma non è cosa da poco. È fatica, è speranza incerta, è commossa precarietà: è l’attesa di veder germogliare qualcosa di molto fragile che cambia continuamente, come cambia velocemente e irrimediabilmente il mondo intorno a noi.

Mi rituffo, questa volta insieme a voi lettori e lettrici, nel mondo di quello svolazzare di tende colorate, troppo colorate, con troppa luce che “tradisce” dove ci si trova.

Buon tuffo!