Uno sguardo oltre le sbarre
Di COSIMA BUCCOLIERO
Direttrice della Casa Circondariale di Monza. Già direttrice di diversi istituti penitenziari per adulti (tra cui il carcere di Bollate) e dell’Istituto penale Minorile Cesare Beccaria di Milano. Laureata in Giurisprudenza.
Il termine rieducazione può sembrare antico e poco adatto a descrivere la moderna funzione del carcere. Tra le diverse pene previste nel nostro ordinamento, quella del carcere rimane la principale e quella che spesso la comunità invoca; tanto che non è difficile leggere sui giornali articoli che gridano allo scandalo perché questo o quell’autore di reato “non si farà neanche un giorno di galera”.
Il carcere è l’istituzione di cui abbiamo meno conoscenza perché è raro averne un’esperienza diretta.
A volte, tuttavia, può accadere che le strade di “fuori” e di “dentro” si incrocino per qualche motivo e allora si scopre una realtà che fino a quel momento non abbiamo mai davvero immaginato. La nostra idea di carcere spesso è mediata dalla narrazione che ci fornisce la filmografia o le fiction trasmesse in tv. Dall’interno, invece, si scopre una realtà completamente diversa: un universo composto da una umanità variegata che vive costretta in un perimetro limitato, circondata da alte mura, separata dal resto della città e pressata da numerose privazioni.
Il carcere è un luogo che limita fortemente la personalità dell’individuo. Non incide solo sulla libertà personale, ma su tutti gli aspetti dell’esistenza. Il detenuto perde la sua autonomia e non è più libero di autodeterminarsi secondo le proprie esigenze: viene trattato come un bambino che deve chiedere permesso. Così, il carcere produce un’infantilizzazione dell’individuo in aperto contrasto con la funzione rieducativa che chiede e sollecita un percorso di responsabilizzazione e di consapevolezza. E così diventa anche difficile per l’autore di reato aprire una riflessione seria sul fatto commesso e sulle sue conseguenze.
Il carcere ha il progetto ambizioso di restituire alla società persone migliori, ma l’organizzazione spesso non collima con le intenzioni imposte dalla normativa. Il carcere opera una trasformazione delle persone già a partire dal momento dell’ingresso; disorientamento, senso di vertigine: il corpo è il primo a subire gli effetti della prigione. Tanto che spesso i detenuti manifestano da subito delle privazioni sensoriali: per esempio la diminuzione della vista causata dal limite delle sbarre e delle griglie alle finestre; o la diminuzione dell’udito per il continuo rumore dello sbattere dei cancelli e delle porte di ferro. Nel primo periodo di permanenza in carcere, l’energia dei reclusi è rivolta verso la necessità di adattarsi ad una nuova condizione. È una situazione che non somiglia a nessuna di quelle vissute fino a quel momento. Il detenuto ha bisogno di tutta la concentrazione e di tutta la forza interiore per non cedere allo sconforto: per esempio quando le porte si chiudono e si ritrova solo in un ambiente che sconosciuto e insanabilmente separato dal mondo di fuori; oppure quando vive il momento dell’ingresso, uno tra più difficili perché si rende conto che la vita di fuori non esiste più, che il futuro è difficile da immaginare e appare a tinte fosche. È facile, allora, lasciarsi andare a brutti pensieri.
Di concerto con gli specialisti dell’area medica, in carcere si studiano diversi piani di intervento per la prevenzione del rischio suicidario: si tratta di programmi sempre più approfonditi e puntigliosi nell’auspicio che dettagliarli minuziosamente aiuti ad arginare il numero sempre più alto di persone che decidono di mettere fine alla propria esistenza. Il carcere è un luogo che fa ammalare e che certamente non aiuta a curare le persone; soprattutto quelle più fragili, quelle che mostrano patologie psichiatriche. Nonostante le attenzioni e i programmi di prevenzione, è difficile riconoscere i segnali determinanti sia per gli atti suicidari, sia per quelli di autolesionismo, pure frequenti e segno di un malessere difficile da gestire. Così di carcere si continua a morire ed è un dramma che non sembra avere fine.
Il carcere può diventare una inutile sofferenza se non si creano le condizioni che la legge prevede affinché possa davvero essere costituzionalmente orientato. Le condizioni di sovraffollamento che persistono nonostante gli interventi normativi della sentenza Torreggiani della Corte Europea, non possono non incidere negativamente sulle condizioni di vivibilità delle persone recluse. Gli spazi stretti e angusti che tolgono anche il respiro non consentono di vivere la carcerazione nel rispetto della dignità dell’individuo. La situazione è aggravata dalla promiscuità, dal fatto cioè che numerose persone vivano a stretto contatto, pur essendo provenienti da storie e origini molto diverse tra loro. Dividere una cella di piccole dimensioni con altre persone, significa costantemente invadere lo spazio dell’altro e non riconoscerlo come portatore degli stessi bisogni.
Il detenuto impara ben presto che la parola più usata in carcere è la parola attesa, che racconta di quanto può essere lungo il tempo per ottenere una risposta, o per vedere soddisfatte le proprie esigenze.
Il mondo penitenziario è complesso e la sua organizzazione è composita. Tra il personale che ci lavora emerge numericamente la Polizia Penitenziaria, cui spetta la tutela della sicurezza, ma che anche è chiamata a partecipare al trattamento della persona detenuta: lavorando in stretta connessione con i funzionari giuridico pedagogici e le altre figure che partecipano all’osservazione scientifica della personalità, che prendono in carico la persona detenuta e l’accompagnano nel percorso di reinserimento. Percorso in cui interlocutore prezioso è la comunità esterna, con la responsabilità e il dovere di occuparsi del carcere e delle pene in generale.
Il carcere è inserito in un quartiere della città e ne deve sentire il respiro; deve essere inglobato nel sistema di amministrazione del territorio. In effetti, il movimento e l’attenzione della società verso un istituto penitenziario cambiano il clima che si vive all’interno: il carcere può diventare effettivamente riabilitativo se si attiva e persiste una osmosi tra dentro e fuori. La contaminazione tra questi due aspetti arricchisce l’intera comunità perché consente di avere una conoscenza diretta della vita del carcere, delle persone che vi sono ristrette e di come superare i pregiudizi, scoprendo così una dimensione simile al fuori.
In carcere non ci sono mostri, ma persone che hanno commesso degli errori. I detenuti sono molto altro degli errori commessi: sono padri, mariti, mogli, figli, persone con risorse e competenze che hanno bisogno di nutrirsi di speranza. Il tempo trascorso in detenzione può schiacciare la personalità dell’individuo, ma se quest’ultimo è adeguatamente supportato, può scoprire dentro di sé risorse e qualità che non pensava di avere.
I detenuti sono persone che vivono con apprensione il futuro, tanto che il momento in cui usciranno dal carcere a volte può dar loro anche un senso di sconforto: sono infatti consapevoli che un certo marchio li perseguiterà per sempre e, proprio per questo, il rientro in comunità deve essere accompagnato e gestito in maniera graduale, utilizzando il tempo della detenzione per prepararsi a riempire la sofferenza di significato, di contenuto, di prospettiva. Il periodo della detenzione non si dimentica. In carcere il detenuto deve essere messo nella condizione di imparare un nuovo mestiere, di reinventarsi un lavoro, di acquisire competenze che possano essere utilizzate quando si tornerà fuori e non si potranno più sfruttare le risorse e le opportunità di una volta. Perché il carcere funzioni e sia un baluardo di legalità e di opportunità da sfruttare all’esterno, è imprescindibile creare ponti con la società esterna.
Fondamentale, quindi, risulta il lavoro di tutti gli operatori del carcere ma anche del volontariato: quelle forze sane della comunità che possono sollecitare la motivazione dei detenuti ad impegnarsi, a mettere in atto delle strategie di resilienza che sprigionano nuove energie capaci di rendere meno afflittiva la pena. Questi stimoli hanno bisogno anche di spazi che permettano il confronto e il rispetto della dignità della persona detenuta. Quest’ultima sempre chiede di essere ascoltata e scoperti nella propria interiorità, aspettando di potersi narrare e di far emergere potenzialità e limiti.
Il carcere, in conclusione, può essere un luogo di relazione se si riescono a creare delle occasioni che permettano l’effettiva conoscenza dei detenuti. È imprescindibile favorire rapporti basati sulla fiducia e sull’empatia. Il carcere è un luogo in cui l’autenticità deve essere costruita; i detenuti temono il pregiudizio e tendono a nascondersi dietro uno schermo: per proteggersi oltre che, spesso, per compiacere l’interlocutore. Condizione indispensabile per instaurare relazioni positive è l’ascolto attivo e il mettersi nei panni dell’altro. Il detenuto ha bisogno dell’assenza di giudizio, o di pregiudizio, ma più ancora ha bisogno di essere visto, di essere considerato come persona. Ha bisogno dello sguardo oltre le sbarre.