“Un carcere per bene” (intervista a Giorgio Leggieri, direttore del Carcere di Bollate)

La vita in carcere è molto più complessa di quanto noi da fuori pensiamo di conoscere. Sia per le persone detenute, sia per coloro che lavorano in carcere (così come per noi che siamo “fuori”), tutto parte dalle relazioni. A raccontarcelo è Giorgio Leggieri, direttore del carcere di Bollate.

A cura di PAOLA NAVOTTI e REBECCA CONTI

Dopo aver diretto le carceri di Aosta, di Cuneo (in regime di 41 bis), di Vercelli e di Saluzzo (istituto di alta sicurezza), dal gennaio 2021 Giorgio Leggieri è direttore del carcere di Bollate, modello unanimemente riconosciuto anche a livello internazionale.

Nel tardo pomeriggio di un venerdì di fine aprile, quando i corridoi degli uffici penitenziari sono ormai deserti, il direttore Leggieri è ancora alla scrivania. Alle sue spalle, le grandi dimensioni della bandiera italiana e di quella europea evocano subito l’altezza di un compito sociale, come lui stesso più volte definisce il proprio lavoro. Senza alcuna prosopopea, le sue parole trasmettono una solennità di ideali che, molto più delle mura di cinta e del filo spinato, descrivono l’eccezionalità di questo luogo.

Direttore Leggieri, carcere è il nome con cui abitualmente si indicano le diverse tipologie di istituti penitenziari. Cosa significa che il carcere è luogo di penitenza?
Come contesto di restrizione, di allontanamento dalla vita reale, il carcere è fisiologicamente anche un luogo di contrizione intimistica. Comunemente sembra che il concetto di penitenza evochi soltanto quello di sofferenza: come se solo la sofferenza conseguente alla separazione dal proprio mondo e dai propri affetti potesse agevolare il contenuto della pena. È un immaginario rassicurante sapere che una persona colpevole di reato è detenuta: cioè segregata per vivere in una condizione di alienazione, per ripensare a quello che ha fatto e così patire. È rassicurante cioè sapere che quello che appartiene al male sia relegato a un contesto altrettanto negativo. Segregazione, separazione, periferia, buio: queste accezioni negative rassicurano la collettività perché rispondono al bisogno di sapere che i “cattivi” soffrono e sono relegati lontano dai “buoni”. Così, i “cattivi” diventano per noi invisibili: questo tipo di penitenza è quella che comunemente interessa. Meno, invece, sembra interessare il contenuto della pena, cioè le azioni introdotte per raggiungere il fine costituzionale della pena stessa, che è il recupero e il reinserimento nella società. Mi ricordo un detenuto del carcere di Torino che, dopo la sentenza della Corte d’Assise che si concludeva con la formula «La condanniamo a dieci anni di reclusione», reagì con questa domanda: «A cosa mi condannate? Voi mi avete detto il tempo della pena, ma cosa sono condannato a fare in questo tempo?». Ecco, l’esempio fa capire bene che solo una pena che abbia un contenuto diventa utile, sia per chi la subisce, sia per la società. Il contenuto di una pena è dato dalle attività trattamentali: il lavoro innanzitutto e tutte quelle proposte ricreative – dallo sport, alla cultura, alle relazioni – dalle quali una persona detenuta può iniziare a mettere in campo azioni e pensieri nuovi, su di sé e sugli altri. A partire dai bisogni e dalle predisposizioni, sono le attività trattamentali – prima ancora delle condizioni di detenzione – a consentire un livello minimo di benessere: è l’utilità del fare, cioè il contenuto della pena, che dà a quest’ultima utilità e dignità e consente di normalizzare la vita delle persone carcerate. Normalizzare non significa abituarsi, ma diventare capaci di scelte libere e consapevoli: autonomia e responsabilità rendono la pena utile. Questo dovrebbe interessare maggiormente la società, piuttosto che – per fare solo un esempio – discutere se sia giusto che per i detenuti il lavoro ci sia, ma non retribuito.


Come è possibile trattare un detenuto così come lei sta descrivendo, cioè puntando tutto su una redenzione possibile?
Non si tratta di uno sguardo genericamente assolutorio, né buonisticamente misericordioso. Rispettare la dignità delle persone detenute non significa dimenticare i reati che sono stati commessi; né illudersi che tutti riescano a redimersi; né essere inconsapevoli che alcuni fanno finta di aver compiuto determinati passi. Rispettare la dignità delle persone detenute significa mantenere una fermezza umana nelle relazioni con loro e nella finalità riabilitativa. Chiarifico con un esempio. Di recente, un detenuto appena entrato in carcere mi ha esposto in maniera abbastanza rivendicativa tutte le istanze che aveva, giustificando il proprio tono minaccioso con queste parole: «So che mi trovo in un carcere per bene». Quando ho energicamente ribattuto che l’interesse per le sue richieste non era affatto un privilegio da conquistare con la minaccia di una rivendicazione, questa mia fermezza di posizione ha segnato l’inizio della relazione tra me e lui. Ciò per dire che relazionarsi con persone detenute, talvolta ree di colpe efferate, non è l’esito di una ricetta, di un manuale di istruzioni.
Se ripercorro i 27 anni in cui faccio questo mestiere (fino al 1997 esercitavo a Torino come avvocato amministrativista), mi accorgo infatti che la molla che mi ha fatto andare avanti è la curiosità umana. Accorgermi della varietà soprattutto psicologica delle persone detenute, mi sta tuttora insegnando la necessità di non fermarmi all’apparenza, di andare oltre. Andare oltre alla tentazione di sovrapporre il reato alla persona, cioè alla logica per cui di un individuo mi basta conoscere il suo reato; andare oltre, di contro, alla pretesa o all’illusione di una redenzione. Relazionarsi con le persone detenute significa innanzitutto riconoscere il loro diritto ad avere una possibilità di ascolto: oltre le apparenze, oltre l’emotività.


Lei sembra un supereroe…
No, non lo sono! La capacità di andare oltre le apparenze, cioè di relativizzare le situazioni, di dar loro il giusto peso, io la mutuo dall’ambiente e dalle persone che collaborano con me. È un lavoro di squadra: il mio sguardo si allunga grazie allo sguardo degli altri. Di fronte a una circostanza grave, tanto più quando si tratta di un’emergenza improvvisa e imprevista – per esempio i suicidi e i gravi atti di autolesionismo – è necessario esplicitare la propria emotività: non averne paura, ma anzi paragonarla con quella degli altri e, così, relativizzarla. È ciò che, tra me e i miei collaboratori, facciamo di più. Si tratta di aiutarci a sopportare le tensioni; a mantenere un punto di vista sempre critico; a non far finta, come se avessimo delle corazze protettive, che certe situazioni non esistano e non ci tocchino. Si tratta in definitiva di aiutarsi ad accettare che la sofferenza fa parte di questo contesto e che la restrizione comporta l’insorgere di relazioni insane. Non ci si può abituare a qualcosa che non è sano, ma non si può neanche pensare di starne fuori. Per gestire queste relazioni occorre mantenere un punto di vista sempre critico, cioè sempre aperto al paragone con l’esterno: all’esterno di noi stessi (quel prestarsi gli sguardi di cui sopra si diceva) e all’esterno delle mura del carcere. Senza tale punto di vista critico, non è possibile avere né prontezza, né freddezza, né gestire le ansie.

Nelle numerose responsabilità previste dal suo ruolo, quale sente più grande?
La responsabilità che sento più grande è sapere che dalle mie scelte o non scelte derivano per la vita delle persone conseguenze che possono ripercuotersi per lunghissimi anni.
Il carcere è un luogo gerarchico: si basa su poteri interni legati a ciò che viene gerarchicamente condiviso e stabilito come utile. Tuttavia, la gestione di questi poteri può portare a una sorta di delirio, a provvedimenti cioè scaturiti da valutazioni d’impeto o superficiali, non opportuni per i singoli, o per la collettività. Ma l’aspetto più deleterio del prendere decisioni inopportune è il non prendere decisioni, pur nell’evidenza di circostanze che non si possono dilazionare perché altrimenti esplodono. Agire nell’immediato, in un’emergenza, non è mai facile: a volte si è subito certi della cosa giusta da fare, altre volte è inevitabile mettere in campo una serie di passaggi che anticipino gli scenari possibili, gli ostacoli.
Per un’effettiva efficacia delle decisioni, non si può pensare di bastare a se stessi: occorre abbracciare il punto di vista di più persone, accogliendo le riflessioni di tutti in un grande lavoro di sintesi. Senza un simile lavoro di squadra e senza la fiducia nelle persone che compongono questa squadra, non si può governare una realtà complessa come è quella del carcere. Quanto più una situazione è complessa, tanto più è inevitabile avere delle incertezze e sarebbe delirante avocare tutto a sé: fidarsi di qualcuno è indispensabile.


Come sintetizzerebbe quindi il suo lavoro?
Il mio lavoro è essenzialmente fatto di relazioni e mediazioni. Le persone detenute cercano sempre un interlocutore: la loro è una ricerca affannosa di attenzione, da cui il grande e difficile sforzo, da parte nostra, di mantenere un equilibrio. Non nel senso di trattare i detenuti con freddezza, ma di non riversare su di loro le insicurezze o le delusioni per i risultati non raggiunti. Questo continuo mettersi in discussione è una forma di solitudine ed è l’aspetto più complesso del nostro lavoro, anche se in 27 anni si impara a conviverci.

Oltre ad essere un unicum italiano, la realtà del carcere di Bollate è un modello anche internazionale. Su circa 1400 persone detenute, oltre il 50% lavora: la gran parte all’interno dell’Istituto, tra attività gestite da terzi e mansioni gestite direttamente dal carcere; e una piccola parte all’esterno, nelle modalità previste dall’articolo 21. Cosa rende possibile a Bollate ciò che sembra così difficile altrove?
L’attenzione alle relazioni, di cui abbiamo parlato prima; e la flessibilità, cioè lo snellimento delle procedure burocratiche. Se a Bollate le azioni amministrative fossero finalizzate solo all’autotutela degli amministratori, obiettivamente si riuscirebbe a fare poco. Ciò non significa andare allo sbaraglio, ma – nella piena ottemperanza dei requisiti di sicurezza e nella trasparenza di tutti i passaggi richiesti – significa prendersi il rischio di semplificare le procedure e, così, di agevolare le relazioni, soprattutto la collaborazione tra mondo dentro e mondo fuori. Per esempio, davanti alla partecipazione a un evento in carcere di più persone rispetto a quelle previste, impegnarsi a capire come si può fare, prima di dire che non si può fare. Ci vuole insomma del coraggio, in alcuni casi dell’audacia.
Pur con le stesse complessità di ogni istituto penitenziario, io credo che il carcere di Bollate sia diverso da tutti gli altri perché fin da quando è nato, nel 2000, l’efficacia di questo coraggio è stata testimoniata. Con il primo direttore Luigi Pagano e poi con Lucia Castellano, Massimo Parisi e Cosima Buccoliero: l’eccellenza di questo carcere è nata da professionalità e umanità fuori dal comune.

Qual è la scelta più dolorosa che ha dovuto compiere?
Molti anni fa durante una forte protesta di detenuti, in cui c’era già un ferito grave e altre drammatiche conseguenze si stavano facendo sempre più probabili. In quel momento mi spettava una decisione tempestiva sul tipo di intervento da mettere in atto e ho trovato il coraggio di agire di istinto: non nel senso di impulsivamente, ma di ragionevolmente. Ho rischiato cioè un muro contro muro poiché intuivo che proprio quella sarebbe stata la risposta più efficace a sedare i pericoli di quel frangente. Per fortuna la mia intuizione ha avuto un ritorno positivo. È stato questo un momento importante nella mia vita e nella mia carriera, perché mi ha fatto scoprire di essere capace di gestire i conflitti, di ridimensionare; ma anche che nel mio lavoro esserci è fondamentale, anche fisicamente. Bisogna essere presenti, non si può pensare di apprendere da lontano i termini di una situazione, tanto più se di emergenza, o di delegarne le decisioni.
Più recentemente, le circostanze più difficili le ho vissute durante la pandemia del covid, quando a unire tutti era la paura, non solo in carcere, ma a maggior ragione in carcere. All’inizio della pandemia ero direttore a Cuneo e la situazione era tale che temevo di non riuscire a gestirla. Quando sono arrivato a Bollate, i contagi erano meno drammatici, ma la situazione era da un certo punto di vista più difficile, non solo perché nessuno qui mi conosceva, ma anche perché si temeva che un sistema comunitario eccellente come quello del carcere di Bollate non sarebbe più stato possibile. Ho trovato il coraggio di iniziare da un particolare concreto: la situazione delle docce. Ho cominciato così a ispezionarle di persona andando nei vari reparti e, volendo arrivare a coinvolgere i detenuti almeno nel tentare qualche iniziativa di ristrutturazione, sono partito dalle opinioni su ciò che ciascun gruppo riteneva si potesse fare. Divisi per nazionalità, o per livello di ricchezza, o per reati comuni, i gruppi si muovono per un interesse comune: questa dinamica mi ha sempre interessato perché dà una grande possibilità di comprensione delle situazioni. Così, prendere in considerazione diverse posizioni collettive sulla questione delle docce, in effetti mi ha permesso di iniziare a conoscere chi avevo davanti.
Si diffuse a un certo punto anche la voce che fossi un perito idraulico…

Tra tutti gli istituti penitenziari da lei diretti, da 27 anni vive in carcere… Come è cambiata la sua umanità?
Iniziare a lavorare in carcere è stata una specie di coincidenza, un fatto cioè che non avevo previsto, ma che ha sollecitato e potenziato le mie propensioni, soprattutto quella alla relazione. Gli oneri sono alti perché si tratta di un lavoro che ha il grosso prezzo di imparare a convivere con le emergenze: quelle fattuali e quelle emotive, proprie e degli altri. È una tensione continua e molto esautorante, perché sei portato a metterti sempre in discussione su come gli altri ti percepiscono. Perciò devi avere al tuo fianco persone che ti aiutino e, nella mia attuale quotidianità, penso soprattutto al prezioso aiuto che è per me Roberto Bezzi, responsabile delle attività educative carcerarie. Devi cioè avere al tuo fianco persone che ti aiutino a non aver paura di come sei e di come gli altri ti possono conoscere; così come a non dare per scontato che gli altri ti capiscano e comprendano la tua fatica.
La complessità di una realtà carceraria non è mai semplificabile: a problemi complessi corrispondono sempre risposte complesse. Io, che pur sono analitico di natura, ho imparato ad affrontare tale complessità mediante la conoscenza umana, che solo può nascere dalla curiosità, anche introspettiva, che hai dell’altro. Attraverso la vita degli altri, puoi capire di più non solo le corde del loro contesto, ma anche come sei fatto tu. E questo è un aspetto che mi gratifica molto.
Nel tipo di vita che ormai mi ha preso, continuo a dover imparare ogni giorno. Soprattutto la tenacia.