Educatori senza frontiere (intervista a Gabriella Ballarini)
Nel 2005 nasceva Educatori senza frontiere (ESF): una ETS (Ente Terzo Settore) con lo scopo di formare educatori ed educatrici disponibili a condividere situazioni di povertà, fragilità e disagio sociale, sia in contesti italiani che stranieri. Don Antonio Mazzi (fondatore di Fondazione Exodus) e il professor Giuseppe Vico sono stati i fondatori con la partecipazione di Cristina Mazza (attuale coordinatrice e presidente). L’assunto principale che ha permesso la nascita di ESF è che: l’educazione è lo strumento più potente di emancipazione e di riscatto, capace addirittura di realizzare quel mondo senza frontiere desiderato da ciascuno. Ecco, dunque, perchè il motto “senza frontiere” sintetizza il cuore di questi educatori in viaggio: sognatori; idealisti; tanto umanamente coinvolti nei contesti che incontrano, quanto professionalmente impegnati nell’acquisizione di una sempre maggiore competenza. Gabriella Ballarini da oltre 20 anni si occupa di educazione e volontariato internazionale e dal 2007 fa parte di questa realtà, di seguito ci racconta la sua esperienza.
Che significato ha il viaggio da un punto di vista educativo?
Scegliere il viaggio come metodo formativo è ciò che più indica il nostro orizzonte: individuare nell’erranza educativa il movimento per formarsi personalmente e professionalmente. Le persone che desiderano diventare educatori senza frontiere e che si rendono disponibili a voler intraprendere un viaggio personale e professionale, si fidano di una precisa promessa: muovendosi, le persone cambiano. È quanto aveva sperimentato don Antonio Mazzi con gli educatori che lavoravano nelle comunità di Exodus legate alla tossicodipendenza e al poliabuso. Una suora del Madagascar aveva chiesto a don Antonio alcuni educatori che trovassero un’alternativa per quegli adolescenti, ormai non più bambini che avevano necessità di uscire dall’orfanotrofio.
Da quel momento è iniziato il progetto Ambalakilonga (il posto dei ragazzi) e la domanda di don Antonio fu: perché non far fare la stessa esperienza a tutti gli educatori e le educatrici e non solo quelli di Exodus? Muovendosi, le persone cambiano: questa era ed è ancora la nostra più forte convinzione educativa. Lo stesso spostamento genera un cambiamento e tale cambiamento poi è messo a frutto nel nostro lavoro quotidiano di educatori e educatrici. Un frutto che si raccoglie soprattutto nel movimento del ritorno: andiamo, sostiamo e poi torniamo che non siamo più gli stessi. Ci scopriamo cresciuti all’interno delle nostre comunità acquisite, ma non solo. Le persone che si mettono in una dimensione di erranza educativa cambiano anche tutte le persone che stanno loro intorno: amici, compagne, figli, colleghe di lavoro. E quando gli ambienti cambiano dall’interno, diventando loro stessi promotori di nuove visioni del mondo: un mondo sicuramente di prima che allarga anche quello che sentiamo noi. All’interno delle povertà ci sono dei talenti (come li chiamava il prof. Vico): strategie non di sopravvivenza, ma esistenziali che non avremmo mai immaginato potessero esistere. Nei viaggi incontriamo persone che ci trasmettono punti di partenza e di approdo completamente diversi dai nostri e qui vive la rivoluzione dell’incontro. Basti pensare – solo per fare un esempio – a quanti, dopo essere andati in Argentina e aver apprezzato la bevanda del mate, ne continuino il rituale anche tornati in Italia. Qualcosa di simile può accadere quando torniamo da un viaggio: magari non siamo in grado di raccontarlo, ma solo di “agirlo”. I nostri nuovi gesti lo svelano anche ai nostri occhi. Avevo 21 anni quando ho fatto il mio primo viaggio e fino ai 40 ho viaggiato ogni anno per molti mesi, tentando di capire quali possibilità di libertà ci fossero per me e per le persone che mi accoglievano.
Un viaggio, per me, è innanzitutto libertà di togliere – proiezioni, grandi strumenti, costi, materiali e strutture – facendo arrivare all’essenzialità: organizzare per esempio un’aula formativa semplicemente con della carta, del colore e con un costante scambio reciproco generatore di straordinari colpi di scena indipendentemente dalla latitudine.
Un’altra estensione di libertà che si conquista in viaggio è quella della non personalizzazione dei progetti: ognuno può dare sempre qualcosa di indispensabile al progetto, anche se lo vive per la prima volta. Lasciare l’autonomia ai beneficiari dei progetti e non far mai combaciare i nostri desideri di azione con bisogni che noi proiettiamo sulle popolazioni, ma fermarsi e chiedere e poi co-progettare: tutto ciò è a fondamento di una reale cooperazione. In Madagascar, ad esempio, avevamo trovato una scuola professionale che si occupava di elettronica, muratura e altri lavori di tipo manuale sui quali, per la nostra mission, non eravamo in grado di intervenire in modo innovativo. Così, ad un certo punto ci siamo chiesti: perché non creare una scuola per educatori? L’abbiamo fatta e questo è stato un fattore generativo di libertà: per chi ha frequentato questa scuola e per noi.
Quando gli educatori diventano portatori di libertà?
La strada non è semplice, perché occorre lavorare molto sulla nostra consapevolezza: sulla gestione del potere esercitato sugli altri e sulla responsabilità che questo richiede. Gli educatori e le educatrici sono portatori di libertà solo nel momento in cui permettono alle persone con le quali condividono tempo e spazio di essere se stesse. Anche nell’errore, anche nella lontananza. Una cornice di regole diventa più interessante se si trova in una dimensione di ascolto, di affiancamento e non di imposizione. La vera libertà che possiamo trasmettere e insegnare è essere quello che siamo. Nel momento in cui accogliamo una persona per quello che è, dobbiamo sostenerla in tutto, anche nel cambiamento. Anche nell’insicurezza, nella paura di sbagliare, di dire la propria idea immaginando che non sia abbastanza. Tale incertezza, che purtroppo si riscontra in tanti adulti, non genera libertà. Per generare libertà bisogna liberarsi innanzitutto da tutte le limitazioni che sentiamo di avere e, cosa non da poco, dai conflitti con i nostri pari: conflitti di abitudini, di modi di fare che diventano come uno scudo, una barriera di non condivisione. Dire sempre “io”, anziché “noi”, genera poca libertà. E proprio per imparare a dire “noi” bisogna fare, pre-partenza, un profondo lavoro che ci prepara anche al ritorno: ad accettare un’osservazione critica così come a riconoscere i risultati ottenuti; dirsi tutto con trasparenza, nel bene e nel male. Nel sapersi esprimere senza paura risiede la libertà dell’educatore. La libertà di migliorarsi, di cambiare idea, di crescere, anche di essere corretti. La pedagogia del viaggio ci permette di guardare tutto di noi, talenti, fragilità, gioie e mestizie, senza paura: ed è innanzitutto questo a generare cambiamento. Per esempio, in viaggio capita che un taxista allunghi la strada per guadagnare qualche soldo in più e tra di noi capita di litigare sulla reazione da avere: lasciar correre pensando al bisogno di soldi, oppure no? Se non genera libertà di pensiero e di espressione, anche il mito della povertà categorizza e basta.
Nessuno parte da solo?
Tendenzialmente no: un gruppo, piccolo o grande, è sempre accompagnato da un tutor che è un volontario e ha una responsabilità di coordinamento. Ma le singole responsabilità vanno condivise tra tutti: proprio per il desiderio di imparare tale condivisione, abbiamo iniziato a preparare il viaggio sempre prima, accorgendoci tra l’altro che la formazione pre-partenza è utilissima anche per chi sul territorio ci aspetta: perchè rende noi, e quindi loro, più sicuri di quel che siamo.
Come un bambino o un adolescente può trovare nel viaggio un momento di sviluppo personale?
Non posso che riandare alla mia esperienza, quando a 21 anni mi sono avventurata nel primo viaggio. Sono originaria di un paesino della provincia ligure e con la mia famiglia avevamo un’attività commerciale di fiori: era un contesto molto locale, molto chiuso per certi versi e, ad un certo punto, ho deciso di partire e di andare in Kosovo, dove era appena finita la guerra, una guerra però che io conoscevo solo tramite qualche immagine, ma sempre da lontano, senza rendermi conto di cosa mi aspettasse. Perché volessi andare proprio là non lo sapevo, ma sentivo che dovevo farlo. Ecco, in quella circostanza il vero esercizio di libertà, più di me, l’hanno fatto mio padre e mia madre, che hanno permesso a me di esercitare la mia libertà: di essere me stessa, di poter andare fino in fondo partendo da un’intuizione che nemmeno sapevo descrivere. La libertà genera dalla fiducia. Anche fidandosi dell’istinto. In Kosovo sono tornata ben 7 volte, perché le persone che mi avevano accolto erano diventate senza preavviso, la mia prima famiglia fuori dalla mia famiglia d’origine: i miei riferimenti si erano incarnati in mezzo a loro e io, per questo, mi sentivo a casa. E sempre lì volevo tornare: perché avevo bisogno di capire me stessa sempre di più. Il viaggio genera sempre una rinascita. Per questo, dopo il Kosovo, ho deciso di trasferirmi in Irlanda del nord per un anno e poi in America Latina per cinque mesi: volevo imparare le lingue che mi avrebbero permesso di parlare con il maggior numero di persone possibili. Volevo, conoscendo gli altri, conoscere più me stessa.