Quale libertà? (editoriale)

Di MARIA PIACENTE

Nella redazione di Pedagogika già vent’anni fa si discuteva delle libertà, in particolare di quelle che non si volevano “dare” a varie tipologie/gruppi di persone perché avrebbero messo in discussione la forma binaria del vivere: o così, o così. Fino ai primi anni Duemila sembrava ci fossero solo alcuni modi di stare, o di vivere: solo alcuni mondi contemplati. Paladina di questi nuovi mondi si era fatta la ormai compianta e giovane scrittrice Michela Murgia che, sapendo di dover morire in un’età ancora acerba, esortava ciascuno e ciascuna di noi a ricordarla a modo proprio: forse per spingerci ad accedere a quel grado di libertà interiore che ognuno di noi ha dentro di sé, o che si è saputo dare. Ce lo conferma la psicologia e, in particolare, gli insegnamenti del padre della psicanalisi: si è in grado di vivere solo quello che la nostra mente è capace di immaginare. Ma allora si può fare tutto quello che si vuole? Da tale dubbio continuano negli anni lunghe discussioni su temi che non smettono di essere permeati dal desiderio e dalla speranza di suscitare cambiamenti o, perlomeno, dall’interesse verso la ricerca della verità. Ma qui casca sempre l’asino: quale verità? Quella soggettiva del proprio sentire? Al di là di ogni visione, parlare di libertà implica sempre e soprattutto parlare di verità.

Se pensiamo che nel mondo solo l’8 per cento delle persone vive in un paese democratico, ci rendiamo conto di quanto la libertà sia “costosa” e, come leggiamo negli articoli arrivati dalle nostre collaboratrici e dai nostri collaboratori, veramente e seriamente da accudire e curare.

In un mio viaggio in Iran di un po’ di anni fa (meraviglioso per quanto concerne il punto di vista culturale: ripenso per esempio alla visita a Persepoli patrimonio dell’umanità e a Shiraz), mi sono resa conto più da vicino di come certe libertà e verità fossero rese insulse e bistrattate dalla gente del luogo; e di come il potere costituito galleggiasse in tutti i modi, pur di stare al potere. Insieme ad una guida iraniana, ho incontrato tantissime donne velate che – accompagnate da mariti o fidanzati – sembrava volessero uscire da quegli abiti, ma nei loro occhi si leggeva il diniego di poterlo davvero fare: belle ragazze dagli occhi scuri, occhi richiedenti aiuto, compassione, desiderio bruciante di libertà. La loro richiesta di libertà del corpo sembrava attenuasse quella scissione della quale si parla ancora oggi e anche nel nostro dossier. Mi ricordo che tale contraddizione di vita si poneva in contrapposizione a come si viveva nelle case iraniane: con le loro chiome libere e i jeans all’ultima moda, le donne erano assolutamente ospitali e offrivano dolci e bevande per fare conoscere meglio la cultura iraniana. Unica richiesta, prima di varcare le loro soglie, era farci togliere le scarpe e camminare a piedi nudi sui confortevoli pavimenti. Addirittura, l’ultima serata passata a Teheran si è conclusa con un gesto che sapeva di rivoluzionario: bere del whisky sul pullman alla fine della gita alla maestosa tomba di Ciro il grande. Certe cose si potevano fare, ma non si dovevano dire.

Ecco dunque che, allora come oggi, si ripropone sempre vivo il dubbio sopra menzionato: se la nostra mente non ha confini, ciò significa che neanche la nostra libertà ha confini? No, non si può fare tutto. Tanto che ancora (mancava solo la guerra), le donne iraniane possono contrarre matrimonio a tempo e non possono uscire di casa se non velate e vestite come sappiamo. “Donna, vita, libertà”: questo è lo slogan politico che fu gridato nelle strade di tutto l’Iran nel settembre 2022, a seguito della morte di Mahsa Amini, la ventiduenne di origine curda che perse la vita dopo essere stata messa in custodia dalla polizia morale, perché non portava correttamente il velo. In memoria di Mahsa, per la prima volta donne e uomini dell’Iran si misero insieme durante le manifestazioni, ma ancora una volta furono puniti ferocemente dalla polizia morale: con migliaia di arresti, uccisioni illegali, stupri sulle detenute e intimidazioni. In Iran e in molti altri paesi continua l’oppressione contro le donne e le ragazze, ma anche contro gli uomini che manifestano accanto a loro.

Come facciamo ad aiutare le donne e gli uomini di questi paesi? Come facciamo ad educare alla libertà? Con quella che sembra una goccia nel mare, ma non lo è: con la cura.

Curiamo la nostra democrazia; curiamo la nostra Costituzione; teniamoci strette le nostre libertà e diventiamone tutti e tutte testimoni diretti: genitori, educatori, ambiente scientifico, comunità tutta. Dotiamoci di una genitorialità diffusa e dei suoi preziosi gesti pedagogici. Così l’educazione alla libertà potrà davvero dirsi.