Insegnanti e penitenti (crisi e decadenza di un ruolo)

Di Daniele Trucco
Docente di lettere, saggista e compositore

Il participio presente è analizzabile come verbo qualora compaia il complemento diretto (un uomo amante la musica), mentre è declassato ad aggettivo quando regge un complemento preposizionale (un uomo amante della musica). ‘Insegnante’ è un participio ma è rarissimo il suo uso verbale: anche la grammatica sta tentando di far perdere alla categoria dei docenti (altro participio) l’ultimo baluardo di azione e autorevolezza che dovrebbe essere loro proprio.
Sul fatto che cinquant’anni fa si andasse a scuola per imparare qualche cosa e che tutto il resto – socializzazione, amicizie, stare bene con gli altri e con i professori – non avesse poi grande importanza siamo tutti d’accordo. Per fortuna le cose sono migliorate.
Sull’essere consapevoli che dalla riforma Berlinguer in poi (si era nel novembre del 1999) gli alunni subirono un passaggio inesorabile di ruolo – da studenti da far crescere tramite conoscenze e necessarie cadute, a individui dotati di grande fragilità da includere nei modi più disparati per far dimenticare loro che un giorno sarebbero entrati in un mondo che non include per niente – siamo altrettanto d’accordo. Purtroppo le cose sono peggiorate. Cerchiamo allora di trovare un equilibrio e tentiamo di capirci qualche cosa.
In ambito scolastico una classe è un piccolo modello di società che si autoregola con equilibri interni dettati da norme condivise e ruoli; se si deforma il modello a tal punto da far credere di essere tutti in grado di fare tutto, il risultato sarà la produzione di cittadini perennemente insoddisfatti e sempre in lotta con un mondo non in grado di comprenderli.
Partiamo da due semplici esempi.
In un articolo del 28 agosto 2023 pubblicato sul Corriere della Sera (https://www.corriere.it/scuola/secondaria/23_agosto_28/scuola-ricorsi-tar-jesi-dca1e5c6-450e-11ee-82ab-878bb3eb19e2.shtml) Gianna Fregonara segnala l’aumento di ricorsi al TAR per bocciature ritenute non corrette; l’episodio che ha fatto cronaca è quello dei genitori di una ragazza della prima media di Tivoli i quali, nonostante l’insufficienza in geografia, francese, matematica, scienze, inglese e musica della figlia, hanno avuto il coraggio di ricorrere alla giustizia. Ovviamente l’intero consiglio di classe ne aveva decretato la bocciatura allo scrutinio e dai documenti relativi messi a punto dai docenti emerge che “nel corso dell’anno la ragazza ha avuto una frequenza regolare a scuola e il comportamento è stato buono” anche se l’impegno si è rivelato “scarso e inadeguato, sia nell’esecuzione dei compiti che nello studio”. Secondo il tribunale i professori non avrebbero considerato il percorso della studentessa dall’inizio alla fine avendo l’alunna, dal primo mese di scuola fino al termine delle lezioni, incrementato le proprie conoscenze e migliorato i propri voti e la scuola – sempre secondo il tribunale amministrativo – ha inequivocabili responsabilità per non aver messo a disposizione “sistemi di ausilio e di supporto per il recupero”. Tralascio un commento sul verdetto ma è evidente come con questa sentenza si metta in discussione la capacità di valutazione di un intero consiglio di classe e non eventualmente, cosa invece più probabile, di uno solo.
Passiamo ora a un episodio di cui sono stato spettatore e che è emblematico di come si possano incrinare i rapporti tra docenti e genitori: una collega, rivolgendosi a un alunno ripetente durante una spiegazione, ha pronunciato questa frase: “Dovrebbe già esserti chiaro questo punto avendolo tu affrontato lo scorso anno”. Riportato il fatto a casa, l’innocua considerazione ha scatenato una catena di botta e risposta tra la madre dell’alunno, che sosteneva essere immorale e indegno di un insegnante umiliare così un ragazzo di fronte ai compagni, e l’insegnante che tentava in tutti i modi di far comprendere che non ci fosse nulla di male, anzi: l’idea era quella di sfruttare la conoscenza dell’alunno per far capire agli altri lo stesso concetto e provare così a fargli ripetere la lezione.
Dalla sfiducia dello stato verso il corpo docente a quella dei genitori: la vergogna di un ragazzo di fronte a qualsiasi inezia fattagli notare è segno oggi di discriminazione ed esclusione; un tempo era considerata un banale e routinario momento di crescita. Qual è dei due il modello sbagliato? La società muta e con lei le regole a scuola e i livelli di correttezza politica ma sono convinto che più si tende a edulcorare la realtà con eufemismi, più la tolleranza verso il diverso sarà minore. Ecco perché sono sempre più lunghe le code dei genitori davanti alle presidenze e infinite sono le parole che i coordinatori di classe devono spendere per tentare invano di far comprendere che il figlio prediletto, avendo sei materie gravemente insufficienti, forse (forse) potrebbe non passare l’anno.
La cosa terribile è che i dirigenti sono quasi costretti a dare ragione ai genitori e il motivo è evidente: come si è visto i ricorsi sono in agguato e in un mondo fatto di pura burocrazia trovare un vizio di forma in un verbale di consiglio o in un voto inserito con una dicitura non del tutto corretta è un’eventualità altamente probabile. E gli avvocati lo sanno.
È un po’ il ragionamento che molti medici da tempo fanno per evitare grane: rinunciare a operare, limitando così la possibilità di errore e suggerire la prosecuzione di una cura solo farmacologica. Allo stesso modo succede con gli insegnanti: perché prendersi la briga di beccarsi una denuncia? Tanto vale promuovere a qualunque costo dimostrando platealmente che il falso in atto pubblico, in questo caso, non creerà mai problemi a nessuno perché di certo non verrà denunciato.
L’insegnante ha perso definitivamente la sua autorità nel momento stesso in cui il sapere è stato sostituito dal saper fare: i programmi scolastici, si sa, non esistono più da anni e dunque il suo ruolo di valutatore/correttore non può più essere esercitato. Perché bocciare un ragazzo quando è in grado di comprare il pane e non farsi ingannare sul resto? Non gli è richiesto di dissertare in panetteria né di transustanziazione, né della bravura di Dalì o Caravaggio nel dipinger pagnotte.
Il docente è visto come un ostacolo dalla gran parte dei genitori, uno che non sa comprendere il figlio e che in nessun caso riesce ad appassionare il pargolo alla materia. I professori degli altri sono sempre migliori e se il ragazzo, che avrebbe di certo avuto tutte le carte in regola per iscriversi a un Liceo Classico deve ripiegare su una scuola professionale, è colpa dei prof. che non lo hanno mai capito. In quest’ottica di alleanza tra genitori e figli il primo ostacolo che si interporrà sul cammino dell’alunno condurrà nel migliore dei casi a un crollo psicologico. Ed eccoci tornati alla questione: se tutti sono uguali allora tutti devono riuscire e se non ce la fanno la colpa non è loro. Se nella scuola primaria non si boccia più (e penso che lo stesso criterio verrà esteso presto a tutta la scuola dell’obbligo) un motivo ci sarà.
Qui non c’entrano né don Milani (ricordo che il primo capitolo di Lettera a una professoressa si intitola “La scuola dell’obbligo non può bocciare”, e si era nel 1967) né l’Enzo Maolucci dell’Industria dell’obbligo (1976) che, in due modi molto differenti, proponevano alla fine uno stesso modello di cultura libertaria e di scuola anti convenzionale. Al massimo da quei ragionamenti sono nati i Licei per tutti, quelli senza il latino, con poca filosofia e tante discipline sportive ma comunque sempre Licei così da accontentare un po’ tutti e fare più iscritti. La scuola è fatica, non dimentichiamolo: la matematica in pillole e la grammatica in una mappa concettuale sono illusioni dettate dalla nascita di Wikipedia e il sapere non lo si costruisce ascoltando un Podcast in bicicletta.
Credo che una fetta cospicua del corpo docente si senta umiliato da uno stato che, con direttive contraddittorie dettate dalle mode pseudo pedagogiche del momento, da remunerazioni non adeguate, dalla perenne disorganizzazione nell’attribuzione delle cattedre di inizio anno, da un’infilata di ministri che nella migliore delle ipotesi hanno poco a vedere con l’istruzione, non li consideri più come una componente essenziale per lo sviluppo di una nazione ma una massa di motivatori buonisti.