BrandelliBenedetta Barbetti

Avevi paura di quella finestra nera che appariva la notte. Mi trattenevi al tuo letto così grande per te così piccola che sparivi in quella nuvola di lenzuola. Lo facevi sempre. 

“Ho paura.”

Avevi paura. Paura di quello che potesse esserci in quel buio. Erano ore di stallo, quelle del tuo dormire. Ore in cui non avevi percezione di te, del tuo corpo. In quelle ore, si addensavano come corpuscoli inconsistenti squarci di immagini bizzarre, surreali, spaventose. 

Come potevi fidarti di me che ti dicevo di fidarti? Che ti dicevo che ti avrei protetta io. Non potevi. Eppure il sonno, infine, vinceva e ti portava via. Accadde lo stesso quella notte. Quella notte – diciannove anni all’anagrafe, un buco nero dentro, la macchina distrutta, i vigili che prendevano la patente e se ne andavano. Eri stesa su quel lettino freddo. Come da bambina, sembravi annegare tra quelle onde. Apristi gli occhi, cercasti i miei. Cercasti il mio sdegno, la mia rabbia, trovasti il terrore di averti quasi persa. Forse, ripensasti alla finestra nera che non il sonno, ma l’alcol ti aveva chiuso addosso. Scoppiasti a piangere. 

 

Sono brandelli di immagini che la mia mente mastica. Un intestino encefalico trangugia pezzi di me. Passano i giorni e sono sempre più nuda, sempre più sola. Sola in questa testa che si riempie di notte. Entri nella stanza, ti siedi accanto a me. 

“Mamma.”

Sei vicina. Allora perché ti sento lontana? 

I tuoi fratelli si muovono affannati per questa camera dove cercavate rifugio da quel buio. Tu lo ricordi, il nero. Se lo ricordano anche loro?

“Avrò cura di te, mamma.” dicesti dopo che il mio pugno tremò quella firma. I tuoi fratelli si erano voltati ed erano spariti prendendo la porta mentre tu prendevi la mia mano. “Avrò cura di te.”

E l’hai avuta. Con te non fui mai sola o vecchia o rimbambita. Fosti lì nei momenti di sole e in quelli di tempesta. Nei tanti di tempesta. La morte di tuo padre era stato il mulinello finale. Il risucchio nell’abisso nero che trascinava questo peso vivo ma morto sempre più giù, sempre più giù, più giù…

“Mamma.” mi dici guardandomi con quei tuoi occhi, quegli occhi che conoscono il nero che assale la coscienza e paralizza ciò che sei, la ragione, il cuore, tutto. Il nero che atterrisce e che non voglio provare. 

Mi porti via da quella camera. Hai le guance rigate dalle lacrime. Sprofondo nel sedile dell’auto con gli anni miei e con quelli che vostro padre non ha vissuto. Mi sono voluta far carico dei suoi anni, dei suoi acciacchi, dei suoi ricordi. Ho provato a parassitare dei suoi ricordi. Mi sono detta, se non posso avere i miei, almeno avrò i suoi e rimarranno integri, anche per poco, per il tempo che m’è concesso, per il tempo di sfiorare ancora i vostri volti e dirvi: “La mamma vi vuole bene.”

Friederich è di fronte a me. “Ciao, mamma.” Dietro di lui ci sei tu. Tu che stai in silenzio, lo sguardo altrove, e sei architetto della fragile impalcatura che tiene su i brandelli. 

“Chi sei?”

 

Due mesi. Più che nero, ora vedo bianco, bianco ovunque. Latte, nuvole, spuma del mare. C’è solo questo latte in cui annegare dolcemente. E mentre ti ascolto parlare col medico non ricordo. Non ricordo le liti furiose tra te e i tuoi fratelli. Non ricordo le lacrime che ti forzasti ad accettare mentre acconsentivi alla mia egoistica pretenziosità. Pensasti, pensavo, saremmo rimaste sole. Per un po’ lo fummo. Un giorno, poi, alzasti il telefono: “E’ il momento.”

“Veniamo ad aiutarti.”

Vi siete presi cura di me e io neanche riesco ad afferrare i ricordi dietro i vostri volti sconosciuti. Mi prendi la mano. Intravedo il luccichio di una siringa. 

“Andrà tutto bene, mamma.” 

La siringa si avvicina, incombe, luccica, luccica, luccica. Non voglio! Lo grido, mi dimeno. “Non voglio!” Non voglio morire. Due infermiere accorrono per tenermi ferma, il medico arretra. 

“Tenetela ferma!”

“Non voglio!”

“Di più!”

“Andate al diavolo! Non voglio morire! No!”

E poi avverto il calore. Che calore. Che peso. Troppo pesante che non respiro. Troppo caldo che non respiro. 

C’è una donna sdraiata su di me. Mi abbraccia. Piange. Urla. “Non vuole! Andate via!”

Non voglio. Un giovane uomo le si avvicina. “Non è la mamma che parla.”

“Tu eri contrario a questa cosa da subito. Io le sono stata accanto in ogni passo, prima e dopo quella firma! E ora sono io a dire no!”

Il peso di questa ragazza mi soffoca. La scaccio. Perché non se ne va? Chi è? Chi è questa maledetta, insopportabile ragazza? 

“Ti sei presa cura di lei, ora sei sconvolta, ma non è lei che parla. Non è lei.”

Non è lei. Non è lei. Non sono io. Cura… Cura. Che cos’è la cura? É la dolcezza e il calore di queste braccia? L’umido di queste lacrime che intirizziscono la camicia? Sono questi occhi, questi visi, queste sagome amate e sconosciute attorno? Abbasso gli occhi sulla ragazza. Mi guarda. Perché mi guarda? Perché mi guardi? 

“Mamma?”

E mi trovo ad accarezzarle il viso con questa mano rugosa che neanche riconosco mia. La pelle vecchia deturpa quella liscia e umida di pianto. 

“Mamma, ho paura.” piange, piangi, chi piange? Piangiamo assieme. Chi sei, chi sono?

“Non devi. Ci sarò io. Ci sarò sempre. Avrò cura di te.”

 

Ci risvegliamo insieme, bambina mia. Ci risvegliamo da questo limbo. Rimani rannicchiata sul mio petto, occhi chiusi che non temono il buio. Sorrido ai tuoi fratelli, ai miei bambini. Le infermiere, intanto, si avvicinano nuovamente al letto. 

“Abbiate cura di voi.”

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