EvoluzioneGinevra Militello
I genitori sono quella categoria che dice di amare incondizionatamente e allo stesso modo tutti i figli ma che proprio non può fare a meno di confrontarli tra loro costantemente.
L’intera esistenza di Eva è stata segnata da questa pressione. C’era come un continuo sgomitare tra lei e i fratelli per dimostrarsi il più meritevole d’affetto.
I genitori si prendono cura dei figli, li sfamano e gli insegnano tutto ciò che sanno. Ma che succede se si dimenticano di dargli affetto?
È ciò che è accaduto alla nostra Eva, la quale certamente ha avuto denaro e benefici da parte loro, ma mai un abbraccio o un semplice “ti voglio bene”. I genitori, consapevoli di questa grave mancanza, si mascheravano dietro alibi come “lavoro tutto il giorno per garantire a questa famiglia un buon tenore di vita, lasciami in pace, non ho voglia di giocare con te”, “ho da fare, non ho tempo” o, il peggiore, “sono una persona anaffettiva, non posso farci nulla”.
Certo, vista dall’esterno la sua famiglia sembra perfetta: sin da bambini tutta la gente che incontrava Eva e i fratelli diceva che sembravano dei soldatini, senza sapere che erano stati educati non tanto con le parole, quanto con le occhiatacce. Terribili sguardi glaciali da parte di entrambi i genitori e lunghi silenzi offesi della madre. Il peso del non detto iniziava già a gravare sulle loro vite.
Dal canto suo, il padre non parlava mai con i figli. Li trovava infatti poveri di argomenti interessanti. Essi stessi non sembravano degni della sua attenzione. Crescendo Eva avrebbe notato che nessun loro traguardo veniva festeggiato dal padre, completamente incapace di vedere alcunché di buono nei figli. Anche il giorno della laurea con il massimo dei voti avrebbe infatti detto “hai fatto solo il tuo dovere, non ti dirò brava. Tanto non troverai lavoro facilmente, quindi dovrò continuare a finanziarti a lungo”. Fortunatamente aveva torto, ma questa frase ci fa capire quanto in realtà quell’uomo non fosse dedito al lavoro per il bene della sua famiglia, quanto piuttosto per starle lontano e guadagnare dei soldi da spendere per il proprio diletto, ossia l’acquisto spasmodico e compulsivo di libri di tutti i generi, che nessuno a parte lui avrebbe letto ma che sottraevano spazio a tutti. La moglie lo lasciava fare dato che riteneva di dovere accontentare quell’uomo così capriccioso, narcisista, irascibile e presuntuoso in tutto e per tutto. Per lei questo significava avere cura.
Ebbene, in adolescenza, Eva avrebbe sancito di non essere meritevole dell’affetto altrui. Ella si sarebbe anche convinta che un essere umano indegno d’amore non avrebbe dovuto restare al mondo. Decise pertanto di lasciarsi andare intraprendendo, a tredici anni, un pericoloso quanto affascinante gioco a scacchi con la morte smettendo di mangiare. Ogni chilo in meno sulla bilancia le dava sollievo perché vedeva la fine della partita sempre più vicina. Partita che lei voleva perdere a tutti i costi.
I genitori non intervennero finché la gente all’esterno delle mura domestiche iniziò a mettere in discussione il loro operato come genitori. Per salvare le apparenze spinsero dunque Eva ad intraprendere delle cure che non voleva fare, che le avrebbero soltanto fatto perdere peso ancor più velocemente.
Solo a quindici anni la giovane incontrò un’amica che per la prima volta, guardandola negli occhi, le chiese come stesse e ascoltò davvero la risposta. Sembrava che finalmente qualcuno, oltre a spendere soldi per lei, volesse dedicarle del tempo, che è il dono più prezioso che si possa fare a qualcuno.
Così Eva intraprese un percorso psicoterapico che le fece comprendere quanto, a causa della non cura dei suoi genitori, si fosse ritrovata a volersi iper-curare. Era un po’ un controsenso ma facendosi così del male ella chiedeva disperatamente aiuto a sé stessa e al mondo, appigliandosi al primo barlume di speranza.
Guarita del tutto, a diciott’anni, si sarebbe ritrovata a perdere quell’amica che l’aveva salvata e con lei tutte le persone che aveva conosciuto in quegli anni, divertenti ma che, al momento del bisogno, evaporavano.
Solo a vent’anni Eva avrebbe incontrato un ragazzo che per la prima volta sarebbe stato in grado di farla sentire accettata semplicemente per com’era, senza maschere o inibizioni. Con lui, per la prima volta dopo tanto tempo, avrebbe sentito di nuovo ricambiato a pieno quel desiderio di prendersi cura dell’altro. Questa relazione l’avrebbe però messa di fronte a una terribile consapevolezza: dopo tutti quegli anni desiderava ancora quell’amore incondizionato che non aveva ricevuto da bimba ed era da folli pretenderlo da lui, come da chiunque. Probabilmente avrebbe vissuto tutta la sua vita nel terrore di perdere quel rapporto. Eppure, nonostante tutti i tentativi di liberare quel meraviglioso ragazzo dalla morsa del suo famelico bisogno d’amore, lui sembrava non voler fuggire.
Non posso continuare la storia di Eva poiché non è ancora stata scritta. Ciò che posso dire, però, è che essa può essere vista come un’evoluzione di tutte le forme di cura di cui siamo capaci: nel bene e nel male, rispetto a sé e al prossimo. Siamo capaci di perpetrare più dolore di quanto possiamo immaginare con una parola o uno sguardo, anche con ciò che non facciamo o diciamo, e dovremmo prestare più attenzione per evitarlo, comportandoci gentilmente l’uno con l’altro, perché certe ferite non vanno via.