La cura senza fineTaniya Illawatura

Prendersi cura di una persona, a cura di qualcuno, seguire una cura: sono tutte espressioni che trasmettono un significato diverso della parola “cura”. Offrire il proprio tempo, porre attenzione al dolore altrui, aiutare il prossimo sono modi con cui dimostriamo di avere cura dei nostri cari e del mondo in cui viviamo. Avere cura fa parte della natura umana, è uno stato instillato in ogni animo, ma che potrebbe accadere se ci fosse una mancanza di cura o fin troppa cura?

La storia che sto per raccontarvi è un’esperienza personale a cui ho modificato alcuni dettagli, affinché le persone coinvolte possano restare anonime. Nella maggior parte dei casi, quando si parla di cura, si considera la guarigione da una malattia oppure è la studentessa di medicina che c’è in me a pensarlo. Tuttavia, la cura di qualcuno non si limita all’uso di farmaci, ma include la dedicazione del personale sanitario verso i pazienti, le infrastrutture disponibili e i servizi di supporto che vanno oltre le terapie necessarie per un percorso continuo di cura. Ma questo percorso non appare sempre diretto e il “viaggio” di un paziente può, purtroppo, essere alquanto tumultuoso. Questo può solo essere peggiorato durante una pandemia. 

COVID-19 ha causato la perdita di tante vite. Non dimenticherò mai l’angoscia che ho provato durante il mio primo turno notturno da volontaria in terapia intensiva e vedere le conseguenze devastanti di questo virus. Tutti i pazienti erano in uno stato critico ed io avevo il ruolo di contribuire alle cure necessarie rifornendo i carrelli, pulendo e trovando gli strumenti medici. L’incontro con due pazienti mi ha colpito particolarmente. Paziente A era su un ventilatore da circa tre settimane e siccome non c’erano segni di miglioramento negli ultimi due mesi, la sospensione della terapia era la decisione che meglio tutelava il paziente.  I medici contattarono i parenti del paziente ed in mezzo al dolore che avrebbe causato alla famiglia, l’idea di perdere il paziente in questione mi fece sentire impotente. Ricordo ancora di aver pensato alle altre migliaia di persone che hanno attraversato circostanze simili in questa pandemia e un’immensa ondata di tristezza mi ha avvolto.

Mentre lasciavo la stanza del paziente A, una delle infermiere mi suggerì di parlare con paziente B, l’unico paziente cosciente del reparto. Dopo aver parlato di quanto gli mancasse la sua famiglia e il profumo di casa, mi chiese se potessi tenergli la mano. Considerando che ero già scombussolata dall’incontro con paziente A e cercando di evitare che paziente B vedesse le mie lacrime, gli dissi che lo avrei visitato più tardi, perché dovevo finire di rifornire i carrelli. In retrospettiva, non sono sicura di quanto fossi convincente e sono mortificata per la mia mancanza di coraggio in quel momento. Perché ho permesso alle mie emozioni di influenzare la mia professionalità? Rifletto ancora su questa domanda ed è stato angosciante apprendere che più tardi nella notte, la condizione del paziente B era deteriorata dato che aveva bisogno del ventilatore. 

Le implicazioni della decisione di sospendere la terapia del paziente A si basano sui principi dell’etica medica. Poiché prolungare la vita di un paziente (che sarebbe di una qualità di vita inferiore) va contro i principi di beneficenza e non maleficenza e la terapia per il paziente A stava solo estendendo la sua sofferenza. Questa è anche una forma di cura: il rispetto per la qualità di vita di una persona. 

Per quanto riguarda il paziente B, il dilemma etico è tra il mio dovere professionale e le mie emozioni. Affrontare il senso di colpa e la vergogna dopo l’incontro con paziente B è stato turbolento; ho avuto una piccola tregua soltanto perché ho scoperto che la sua richiesta è stata alla fine eseguita da un altro volontario, prima che i medici decidessero di iniziare la terapia ventilatoria. Ripensando alla mia incapacità di tenere la mano del paziente, soprattutto quando aveva bisogno di una connessione umana, la mia paura di essere vista vulnerabile deriva da uno stereotipo nella nostra società sulla dinamica tra medico e paziente. Ossia l’idea dell’individuo che si prende cura di qualcuno sia infallibile e per questo, in grado di prendersi a carico dei problemi altrui senza ripercussioni. Ma questo concetto ci illude e non rivela la fragilità umana che in fondo è anche il nostro punto di forza, siccome è lo stesso strumento con la quale proviamo empatia e siamo in primo luogo capaci di dimostrare la qualità di cura verso gli altri.

Quest’esperienza è stata una lezione di vita che mi ha fatto riflettere sull’importanza della cura in generale, ma non solo da un punto di vista medico. La cura è un dono fatto senza altri motivi. Non penso che ci sia un equilibrio tra il tempo dedicato, il concetto di iper cura o l’assenza di cura, perché le storie dei pazienti A e B si intrecciano insieme alla mia: fili intangibili, interconnessi che fanno riflettere sui valori umani e la cura dell’anima, una cura senza fine.

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