Tra colpa e cura esiste un ponteVeronica Mollo

Sento le gambe irrigidirsi e divenire compatti blocchi di granito. La gola seccarsi, come un’arida e infeconda duna desertica. Uno dei presenti mi sorride, con aria stanca ma sincera. Immagino che sia un terapeuta, qui presente per valutare il mio stato psicologico. Probabilmente avrà già carta e penna pronte dietro la schiena, ma non m’importa. Decido di non curarmene e proseguo a fatica, con l’ansia che mi cinge la gola come il nodo di una cravatta, sotto gli sguardi sorpresi degli altri degenti. Passo dopo passo, finisco al centro della sala. Sono qui da circa un mese ma non ho mai partecipato agli incontri di gruppo. Mi sono limitato a starmene in camera mia, con gli airpods nelle orecchie, ad ascoltare canzoni tristi ai più sconosciute. Dimenticate come vecchi cimeli di famiglia, posti in una vetrina ad assorbire polvere. Abbandonate come me in questo posto sperduto, lontano da Dio, a chiedermi se e quando, qualcuno si ricorderà che prima di diventare un mostro ero un ragazzo qualunque. Una persona normale, addirittura simpatica a volte. Soprattutto, ad assillarmi è quella che io definisco “la domanda delle domande”, ovvero “Anche se riuscissi a eliminare la dipendenza, riuscirò mai a redimere me stesso per ciò che ho fatto?”. Tutt’ora, la colpevolezza è un’aspra sentenza che spesso conduce l’anima alla resa. Ricordo come sono arrivato qui. Ma una grossa parte del mio essere, arenata in un oceano di devastante sofferenza, si è completamente scordata del lato bello della vita, della spensieratezza, dell’innocenza. Dell’incoscienza. Sono prigioniero del dolore da lungo tempo e, per riscattare la libertà da tale emozione, mi costringo a pagare un prezzo sempre più cospicuo e sproporzionato. Non parlo solo di denaro, ma anche di rinunce. A quante cose ho dovuto dire di “no”? Quante delusioni ho provocato alle persone che amo? Oggi però, un lampo mi attraversa inaspettatamente lo sguardo. È un’intuizione. E se davvero potessi cambiare, guarire ed essere migliore? Mi schiarisco lievemente la voce e, per la prima volta, comincio a raccontarmi.

 

«Ciao, mi chiamo Adam e sono un tossicodipendente. Nei mesi precedenti al mio ricovero, cominciai a fare un uso sempre maggiore di eroina. Ad avere sempre più debiti, sempre più nemici.» 

Gli amici li persi tutti, temevano che avrei potuto cacciarli in guai seri. E avevano ragione. Mi interessava solo una cosa: sfuggire all’angoscia, che infestava i miei giorni. Allontanarmi dal senso di vuoto per il quale vivevo sospeso da terra. E distanziare il senso di colpa che, paradossalmente, mi inchiodava alla realtà e si divertiva a scagliare su di me dardi infuocati. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di riuscire ad alleviare il mio malessere. 

«Una mattina di maggio presi l’auto del mio padre adottivo e girai la chiave. Mi ero appena fatto, e mi sentivo come se stessi a chilometri di distanza dai miei problemi. Non dovevo più pensare alle violenze subite da bambino, ai maltrattamenti fisici e verbali. In quel momento il mondo era mio, avevo il controllo ed ero avvolto dal benessere che aleggiava attorno a me come una specie di aura. Pensai che quella doveva essere la tanto agognata felicità inneggiata nei film. Ma mi sbagliavo.»

Gli occhi cominciano a bruciare e a bagnarsi a causa del peso di ciò che sto per dire. Un bagaglio immane, che mi tormenta da tempo togliendomi il sonno e la pace mentale. Mi asciugo le lacrime con la manica della felpa, prendo un respiro profondo e continuo da dove ero rimasto. 

«Innescai la retromarcia, senza guardare gli specchietti retrovisori. Senza accorgermi che, a qualche passo dal veicolo, c’era il mio fratellino di sette anni.» 

Il mio cuore salta alcuni battiti, per poi riprendere a galopparmi in petto più agguerrito che mai. Ho le mani sudate e tremo, ma devo terminare, me lo sono promesso. 

«Non appena mi resi conto che non era un incubo, frenai di colpo. Le ruote slittarono sul terreno per via della pioggia. Lo vidi a terra, privo di sensi, gravemente ferito alla testa. Ogni tentativo di soccorso fu vano. L’impatto fu così violento da causargli un’emorragia cerebrale troppo estesa per poter essere in qualche modo riparata. Non c’è giorno che non desideri di essere morto al posto suo ma…» 

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