TradizioniGiulia Agnolucci

Giacomo rientrò in casa tutto trafelato lasciandosi alle spalle il gelo degli ultimi giorni di dicembre.  Era stato via solo pochi minuti, giusto il tempo di raggiungere il piccolo ipermercato sotto casa che aveva sostituito la vecchia bottega di fiducia. A quell’ora non aveva altra scelta per reperire l’uvetta e non poteva proprio farne a meno. Sarebbe stata una dimenticanza troppo grave. Affrettò il passo verso la cucina, consapevole che non era il caso di lasciarla sola troppo a lungo, ma dopotutto cosa avrebbe potuto mai combinare? 

Lanciò un urlo quando la vide col coltello in mano. Lei era lì, al solito posto di combattimento, intenta a tagliare le patate a fette, rigorosamente alte come un dito, con aria trasognata. Ecco cosa poteva combinare.
«Ferma!! Ci penso io». Le cinse le mani e la fece scostare di lato. «Aspetta, alza le braccia».
Con un gesto quasi automatico le legò il grembiule con un fiocco: negli ultimi tempi era diventata sempre più pasticciona, gli sembrava addirittura che lo facesse a posta e doveva far ricorso a tutta la sua buona volontà per non dare di matto. Nelle giornate buone capitava che gli sparisse l’orologio o una cravatta, in quelle cattive era direttamente lei a sparire, impegnata in un nascondino goliardico e inconsapevole, in quelle pessime diventava introvabile, una presenza eterea, lontana da tutto.
«Mmm» Deda aveva aperto il sacchetto di uvetta e senza la minima esitazione si era concessa un assaggio. «Lo sapevo che quest’anno la vigna dava uva buona». La vigna di cui parlava era ormai diventata da anni legna da ardere, ma quei tempi andati erano vividi nella sua memoria. Rammentava le vendemmie con tutta la famiglia, il padre, custode burbero e silenzioso di quel pezzo di verde, i fratelli nel fiore degli anni che trasportavano le casse piene di acini dai filari sul trattore. Qualche grappolo bianco veniva messa a essiccare sul canniccio in attesa di arricchire quel piatto della tradizione che consumavano da generazioni il giorno di Natale. 
«Il baccalà è pronto?». Da giorni le aveva lasciato sul tavolo un biglietto colorato.
«Certo! È nel suo cartoccio»
Ecco. Sempre nel cartoccio. E ora chi glielo toglieva tutto quel sale al povero baccalà?
Giacomo non si perse d’animo e per salvare il salvabile si mise anima e corpo a sciacquare il pesce inteccherito sotto litri di acqua corrente freddissima.
«Basta! Basta!» Con un moto di stizza scalzò via il nipote e prese in mano la situazione. Le mani tremanti ritrovarono l’antica sicurezza mentre facevano a tocchetti il baccalà. Poi lo sistemò sulla teglia, un antico cimelio testimone di tante cene come quella, aggiunge della mollica, l’uvetta, i pinoli e le patate. Assaggiò il condimento, rigorosamente con le dita, e infornò tutto nella stufa a gas. Il risultato non sembrava poi così male. E pensare che a lei neanche piaceva il famoso ‘baccalà arracanato’, ma lo cucinava sempre la sua mamma nei Natali trascorsi nel profondo sud, quando lei era ancora una bambina. Il più era fatto, ora doveva solo aspettare. 

Il salotto buono sistemato per le grandi occasioni faceva da sfondo al chiacchiericcio animato della famiglia. A un estremo del tavolo, quasi incastrati tra le fronte dell’abete stracolmo di decorazioni, i nipoti avevano creato l’angolo gioventù. Al centro, i grandi si aggiornavano sui classici discorsi di rito, lavoro, politica, problemi con le maestre. Ed eccola, col passo strascicato amplificato dalle pantofole ortopediche e con le guance arrossate di malcelata emozione, la nonna Deda raggiunse i commensali portando con sé il piatto che li riuniva per le feste. Si sedette alla destra del capotavola, perché non importava da quanto li avesse lasciati il marito, quel posto sarebbe sempre stato suo. Lanciò un’occhiata al maggiore dei nipoti, fedelmente seduto di fronte a lei.
«Eddai, mangia che è opera tua».
Giacomo era felice e il cuore gli rimbombava nel petto. E non era solo per il sale nel baccalà.

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