Zucca vuotaElisa Antonella Borhan

Gli abitanti di Serpinia lo sapevano bene che quando arrivava sera dovevano stare tutti chiusi nelle loro stanze e non uscire più. Dovevano mangiare presto e fare poche domande. Nessuno poteva andarsene da Serpinia. Tutti dovevano svegliarsi all’alba e seguire il programma della giornata redatto con meticolosa cura il giorno stesso dal Grande Palomo. 

Il Grande Palomo era un uomo alto e paffuto, con dei baffi ridicoli che sembravano due scivoli e con due lenti a fondo di bottiglia che gli slittavano sempre fino alla punta del naso costringendolo il più delle volte a non vederci più niente. Perché se c’era una caratteristica per cui brillava il Grande Palomo era proprio quella di non vedere niente lasciando che qualsiasi avvenimento accadesse senza prestarci particolare attenzione.

Gli abitanti di Serpinia erano abituati all’attitudine del Grande Palomo e spesso si divertivano a schernirlo. Ciò che si sforzavano di tollerare era piuttosto la superbia di Minerva, la direttrice di Serpinia. Anche lei era alta, aveva un naso a punta, tipico delle streghe e aveva in testa un cesto di capelli neri sgangherati. Era definita dagli abitanti con l’appellativo di “Medusa”, perché col suo sguardo pietrificante intimoriva tutti. Eh sì, proprio tutti… tranne uno. 

Ogni domenica Minerva passava a controllare che tutto si svolgesse secondo i suoi piani e le sue regole e chi diventava disubbidiente veniva spedito di corsa a Isolemme, per giorni o mesi, tutto dipendeva dalla gravità dello sgarro compiuto.

Romolino ne aveva passate di giornate a Isolemme. Era arrivato a Serpinia quando aveva solo sei anni e si era improvvisamente trovato di fronte a una realtà molto più grande di lui. Adesso ne aveva il doppio, ma era pur sempre un bambino. Dentro Serpinia era riuscito a stringere un legame speciale con la sua amica Milli, che lo aveva accolto nella sua stanza e lo accudiva – per quanto riuscisse – come una nonna. Milli, purtroppo, non era sempre in grado di stare al passo con l’enorme reattività di Romolino, sia per via dell’anziana età che delle nevrosi che avevano costretto suo marito, con profondo rammarico, a condurla a Serpinia. 

Lì non c’erano altri bambini, c’era solo lui, Romolino, che era un vero e proprio diavolo della Tasmania. Non stava mai fermo, era sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da scoprire, ma Serpinia era troppo piccola e angusta per contenere tutta la sua curiosità. Ed era proprio a causa della sua incontenibile voglia di esplorare e dei suoi continui capricci che Minerva lo aveva spedito frettolosamente a Isolemme. Lì la vita era dura. Chiunque vi arrivasse sapeva che non avrebbe passato giornate felici. Tutti ne avevano il terrore. 

A Isolemme Romolino aveva una sola e unica ora di libertà in cui poteva uscire dalla sua stanza, e ovviamente nessuno a cui fosse permesso andare a trovarlo, se non i cosiddetti Caramellai, che si occupavano ogni giorno di portare a Romolino il suo cibo e le caramelle che lo calmavano. Alcune decideva di prenderle, mentre altre non le sopportava proprio, tanto che le buttava a terra, le calpestava o gliele risputava addosso come se al posto della bocca avesse una cerbottana. 

Ne aveva passate tante Romolino, fin dalla tenerissima età. Quando aveva sei anni aveva già sperimentato sulla sua pelle cosa fosse il dolore. Sotto la folta chioma castana che gli copriva la fronte, celava con grande vergogna una cicatrice che partiva dalla tempia sinistra e correva lungo tutta la fronte fino ad arrivare alla tempia destra. Quell’orrore era tutto ciò che gli ricordava di aver avuto una famiglia, una famiglia – sempre che possa essere definita tale – che lo aveva privato della sua innocenza riducendolo a un semplice sacchetto d’immondizia. E proprio tra le buste di fetido pattume lo aveva ritrovato un anziano signore qualche mese prima di portarlo a Serpinia. 

Romolino aveva avuto la sfortuna di essere nato bambino, ma di essere cresciuto strumento. Strumento di due persone che erano state in grado di riversare contro di lui tutte le loro frustrazioni. E così una sera uno dei due accusò l’altro di aver messo al mondo una zucca vuota, ma per esser certo di non cader nel torto volle letteralmente dimostrare all’altro che dentro la testa di Romolino non c’era niente. Nacquero così la cicatrice e la forte convinzione di essere un’autentica zucca vuota che quel bambino portava con sé. Ed era un vero paradosso che fosse proprio quella convinzione l’unica cosa in grado di riempirgli la testa. 

Quel pensiero ronzante lo tormentava, lo innervosiva e spesso lo distraeva perfino dalla monotonia dei suoi giochi. Romolino era in grado di dimenticarsene per qualche ora o al massimo per qualche giorno, ma poi eccolo che si insinuava subdolamente come un verme velenoso nella sua razionalità. 

In verità, il pensiero fisso di avere una zucca vuota era diventato talmente assiduo che lo aveva portato a distogliere la sua attenzione da quella che era la cosa più importante, cioè avere un pensiero. Ciò di cui Romolino non riusciva proprio a rendersi conto è che quel pensiero era la prova lampante del fatto che la sua zucca era fin troppo piena.

SCOPRI TUTTI I RACCONTI