Da grande Alberto Favaro

Leo guardò Sara uscire dalla stanza. Non voleva addormentarsi. Non così presto.

“Sara, mi lasci la porta aperta? Ho paura” le disse con una vocina flebile. 

Sara lo guardò e sorrise.

“Va bene, ma solo per questa sera. Buona notte Leo e non pensare troppo prima di dormire. Dai che domani andrai in gita e poi torneranno mamma e papà”.

Spense la luce e uscì, lasciando la porta semiaperta.

 

Leo cominciò a pensare, come sempre. 

La maestra glielo diceva che pensava troppo, che doveva essere più allegro, che se non si divertiva da bambino quando lo avrebbe fatto?

 

Divertirsi? Con tutto quello che succedeva nel mondo? La fame, le guerre, le malattie, i virus. Come non pensarci? Come facevano gli altri bambini a non capire? Bisognava fare qualcosa, trovare una soluzione. 

Ci avrebbe pensato lui. Da grande avrebbe fatto qualcosa di importante. Avrebbe dato un contributo a migliorare il mondo.

Sì, ma come?  Sicuramente doveva studiare. Ma cosa? 

Cosa sarebbe diventato da grande? Un avvocato per difendere i deboli?

Un giornalista per raccontare la verità? Un politico? Un medico? Un biologo? Un fisico? Un chimico? Oppure un ingegnere? Un astronomo? Un…

 

Anche Sara nella sua stanza non riusciva a dormire. 

Sentì vibrare il cellulare. Un messaggio di Ezio.

“Hai deciso?”

Gli avrebbe risposto il giorno dopo.

Accese il computer. Le restava da completare l’ultimo capitolo. Il relatore le aveva detto che la sua tesi di dottorato era ottima. Un contributo scientifico notevole. Non era un caso che una famosa università americana le avesse già offerto un contratto. 

Iniziò a rileggere quanto aveva scritto. Era quasi perfetto. 

 

Leo, nel frattempo, aveva smesso di pensare al futuro e si era addormentato.

Era arrivato il sogno. Quello che al risveglio non riusciva mai a ricordare. 

È su un palco, lo stanno premiando.  

In prima fila ci sono mamma e papà. Sara non c’è. 

Ora sono in auto. Nevica. É buio. Papà è allegro, scherza con la mamma. 

Tutto diventa bianco. 

Poi c’è il buio.

Sente freddo, caldo, ancora freddo. Sente urlare. Tornano i colori. 

È la mamma, sta piangendo, papà è appoggiato sul volante. Non si muove. Mamma è piena di sangue. Urla. Viene verso di lui. Cade. Si rialza. Lo abbraccia. Torna il buio.

 

Il cellulare cominciò a vibrare. Sara rispose subito.  Non controllò chi fosse. Lo sapeva.

“Ciao. Che c’è?”. Non voleva essere sgarbata ma non se la sentiva di discutere anche quella sera.

“Ho visto che hai letto il mio messaggio. Perché non mi hai risposto?” le disse Ezio.

“Scusami ma non ho proprio avuto tempo” rispose Sara.

“Sara, non puoi rimandare all’infinito. Ti devi decidere. Hai ventotto anni. Devi scegliere cosa vuoi fare della tua vita. E io devo capire se ne farò parte. Non possiamo proseguire così. 

Sara, ho accettato la proposta degli americani. Io partirò. Tu verrai con me o no?”.

“Ezio non posso decidere ora. Non ce la faccio”.

“Sara, lo sai come la penso, Non è stata colpa tua”.

“Tu non sai nulla Ezio, non sai proprio nulla. Non posso lasciarlo”.

“Non vuoi. É diverso”.

Ezio interruppe la comunicazione.

Sara per un attimo pensò di richiamarlo. Poi spense il computer e si addormentò

 

Tutto torna bianco. La mamma mi guarda. Continua a guardarmi.

“Mamma, sei arrabbiata? Cosa ho fatto di male? E papà? Perché non si muove? Mamma, parlami. Mamma! Mamma!”.

 

Sara sentì le urla. 

Come ogni notte alle due. 

Era accaduto a quell’ora. 

Il ghiaccio, la neve, forse un colpo di sonno. 

Suo padre era morto sul colpo. Sua madre l’avevano trovata poco distante abbracciata a Leo.

Leo aveva solo otto anni. Il suo fratellino così intelligente nato dieci anni dopo di lei.

La mamma non ce l’aveva fatta. Leo sì, ma era rimasto come un bambino di otto anni. 

Un bambino che ogni giorno rinasceva senza ricordare nulla del giorno prima. 

Un bambino nel corpo di un diciottenne.

 

Doveva esserci anche lei in quella macchina. Aveva anche litigato con suo padre. Non era andata a quella stupida premiazione. Lei aveva diciotto anni, era adulta, poteva decidere di fare quello che voleva. 

Era rimasta a casa. 

Se fosse andata con loro sarebbero tornati prima, forse papà non avrebbe bevuto, forse sarebbe stato più attento. Forse… 

 

Leo stava continuando a urlare. 

Stava peggiorando. Così le avevano detto i medici. 

L’eredità con cui aveva pagato le cure, la scuola speciale per Leo e i suoi studi all’Università era quasi finita.

Doveva decidere cosa fare. 

C’era l’istituto.

Ezio aveva trovato un modo per farlo ricoverare quasi gratuitamente. E se fosse stata la cosa giusta? Solo così sarebbe potuta andare in America e proseguire nei suoi studi. 

Non era quello che sognava sin da bambina?

 

“Mammaaaa”. 

 

Si alzò e corse da lui. Lo trovò a terra.

 

“Leo cosa c’è? Cosa hai?”.

Leo la guardò, come se non la riconoscesse, come se stesse arrivando da un luogo distante, da un tempo lontano.  Poi si riprese.

“Ciao Sara. É già mattina? É ora di andare in gita?”.

Non ricordava nulla di quello che aveva sognato. Come sempre.

“No, no. Hai solo avuto un incubo. Dai, prova a dormire. Vuoi che resti qui con te per un po’?”.

“Sì, Sara, leggiamo un libro? Anzi no, posso chiederti una cosa?”

“Che cosa, Leo?”

“Sai, è una cosa che mi chiedo sempre e non riesco a trovare una risposta giusta. Forse perché ne ho troppe”.

“Cosa sarà mai? Dimmi Leo, se posso risponderti lo farò volentieri”.

“Sì, son sicuro che potrai farlo”.

“Allora chiedimi, sono curiosa”.

 

“Sara, dimmi, cosa farai da grande?”.

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